venerdì 7 gennaio 2011

Elogio dell'ozio

Lo scorrere dei giorni, soprattutto di quelli vacanzieri, può essere con stupore accompagnato da momenti rari e preziosi, abitati solo dall’ozio.

L’ozio è una figura che, come una crepa, segna e si insinua nello scorrere inesorabile del tempo che passa e che essa pare sospendere e lasciare appeso, in attesa, insieme al flusso inarrestabile del nostro fare.

Anche quando non siamo sollecitati dal lavoro, fuggiamo l’ozio, esorcizziamo in mille modi il fantasma della perdita e dello spreco del tempo e con esso i sensi di colpa che si accompagnerebbero alla nostra incapacità di efficienza, di resa produttiva, di fare operoso. Insieme all’ozio fuggiamo la noia, il già visto, l’inutile, a favore di orizzonti sempre nuovi, effervescenti e luminosi.

L’ozio, come tutti gli aspetti più oscuri, notturni, della nostra esistenza, può ancora farsi largo, nella nostra esistenza, come una “protesta dell’anima e del cuore” (Hermann Hesse), come un invito, figlio della materia tenebrosa, a lasciarci rallentare e sedurre dalle possibilità del tempo di dilatarsi e di discendere, di approfondirsi.

Potremo allora raccogliere il suggerimento di Thomas Moore quando sollecita a rifuggire da uno sfrenato attivismo, per prendersi cura dell’anima, confidando che “molto possa essere portato a compimento grazie al non fare”.

Oziare, dunque, rallentando il nostro Io eroico, mettendolo tra parentesi, umiliandolo anche un po'. Al suo posto, dare spazio ad altro, fare anima, per seguire l’insegnamento di James Hillman: invece di crescita e luce, “fantasia, immagine, riflessione, visione interiore, e anche rispecchiare, trattenere, cuocere, digerire, spettegolare, fare da eco, dare profondità”.

Chardin ci consegna l’immagine di un uomo, colto nell’incanto sospeso del momento in cui fa una bolla di sapone: lo sguardo assorto di chi si stupisce e si attarda a contemplare una piccola meraviglia.

Sarà allora ancora possibile ritrovare quest’oziare nella nostra quotidianità, abitare questa terra di mezzo che ci potrebbe consentire un accesso alla parte più notturna di noi stessi, ad andare oltre l’immediato e il visibile? Sarà allora ancora possibile oziare da soli o con altri, magari anche insieme ai nostri bambini e (perché no?) ai nostri studenti? Insegnare ad oziare: a godere di un tempo sospeso, in cui apprezzare una musica ma anche un silenzio, a guardare insieme un dipinto, a fare una passeggiata, a immaginare il volo di una bolla di sapone...

