tag:blogger.com,1999:blog-7310024185046574422024-02-19T14:26:18.107+01:00la chitarra blu ...il blog immaginalemarinahttp://www.blogger.com/profile/04949817607505164949noreply@blogger.comBlogger40125tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-5167427086969945372014-10-03T20:46:00.000+02:002014-10-03T20:46:00.566+02:00"La roccia viva". Scalando verso la caduta.<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: center;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 10.0pt; line-height: 115%;">“Siccome
venivano in discesa – che non richiede una seria fatica, ma soltanto un allegro
frenare e puntare le ginocchia per evitare di correre e inciampare, e in
sostanza non è altro che un lasciarsi cadere – la loro andatura aveva un che di
alato e leggero che si comunicava al loro volto, a tutto il loro aspetto, e
poteva far nascere il desiderio di essere dei loro”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt 247.8pt; text-indent: 35.4pt;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: center;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 10.0pt; line-height: 115%;">T.
Mann, <i>La montagna incantata</i><o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt 247.8pt; text-align: left; text-indent: 35.4pt;">
<br /></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjnr2WE-DkspmrX8QFNUA6QXiRQbBWvUC9TNIfFJwMNxHPmUpilrLVERh8H_R8kadxedh5hsExM-9NLZLi03X2KONNDU2QAebVribnQibyTyv2tF5X7IPvHsRo1umh8MYKfpHhTO9bIdyU/s1600/Roccia+viva.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjnr2WE-DkspmrX8QFNUA6QXiRQbBWvUC9TNIfFJwMNxHPmUpilrLVERh8H_R8kadxedh5hsExM-9NLZLi03X2KONNDU2QAebVribnQibyTyv2tF5X7IPvHsRo1umh8MYKfpHhTO9bIdyU/s1600/Roccia+viva.jpg" height="240" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;"> </span><i><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">La Roccia viva</span></i><span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;">
non ha l’andatura di una discesa leggiadra e alata, come descrive il grande
narratore tedesco amato dalla protagonista e presente nel momento cruciale
degli incontri con gli altri due personaggi del romanzo.</span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<i><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">La Roccia viva</span></i><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">
è una discesa impervia e tormentata che tiene fatalmente legati al filo della
corda di una trama coinvolgente e intrecciata. E fa nascere il “desiderio di
essere dei loro”, di essere spettatori e attori di una storia che ci riguarda,
mettendoci, magari, nei panni di Livia, Ermanno o Edoardo, gli amici che meglio
di chiunque altro conoscono i tre protagonisti.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">È
una discesa verso la meta di ognuno dei tre, un percorso di deflazione lungo le
pareti rocciose di una montagna dove l’uomo, più che tentare di conquistarla ed
ergersi con il suo ego borioso e sfruttatore, non può che affidarsi alla sua
stabilità e imprevedibilità. La montagna accoglie, ammalia, è il bacio, come un
grazie, quando i piedi toccano la vetta. La montagna decide, inganna, è
sostanza, è materia, è roccia.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">E
quella roccia è punto di partenza e approdo del cammino di Chiara, Michele e
Rudi, tre ragazzi quarantenni della Milano da bere che l’occhio discreto
dell’autore ci fa conoscere di soppiatto, la cinepresa del suo sguardo ci fa
entrare lentamente e con discrezione nelle loro vite e nelle loro case. Li
incontriamo quasi per caso mentre, per esempio, una domenica mattina percorriamo
in bicicletta una silente e ghiacciata via Palestro. Ma non per caso si impongono
alla nostra attenzione, stagliandosi sullo sfondo di Milano e delle Alpi, perché
le parole di Matteo Sartori disegnano appassionatamente e amichevolmente quei
tre ragazzi, dipingono l’animo umano sempre connesso all’anima dei luoghi,
della storia e del nostro tempo presente. L’autore cammina insieme ai suoi
personaggi, costruisce la strada mentre la percorrere, li guarda e si lascia
guardare da loro. Il suo è un punto di vista in movimento, ha la capacità di
