Ogni
stazione ha un suo odore, un sapore, una tonalità, una sonorità. Ogni stazione
è un microcosmo guizzante, vibrante, libero nel suo respiro, brulicante di
dettagli e attraversato da traiettorie curve, serpentiformi che vanno verso
l’esterno per poi ritornare verso l’interno senza dirigersi mai verso una meta
definitiva. E sostando in ogni stazione si affluisce nel sistema circolatorio
della sua folla, si diventa anonimi e infinitesimi in quel tumulto, ci si perde
con la miriade dei nostri simili, si precipita in quel vortice, “verso
l’ignoto, verso il cielo di una qualche comunanza”.
La
stazione è un luogo fluido, dinamico, instabile dove lo sguardo ha la
possibilità di rallentare il suo movimento rapido trattenendosi concentrato
sull’andare e venire delle persone, su un corpo in attesa impaziente, su un
viso reclinato, su uno scambio di risate, sorrisi e bisbigli. Si può rimanere a
lungo seduti in un angolo o girovagare tra la folla ascoltando, osservando e
registrando, come gli angeli di Wenders, i pensieri, i ricordi, le emozioni, i
progetti frantumati delle persone che attraversano quotidianamente e abitualmente
una stazione o vi passano per un caso eccezionale.
Terra
di nessuno e di ognuno, terra del tempo passato e presente, di storie individuali
e della storia del mondo, di migliaia di pensieri, emozioni, corpi che si
aggirano inquieti in uno spazio e in un tempo sospeso, si sfiorano, si
incrociano guardandosi distrattamente oppure non alzano mai gli occhi per non
correre il rischio di incrociare uno sguardo che potrebbe provocare un incontro,
che talvolta avviene in una stazione.
Le
stazioni sono luoghi liminali, di passaggio, di transizione, abitati da Ermes,
il dio greco che sta sui confini, pone in comunicazione, sovraintende i legami,
gli scambi. Le stazioni, nel film Tickets
del trio registico Olmi-Kiarostami-Loach,
sono luoghi di incontro, abbandono e incompiutezza dove ha inizio una storia
che si svolge lungo i binari di un viaggio in treno, e la stazione successiva diventa
punto di partenza per un altro racconto in un tempo spiraliforme che lega e
annoda, congiunge le trame di infinite e possibili storie.
Ermes,
come indica Barioglio, è un “essere ambiguo e duplice, guida delle anime, ladro
e furfante, messaggero degli dei, araldo di Zeus come di Ade, medium congiungendi tra cielo e terra,
tra spirito e materia, tra interno ed esterno, corpo dell’uomo e corpo del
mondo”. La presenza di Ermes si può allora avvertire obliqua e ispiratrice
nello spazio immaginale di ogni stazione posta sul confine tra presenza e
assenza, attesa e compimento, superficie e profondità, realtà e immaginazione,
interno e esterno.
La
stazione è un luogo ambiguo e ambivalente che mostra e nasconde nella penombra
dei suoi sotterranei e dei suoi tunnel le persone marginali e emarginate, gli
invisibili ignorati dal mondo, esibisce artisti e musicisti, pazzi e folli,
anime nomadi e precarie che trovano ai suoi bordi una sistemazione provvisoria.
È un territorio di caccia, di questua o di sopravvivenza per mendicanti e
borseggiatori che si aggirano fragili, furtivi e coraggiosi nel suo sottosuolo.
Nelle
stazioni il tempo è sospeso, si interrompe il fluire produttivo e finalistico della
vita, abbiamo la possibilità di sostare in un presente tranquillo, di vivere
l’intensità emotiva di un momento di attesa, di partenza o di ritorno guidati
più dai sogni e dalle fantasie che da una progettazione razionale del futuro. Oscilliamo
in quell’attimo di sospensione, di vuoto, di equilibrio labile, di immobilità dinamica
in cui si sta per fare qualcosa, in cui forse prenderemo, uscendo dalla
stazione, una nuova e insolita direzione o, forse, ci ritufferemo a capofitto nella
folle corsa contro il tempo delle nostre città, della nostra società prostrata
alla deità del trinomio di progresso, crescita e innovazione. Anche le stazioni
sono diventate sempre più automatizzate, i bigliettai stanno sparendo sostituiti
da macchine mute e siamo costretti inermi alla tortura di assordanti e
accecanti video pubblicitari. Ma nonostante questa infausta tecnologizzazione certe
stazioni rimangono, concordando con Marc Augè, dei luoghi densamente popolati e
animati di ricordi, abitudini, incontri, volti sconosciuti e familiari dove è
possibile intrattenere con lo spazio “una sorta di intimità corporea misurabile
nel ritmo della discesa nella rampa di scale, nella precisione del gesto con
cui si introduce il biglietto nella fessura del portello di accesso o
nell’accelerazione del passo quando si indovina dal rumore l’arrivo del treno
sul bordo del binario”.
E
come per tutti i viaggiatori arriva il momento di partire: si passa il
tornello, ci si avvicina al binario e sul bordo della banchina non si resiste
alla tentazione di tendere la testa per “cercare di scorgere, nella profondità
del tunnel, lo strano movimento di tenebre e luci che annuncia l’imminente
apparizione del treno” e un nuovo viaggio verso l’ignoto.