giovedì 6 gennaio 2011

Jung, il rosso


Eccolo l’oggetto scomparso e resuscitato. Il “sancta sanctorum” disseppellito che custodisce il “segreto”. Massiccio, “prezioso”, come il contenitore che Jung prescriveva di adottare per iscrivervi l’annotazione diuturna delle proprie fantasie ai suoi pazienti più cari, intrattabile.
Un volume che ti fissa e ti inghiotte, nella sua proliferante densità e nella sua fascinosa “inattualità”. Che chiede spazio, e tempo, come ha sovente dichiarato l’unico che davvero lo conosca a fondo, per ora, il suo traduttore, curatore, commentatore e chiosatore, Sonu Shamdasani. Il tempo di accoglierlo, con l’imbarazzo, anche fisico, che somministra a chi lo incontri, per destino o per scelta, il tempo di addentrarvici, come ci si addentra in una fitta e oscura foresta, per quanto dotata di segnali e indicazioni orientative, il tempo di sostare nei trivi più intricati e nelle radure improvvise che offrono agio alla meditazione, il tempo di immedesimarsi con l’opera di un gigante, gigante ben noto e tanto più temuto, remoto e ostracizzato proprio per la ubris e per la imponenza delle sue imprese.
Un testo miniato, come nella tradizione medievale cui l’autore affermò di volersi ispirare, per immergersi in quel medioevo psichico e spirituale di cui avvertiva il profondo bisogno, un testo scolpito e dipinto, cifrato e istoriato, un testo dai mille volti e dalle molteplici vie di approccio e di smarrimento.
Una fantasmagoria mitico-religiosa al tempo stesso critica e rifondativa, unione impressionante di una nékuia patita fino allo spasimo e di una tensione ermeneutica infaticabile e ostinatissima. Successione di registri stilistici eterogenei ma mai casuali, dal narrativo al poetico al profetico, con l’intermittenza incandescente delle immagini, formidabili exempla al confine di ogni linguaggio della raffigurazione, capaci di congiungere, con una strabiliante erudizione iconografica, le visioni di Blake, il simbolismo di Redon, il Dadà, i mosaici ravennati e bizantini, il simbolismo celtico, la pittura di sabbia navajo e le maschere di giada azteche. Il tutto per addensare, in una stratificazione prodigiosa, i molteplici livelli di un viaggio agli inferi che è una compiuta trasmutazione alchemica, una lunga e ripetuta nigredo, un’iterata, ardua, sofferta liberazione al calor bianco in vista di una impossibile rubedo. Perché uno degli aspetti più traumatici e sorprendenti di questa lettura, di questa immersione visionaria, è la ripetuta, continua, reversione che il “pellegrino” dai capelli dalla foggia di paggio deve subire da tutti i suoi interlocutori -“personificazioni” figurali di un poliverso archetipico-, verso l’abisso del negativo. Jung è costretto, nel suo “confronto con l’inconscio”, ripetutamente e implacabilmente, a ridiscendere nella “selva oscura”, a imbattersi nello sgradevole, nel dannato, nel ripugnante, nell’orrido e nell’abissale, non solo come termini di passaggio in direzione di un’emancipazione definitiva, ma come elementi di cui introiettare progressivamente l’irriducibile necessità, la stabile e omeopatica presenza nell’esperienza psicospirituale.
Il male dunque necessario in una impareggiabile e scenografica prova di “dialettica negativa” che il propugnatore dell’individuazione come “cerca” del centro sembra almeno qui non poter elaborare diversamente e comunque non senza tragiche lacerazioni. Questo fatto, nella concreta e raffinatissima emergenza di episodi dalla crudezza abbagliante e rivoltante, come quando la personificazione velata di Anima lo costringe a strappare e a cibarsi del fegato di una giovinetta straziata e uccisa, è certo uno degli elementi più inattesi e folgoranti dell’opera. Qui Jung rivela veramente l’ “Ombra”, si manifesta come il profeta oscuro, Jung il rosso, avrebbe detto Thomas Mann, iscrivendolo nella genealogia di Ismaele ed Esaù.