“salire sul dorso della tartaruga” che, secondo la famosa teoria indiana della
molteplicità dei punti di vista, permette di vedere l’universo attraverso gli
occhi di chiunque venga messo sopra la tartaruga. Un narratore dai molteplici
volti che ogni volta riesce a rendere ogni storia e ogni sguardo interessante
grazie allo “<i>shifting viewpoint”</i>, al
suo sguardo mobile. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">E
c’è una musica che accompagna il cammino di Chiara, Michele e Rudi, canzoni che
non fanno solo da piacevole e cullante sottofondo alla lettura ma creano un’atmosfera
unica e singolare, donano tempo all’immaginazione come lo spazio bianco tra le
parole.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">E
alla fine, credo sia la discesa ciò che conta, la caduta sulla roccia che
impone una sosta alle vite sfrenate che corrono impazzite verso il vuoto
accecante del nostro tempo. Una caduta che può portare alla distruzione, alla
scoperta della propria essenza e ciascunità o ad una nuova rinascita. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: center;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 10.0pt; line-height: 115%;">“Allora la fine diventa ancora una volta un inizio e
l’ultima parola spetta alla vita”. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: center;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 10.0pt; line-height: 115%;">P. Brook<o:p></o:p></span></div>
<div align="right" class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: right;">
<br /></div>
Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-58361307974062388882013-07-21T23:09:00.000+02:002013-07-21T23:21:34.254+02:00“Tra cinque minuti in scena”. La vita che sta nel teatro che sta nel cinema.<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiqvSOcTFx9i8FTaiVI7_iHmAYCG-VALc3UNtrLByv98MlpItKaDTwbMR9kF6HaV-SsONM6pHmrZq24dKeGiE7LPWZgGZrH0Xur2Tjm7GSF4YB4oez2U6oqpkN4EckcHM_-d2cfLjNid1s/s1600/1370404013_tra_cinque_minuti_in_scena_il_trailer_videostill_1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiqvSOcTFx9i8FTaiVI7_iHmAYCG-VALc3UNtrLByv98MlpItKaDTwbMR9kF6HaV-SsONM6pHmrZq24dKeGiE7LPWZgGZrH0Xur2Tjm7GSF4YB4oez2U6oqpkN4EckcHM_-d2cfLjNid1s/s320/1370404013_tra_cinque_minuti_in_scena_il_trailer_videostill_1.jpg" width="320" /></a></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Si
potrebbe dire che “Tra cinque minuti in scena” è un film sulla vecchiaia e
sulla malattia, su un rapporto di “vero amore” tra una figlia e la propria
madre divenuta anziana e da accudire, “sull’inversione di ruolo madre-figlia
che l’allungamento dell’età media della vita impone sulla società
contemporanea”, o ancora sulla difficoltà di fare teatro oggi in Italia e sullo
stato di profonda crisi del mondo dell’arte in generale. Un “esordio coraggioso”
di una giovane regista tra le opere prime del cinema italiano che “sfida” ogni
tentativo di classificazione intrecciando linguaggi diversi e che qualcuno ha
detto sembra richiamare per “l’inevitabile cupezza dell’esperienza l’Haneke più
digeribile”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Si
potrebbe dire questo e ancora di più, si potrebbero sfoggiare ulteriori rimandi
arditi e dotti o giudizi estetici, morali e ideologici indossando gli occhiali
sedicenti e sentenziosi di certi critici cinematografici che spesso riducono
l’opera a un oggetto da sezionare e valutare, uno strumento per parlare di sé,
delle proprie emozioni e delle proprie competenze cinefile. E dopo aver consultato
una recensione potremmo forse avere l’impressione di aver definitivamente
compreso il film, di averne carpito il segreto e abbandoneremmo in fretta il
buio della sala per proclamare luminose e saccenti interpretazioni, per
inondare le immagini con le nostre impressioni e reazioni immediate senza aver
dato la possibilità all’opera di mostrarsi, di aprire una breccia nel nostro
ego borioso e incrollabile e di provocare una qualche trasformazione.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Si
potrebbe, ma non basta. Potremmo provare ad accostarci alle opere cinematografiche