“Costellare la follia, la morte, il maligno” potrebbe suonare la sintesi di un percorso al termine della notte di questo Jung “nel mezzo del cammin” (tra il 1913 e il 1930), sprofondato nelle sue fantasie inconsce. Un inconscio, si badi bene, elaborato, decantato, domato dalla comprensione ermeneutica, ma floridamente esposto in figure e personaggi, -da Elia a Filemone- indimenticabili e dotate di una saggezza cupa e inflessibile.
Un grande affresco di riforma religiosa anche, oltre ogni confessione, teosofico e politeistico, all’insegna di una “gnosi” mai potente come qui, capace di convocare Silesio e Maister Eckhart, ma anche e soprattutto Nietzsche, per dialogare con essi e per negare la morte di Dio, o meglio per eufemizzarla. Operazione che Jung prescrive al divino stesso, in un paragrafo formidabile, dove aiuta il dio ferito, Izdubar (Gilgamesh), ferito dalla secolarizzazione e dalla ragione scientifica, a rinascere sotto forma di immagine, di evento eminentemente psichico e simbolico. “Fatti immagine”, dice al dio malato, che non senza disappunto infine acconsente, accedendo così al proprio risanamento e facendosi a tal punto piccolo da poter essere racchiuso nell’uovo (immaginale) della resurrezione.
Il sacro si fa psiche senza perdere nulla della sua trascendenza, della sua iconica e policentrica plasticità, della sua costitutiva inaccessibilità, dal momento che il suo raggiungimento presuppone l’infernale e interminabile travaglio del negativo e il balenare del fanciullo divino solo per attimi e per frammenti.
Eccolo dunque il Libro rosso, il “Liber Novus”: esercizio d’anima, esempio fortunatamente incompiuto di conoscenza come “gnosi”, senza cesure tra inferiore e superiore, tra intelletto e immagine, monumento di conoscenza contraddittoriale, “dissolutio” dell’ego in Anima, in una miscela mai risolta di zolfo e mercurio, itinerario di trasmutazione che rivela di Jung la petizione non più disconoscibile ad una epistemologia irrazionale di cui allora Hillman risulterebbe davvero il più fedele “traditore”, il prosecutore del viaggio immaginale decisivo e necessario. Quel libro giudicato dallo stesso Jung così centrale, il “reattore nucleare” della sua opera, secondo Shamdasani, nascosto forse per non dispiacere troppo al mondo suo contemporaneo ancora incapace di avvicinarsi ad una fonte così impegnativa e scabrosa. Eccolo, il morto rinato.
La sua apparizione segna dunque uno sgelamento, un’apertura verso l’ìimpossibile, l’accesso delle epistemologie odierne alle vie dell’invisibile di cui certo Jung è stato uno dei massimi esploratori, o invece ancora v’è bisogno di “traduzione”, di accomodamento, di urbanizzazione?
Noi accogliamo questa uscita, estrema e scintillante , cospicua e invasiva, come una possibilità e un invito. Sperando che il “libro rosso” non diventi il “libretto rosso” della comunità degli evangelizzati in Jung ma la soglia, al tempo stesso tragica e abissale, di un’altra via al conoscere, oltre le barriere di una psiche che non è dentro e non è fuori, ma che è la tensione immanente che trama il tutto, come un magnetismo, come un reticolo dalle molteplici aperture e dall’irriducibile ustione carnale e il cui epicentro è il viaggio immaginale, sulfureo, nel flusso delle intensità incalcolabili.

mercoledì 5 gennaio 2011

Miseria e sconforto dell'uomo a una dimensione(ma anche meno), Marchionne


Provo una grande pena per il povero Marchionne, e non mi si fraintenda: una pena vera, autentica, profonda. Quest’uomo dall’inarrivabile successo, dal gigantesco patrimonio, dal ruolo invidiatissimo e stimato da un numero enorme di persone, fa davvero tenerezza.

La pena, quasi il cordoglio, scatta non appena lo si vede, triste e bolso, con quel ridicolo unico e obbligatorio maglione blu. Forse uno dei tanti “look” simbolici che ha imparato ad assumere (seppur con dolore e sofferenza) per assomigliare al concetto di riconoscibilità che i professionisti dell’immagine dichiarano “efficace”: forse dovrebbe evocare, con una strizzata d’occhio, la somiglianza con le “tute blu”?. Pensatelo la mattina: non ha scelta. Davanti alle possibilità smisurate che il suo portafogli gli aprirebbe, di modificare, ogni giorno, immagine, taglio di capelli, foggia delle scarpe, eccolo condannato a questo insignificante e del tutto invisibile abbigliamento, che ne fa una via di mezzo tra il professore di applicazioni tecniche e il tardivo studente di canto gregoriano. Povero Marchionne, la nuova “icona” dei top manager degli anni 0.