con uno sguardo <i>altro,</i> umile e
rispettoso, accogliente e stupito, sensibile e simbolico che prova a mettere
tra parentesi e a sospendere momentaneamente il nostro io tracotante e
strabordante per lasciare che le immagini ci parlino, si manifestino affinché possano
irradiare il loro potenziale conoscitivo e trasformativo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Come
suggerisce Jean Espstein, è il cinema stesso che, attraverso la sua capacità di
rappresentare la realtà in immagini si fa “strumento di una nuova conoscenza non
più basata su presupposti cartesiani e kantiani, bensì su una logica «affettiva
e onirica» fondata appunto sul principio di analogia”. Pensare per immagini e
pensare con le immagini permette di allentare il criterio razionale che è alla
base della logica verbale per affidarsi alla facoltà immaginativa e alle sue
potenzialità cognitive e trasformative.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">E
allora accostandoci di soppiatto al film e lasciandoci impregnare dalla
sostanza delle immagini vediamo emergere dallo sfondo di una Milano marginale,
a parte, separata, una figura femminile che racconta e si lascia raccontare da
vicoli oscuri, da tunnel deserti laddove le vie stesse si fanno meditabonde e
conducono lontano dai movimenti convulsi e anonimi della folla. Una figura androgina
che si muove determinata e irrisolta tra finzione e realtà, vita e morte, tra
il ruolo di figlia, attrice, amante. Figura che ogni giorno cammina attraverso
la città per recarsi in un teatro, su un palcoscenico. Un teatro che è separato
non solo dalla città, ma anche dal produttivismo, dall’utilitarismo che ci
assedia, un teatro inutile la cui inattività lo condanna a tenersi ai margini
della società. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Il
teatro è uno spazio liminale, sulla soglia, un cerchio magico che trasfigura la
realtà in un bianco e nero patinato, il teatro, suggerisce Antonacci, “è
graffiante, provoca ferite che poi faticano a rimarginarsi”. Sul palcoscenico
viene rappresentata la vita, viene presentificata in forma di commedia
l’esperienza di cura della madre anziana che Gianna, la protagonista, sta
vivendo fuori dallo spazio speciale del teatro. E per un attimo la vita reale
sembra non riuscire a rimanere fuori, reclama una rappresentazione,
un’attribuzione di senso e tracima in una identificazione tra persona e
personaggio. Come hanno ben mostrato gli studi di Turner, il teatro non è una
semplice ripetizione della vita, ma è una azione performativa (da <i>parfournir</i>, «completare» o «portare
completamente a termine») che permette di attribuire un significato alla vita
stessa, è la “conclusione adeguata di un’esperienza”. Il corpo di Gianna si
farà allora medium e messaggio che consentirà a se stessa e a noi spettatori di
dare ordine alla vita e dare senso allo scorrere del tempo, contro o verso
l’ineluttabilità della morte. Nell’intreccio tra teatro e vita, rimaniamo graffiati,
feriti e al contempo trasformati dalle immagini di vita e morte, vecchiaia e infanzia,
dolore e gioco tra madre e figlia.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Il
teatro è anche un luogo di incontri tra molteplici figure femminili che condividono
le loro solitudini e i loro sogni dietro le quinte, nello spazio segreto e sacro
del camerino. È un femminile che seduce,
turba, disorienta e mette a disagio un maschile intrappolato nella rete del
produttivismo, un femminile che sa rimanere in contatto e sostare nell’oscurità
della vita, un femminile indomito e indomabile che ha vissuto nell’assenza del
maschile, un femminile sfuggente che si muove nella notte e si ferma sui
crocicchi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Un
femminile che saprà riportare in vita il teatro e la vita nel teatro. <o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">E
le immagini potrebbero continuare a dire.<o:p></o:p></span></div>
Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-36653698365053938602013-06-16T18:25:00.000+02:002013-06-16T18:25:49.398+02:00Città e anima. Verso la bellezza lungo "Rotaie verdi".