E poi sentiamolo parlare: è sconcertante. Anni e anni di studi, di esperienze all’estero ed ecco che se ne esce con un “codice linguistico” che Bernstein avrebbe solo potuto definire “ristretto”, ma con un eufemismo. Un nastro rallentato cacofonicamente nasale, mellifluo e ripetitivo, come quello che potrebbe produrre un carillon guasto, in cui si distinguono per occorrenza inesauribile tre vocaboli, raramente coniugati o declinati nelle loro diverse forme: “produrre”, “profitto”, “costi”. Il tutto a voce bassa e monocorde, come un flicorno svizzero. Niente, non se ne cava nient’altro. Nulla gli balena di più stimolante di quei tre vocaboli e delle loro infinite possibili combinazioni. “Abbassare i costi per produrre profitto”, “il profitto nasce dalla diminuzione dei costi e dall’aumento della produttività”, “i costi non possono aumentare altrimenti la produzione non permette di ottenere il profitto”, e così all’infinito. Che miseria, che tristezza, che ingiustizia perfino. Ma possibile che sia stato programmato in maniera così drastica da non lasciare alcuno ad altre espressioni, magari qualche aggettivo, o addirittura qualche avverbio? Niente da fare. Non si riesce a scucirgli altro. Chissà se un logopedista o un terapeuta del lessico potrà mai suscitare in quella mente straziata dal jet lag e dalla mancanza di riposo il dubbio che non tutto il sale della vita possa essere compendiato in quelle tre parolette? Di contro occorre riconoscere che sa la geografia. Nel suo cervello le fonti di profitto e i mezzi di produzione possono essere collocati indifferentemente all’est come all’ovest, al sud come al nord, India, Pakistan, Sudamerica, Polonia, ma sempre purchè i costi possano essere ridotti.

Guardandolo non si può resistere allo slancio caritatevole, al desiderio di aiutarlo, povero Marchionne, costretto a dire sempre le stesse cose. Certo i rinforzi gli devono essere stati somministrati a meraviglia, da grandi programmatori. Ogni volta il suo condizionatore personale, il personal trainer, gli diceva, bravo Marchionne, ripeti ancora, ripeti ancora. E via carezze, e poi caramelle, e poi soldini. Povero Marchionne.

Tuttavia la cosa più amara e deprimente è quando, in brevi e appassionate confessioni, cortocircuiti della sua meccanica inesorabile, gli sfugge qualche confidenza su di sé, sulla sua vita intima. Una volta, con un tremito di imbarazzo, ha dovuto ammetterlo. Niente, non ce l’ha. Lui lavora tutto il tempo, sempre, forse riesce a riposare un’ora o due al giorno. Per il resto sempre e solo lavoro. Ha moglie, ha figli ma niente, non li vede mai. Questo è davvero vergognoso. Possibile che un uomo possa essere stato tanto deprivato, tanto anestetizzato, tanto asservito alla macchina da cui dipende, da non riuscire a ribellarsi a questo? Possibile? E poi, un così importante personaggio?

Che discorsi si farà nell’oscuro delle sue due orette di riposo, nei divani superaccessoriati della business class, nelle suite d’albergo di cui neppure può sfruttare tutti gli innumerevoli pregi, gemente e febbrile? Che cosa si racconterà, quando l’ennesima giornata sarà passata e si sarà reso conto di aver usato per ventidue ore filate sempre le stesse parole, di essersi vestito sempre con lo stesso ormai consunto maglioncino blu e di aver sacrificato tutto il tempo che umanamente un uomo può dare per una causa come quella della pur reverendissima multinazionale Chrysler FIAT? Che cosa si racconterà?

E noi, cosa possiamo fare? Come possiamo aiutarlo? C’è un modo di curare un caso di tale gravità? Che si può fare per lenire il dolore terribile alimentato in lui dal silenzio e dalla repressione? Che fine avranno fatto lo spirito libero, il desiderio di avventura, l’ amore per gli animali, la cura di sé, i piccoli vizi, il piacere di un lungo riposo al mattino, nel lettone, e poi una bella partita a tresette, con gli amici. E fare l’amore per ore, mangiare con gusto, guardare il mare…

Come si può risarcire un uomo che rinuncia a tutto questo per il bene della sua impresa, certo com’è, oltre tutto, che quel bene corrisponda al bene di tutti, al bene del mondo? Come si fa mi chiedo, e me lo chiedo nello sgomento e nello sconforto…

martedì 4 gennaio 2011

Claudio Naranjo, ultima guida onnilaterale


Il nome di Claudio Naranjo deve essere aggiunto a quelli dei pochi maestri, per lo più scomparsi ma inesorabilmente vivi, che possano favorire la nascita di una cultura dell’educazione finalmente emancipata dall’inettitudine dei suoi artefici e dalla rigida e greve fissità delle sue geometrie penitenziarie.
Naranjo, che è uno straordinario pensatore cileno, una rara personalità onnilaterale e multiculturale, ancora vivente, ancora in azione sul fornte della diffusione di un pensiero plurale e divergente, ci illumina sui guasti di una civiltà che giustamente egli dichiara ancora murata nella sua ispirazione “patriarcale”, obsoleta e pervertitrice. Una civiltà che avanza ancora al seguito di una vocazione illuminatrice e desertificante, gerarchica e normativa, incline al produttivismo cieco e alla maleficazione di tutto ciò che appartiene all’emozione e all’immaginazione, alla bellezza e al desiderio.
Nella sua raffinata architettura personologica, conosciuta come teoria dell’Enneagramma, Naranjo ci insegna a riconoscere i segni di questo danno persistente e feroce, nell’ipertrofia delle funzioni della vanità egocentrica e del controllo , nell’effervescenza di una virilità ancora prometeica e faustiana e in quello che io chiamerei, seguendo un’attribuzione di taglio più archetipico, il primato della coppia Senex-Saturno. Certo, la post-modernità sembrerebbe orientata, come è stato osservato da molti disincantati analisti, più dall’imperativo del godimento e della fluidificazione delle esperienze, dalla disseminazione e dal ritorno del rimosso. Eppure, in un tempo di forti anacronismi, l’educazione, la ricerca, i propositi del mondo economico, non sembrano affatto andare in sintonìa con questi forti rivolgimenti. Al contrario, ancora una volta è un consumo e un piacere simulacrale e manipolatorio quello cui si è consegnati e l’imperativo a godere appare il mascheramento di un mondo dominato ancora in profondità dal normativismo patriarcale e dalle leggi della produzione e della prestazione. Il nucleo profondo che è ben lontano dall’andare in crisi, che a mio giudizio Naranjo ci consente di focalizzare maggiormente, nel profilo di questa dannazione inestirpabile, è riassumibile nella componente “intellettualistica”. Si tratta di un rilievo cruciale che avvicina la sua diagnosi all’insistenza con cui un altro grande, Gilbert Durand, faceva notare, diversi decenni orsono, il dominio di un regime diurno dell’immaginario nella civiltà contemporanea, e cioè lo strapotere delle forme ispirate alla separazione e all’astrazione, all’elevazione e alla geometrizzazione in tutti i campi in cui si estrinseca in profondità ma anche in superficie (basti guardare alle forme dell’architettura delle istituzioni educative o alla forma dei suoi testi e dei suoi meccanismi procedurali) il pensare e l’agire dell’uomo moderno.
E’ questo il cancro del nostro tempo, nella misura in cui esso non è compensato dalla cura e dall’incremento delle componenti femminili ma anche infantili, ludiche e dionisiache, in ogni ambito dell’esistere: ciò che Naranjo definisce la necessità di una “trinitarizzazione”, al’insegna del recupero simbolico, accanto al padre, della madre e del figlio, da non intendersi in senso tradizionale e moralistico, ma come forme e figure che impongano il rispetto delle dimensioni di cura e compassione nei confronti del tutto, insieme alla rivendicazione delle componenti vitalistiche e dionisiache del desiderio e del piacere. E dove il padre, come figura simbolica, ricoprirebbee la funzione di richiamo alla venerazione del misterioso e del sacro, come aree di trascendenza non teologizzate, indirizzate alla limitazione dell’umano. Da quest’ultimo punto di vista la critica di Naranjo alle confessioni nelle loro prassi dogmatiche è radicale, proprio in quanto troppo spesso piegate ad una patriarcalizzazione patologica delle strutture sociali e affettive della vita e soprattutto disinteressate al legame imprescindibile con il cosmo e l’ambiente.
Naranjo concilia semmai le antiche tradizioni spirituali orientali e occidentali richiamandoci alla pratica dello svuotamento ma anche all’esercizio spirituale dell’autoconoscenza come decostruzione dell’io e padronanza della “flexibilitas” psicospirituale necessaria a recepire l’esperienza del mondo. Simultaneamente, senza confinarsi in una deriva neoascetica, chiama alla centralità del corpo, del piacere, del desiderio, con un decisivo appello alla componente dionisiaca della vita e con il lento lavorìo necessario a ricucire le inevitabili ferite e frustrazioni affettive di un’infanzia normalizzata.
Naranjo si dimostra un maestro di quel necessario rivolgimento che il nostro tempo attende per risarcire le forme dell’ esperienza umane defraudate e asservite alle logiche mercantili e alla ragione calcolante, per restituire loro il prisma moltiplicativo che l’antica alchimia mirava a realizzare tra integrità, generosità e totalità. Occorre, al seguito della sua lezione, ritrovare il legame perduto e le assonanze reticolari che consentano al mondo di articolare la sua pluralità in un cosmo unitario ma differenziato nel quale emozioni, desideri, consapevolezza e azione si coniughino in una mobile e virtuosa complementarità.
E’ a questa complementarità complessa e ardua che l’educazione deve guardare per farsi “salvifica”- come egli vorrebbe che fosse-, è alla necessità di una tale trasformazione che dovrebbe piegarsi una educazione finalmente vivente e appassionata per contrastare l’esercizio normativo e manipolatore che tuttora e sempre più, le istituzioni soggiogate alle leggi del mercato, sembrano intenzionate a promuovere con progressiva veemenza.

sabato 1 gennaio 2011

Del piacere per il gioco

Della necessità e dell'emergenza di affermare e infondere eros, passione e desiderio per il sapere nei luoghi scialbi e annoiati della formazione, come ingredienti essenziali per alimentare e rendere l'esperienza conoscitiva unica e indimenticabile, palpitante e generativa, sorprendente e trasformativa è la premessa e l'urgenza di questo post.
Del piacere per il gioco vuole provare ad evocare e a testimoniare, per ombre e riflessi, l'esperienza in un contesto educativo che apre ogni giorno il sipario al teatro del gioco e sul cui palcoscenico, emergendo dallo sfondo del mondo reale, appaiono e si muovono cose e persone in un tempo e in uno spazio "magico". Uno spazio e un tempo speciale, ambiguo e ambivalente che si situa entro il mondo reale ma che situa nel mondo del possibile, in un "ultramondo", direbbe il filoso spagnolo Ortega y Gasset, riconoscendo e sottolineando la "virtù magica" del gioco e del teatro di trasformare il reale per rap-presentare e mostrarci in trasparenza l'irreale, per condurci in una sfera immaginaria che sospende momentaneamente il fluire della vita. Anche l'immagine di Paul Klee sembra aprire il nostro sguardo su un altrove, su un altro mondo, un mondo acquatico e terrestre, notturno e diurno, fermo e fluttuante, delimitato e diffuso, interno e rivolto all'aperto, naturale e artificiale, umbratile e luminoso, giocoso e grave, attraversato da linee impercettibili e marcate di vita e di morte. Ogni singolo tratto, ogni elemento e ogni sfumatura di colore richiederebbe di essere ri-guardata e riletta, ci interroga e ci indica innumerevoli vie di significazione possibili che qui ci siamo limitati ad accennare ma che sembrano iniziare a nominare i tratti poliedrici, polisemici e ambivalenti del gioco e che abitano il particolare contesto educativo dello Spazio Gioco, di cui si vuole provare a lasciare una traccia.
Lo Spazio Gioco è un servizio educativo gestito e promosso dall'associazione L'abilità, strategie familiari nelle disabilità della prima infanzia. L'associazione opera a Milano dal 1998, proponendosi di intervenire laddove non arrivano le istituzioni e i servizi, insinuandosi nella zona misterica del danno, del dolore, della sofferenza nelle loro molteplici e imperscrutabili manifestazioni, laddove precipano le famiglie, con la finalità di costruire opportunità di benessere per il bambino con disabilità, offrendo sostegno ai suoi genitori e promuovendo una cultura più attenta ai diritti delle persone con disabilità. Lo Spazio Gioco nasce con l'obiettivo di restituire il diritto e il piacere per il gioco. Restituire il diritto al gioco al bambino disabile credo significhi innanzitutto provare a invertire, secondo le indicazioni di una pedagogia immaginale, il nostro sguardo compensando l'immaginario diurno ed eroico della nostra cultura occidentale che ci porta a confondere la sofferenza, la debolezza, la ferita con qualcosa di "guasto o di sbagliato" da raddrizzare, correggere e riparare sempre e in ogni caso. Per questo di fronte al disagio, alle diverse patologie, ai disturbi generalizzati dello sviluppo, alle difficlotà dell'agire o di non riuscire a stare fermi e concentrati, al deficit percettivo, cognitivo e motorio, a un'assenza o una scarsa motivazione e iniziativa rischiamo di negare il diritto al gioco ritenendolo, banalmente, una delle capacità maggiormente compromesse e utilizzandolo solo come mezzo e strumento terapeutico per sviluppare abilità sociali, linguistiche e cognitive. Lo Spazio Gioco si propone di compensare il tempo che il bambino trascorre nei contesti medico-riabilitativi pensando e istituendo una radura spazio-temporale dove il bambino può trovare riposo dal "generale tratto futuristico" della vita, da ogni obiettivo terapeutico in un presente tranquillo, autonomo, che ha solo scopi intrinseci e di piacevolezza. In questo senso il piacere è un fine intrinseco del gioco che ne svela la sua intima essenza, il piacere è un elemento strutturale del gioco, come indica il filosofo e fenomenologo Eugen Fink, è un elemento singolare e difficile da comprendere. "E' un piacere che può assorbire in sé la profonda tristezza e la sofferenza abissale, che può abbracciare il tremendo sempre gioiosamente". E allo Spazio Gioco il piacere abbraccia il "tremendo" della disabilità, che spesso con troppa disinvoltura e semplicisticamente associamo al bambino down, abbraccia il sapere misterico del male, il suo inquietante esserci, la sua presenza oscura che interroga il nostro senso del limite. Il piacere è estasi e rapimento che ammalia e conduce il bambino in una dimensione altra, in una sfera immaginaria che gli consente di giocare i suoi limiti: non solo ha la possibilità di sperimentare abilità sconosciute ma anche di alleggerire la realtà della disabilità spostando la frustrazione di non riuscirci, di non vedere, di non camminare, di non leggere in un un contesto protetto e più accettabile, superando ed uscendo dall'isolamento a cui va incontro quando si confronta sempre e solo con i suoi limiti e la sua solitudine. Il piacere è stupore e godimento del corpo, è la sensazione gradevole ed emozionante di ascoltare una cascata di farina, gialla o bianca, o di pangrattato sulle proprie braccia e gambe, di ricoprirsi completamente il corpo di tempera o di creta, di massaggiare le mani e i piedi con un impasto di colla e zucchero per sentire, percepire e accorgersi del proprio corpo.
Il piacere è la passione e il desiderio dell'adulto, dell'educatore di giocare, di porsi e sostare sulla soglia del gioco, di creare e istituire uno spazio e un tempo bello, affascinante, sorprendente e adeguato alle possibilità e alle mancanze dei bambini. E' un piacere nuovamente difficile da spiegare e comprendere per chi si confronta quotidianamente con il danno, la malattia, il dolore, il male e che ci fa confrontare ogni giorno con il "nostro essere limitati, finiti, mortali, impotenti, malati e feriti, proprio come i soggetti che abbiamo in cura", che ci chiede di rimanere in ascolto della nostra debolezza, del fondo di oscurità che ci abita per continuare a condividere la casa di chi alberga dentro la luce bassa della diversità.