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Il
mondo non chiede che si creda in esso; chiede che ci si accorga di esso, che lo
si apprezzi, e che si abbia attenzione e cura</span></i><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">. <em>(J. Hillman)</em></span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/Ssmh2HjFjjI?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">Nell’appassionato
testo “La politica della bellezza” James Hillman mostra come la nostra
condizione umana attuale sia caratterizzata da uno stato di anestesia, di
“ottundimento psichico” nei confronti del mondo. La nostra cultura
efficientistica e produttivistica, votata al gigantismo, a un “consumismo
gargantuesco”, alla devastazione ambientale ha ottenebrato la nostra
sensibilità, ci ha resi disinteressati e inconsci del mondo reprimendo la
nostra capacità di dare una risposta estetica a ciò che ci circonda, di reagire
al bello e al brutto, di partecipare attivamente all’<i style="mso-bidi-font-style: normal;">anima mundi</i>. “Passeggiare accanto a un edificio mal disegnato,
vedersi servire del cibo preparato in modo sciatto e accettarlo, mettere sul
proprio corpo una giacca tagliata e cucita male, per non parlare del non
sentire gli uccelli, del non accorgersi del crepuscolo… tutto questo significa
ignorare il mondo”. <o:p></o:p></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Si
fa urgente per Hillman la necessità di accorgerci e reagire all’assalto del
brutto che si riflette sulla nostra anima personale, ci ingabbia in uno stato di
“conformità ottundente”, di malessere e depressione rendendoci diligenti
cavalli da tiro con i paraocchi che si affrettano e affaticano, giorno dopo
giorno, come lavoratori e come consumatori. È necessario mettersi al servizio
dell’inestinguibile desiderio di bellezza che ha l’anima, “quel sentimento di
misura e armonia cosmica che accendono Eros, l’amore per l’anima in tutte le
sue manifestazioni, non soltanto umane”. È necessario il coraggio del cuore di
ognuno perché, per quanto semplice possa sembrare, la risposta personale ed
estetica di ciascuno può andare ancora più in profondità di ogni protesta o
campagna dettata da qualche ideologismo, delle manifestazioni oceaniche in
piazza sui generi, sul razzismo, sull’ambientalismo. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="mso-spacerun: yes;"><span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">E secondo l’invito di Hillman di “partire proprio da dove si
è”, nel cuore del caos, ho deciso in questo breve post di partire dalla città
che da pochi giorni mi ha accolta tra i suoi cittadini, di partire dalle
immagini di questo video che ci immergono in un’oasi tenace e spontanea nel cuore di Milano. Una natura ostinata e selvatica che si è ripresa una parte della metropoli
arricchendo un terreno abbandonato a se stesso con pioppi, salici, canneti e
decine di varietà di fiori che costituiscono l’habitat di numerose specie di
uccelli. E sostando in questa natura miniaturizzata, in questa biosfera in
miniatura vorrei raccontare di un progetto, di un piccolo atto di “protesta e
di apprezzamento” che può aprire, a mio parere, delle brecce nella condizione
di ottundimento che ci ha resi inconsapevoli e incuranti della sofferenza
dell’anima del mondo.
</span></span></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="mso-spacerun: yes;"><span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">Il progetto “Rotaie verdi”, che vede coinvolti in partnership
la cooperativa Eliante, WWF Italia e il comune di Milano, si propone di creare
un corridoio ecologico urbano lungo le linee ferroviarie, dismesse o in attività.
A partire da esperienze già realizzate con successo in altre città come Parigi
(Promenade planteé), Londra (Oasi urbane) e New York (The High Line) questa
struttura si insinuerebbe nel tessuto urbano disseminando lungo i binari dei
treni aree verdi, parchi non addomesticati dove una natura selvaggia, viva e
ricca di biodiversità potrebbe non solo “fornire importanti servizi ambientali
a livello locale, come la regolazione del microclima e il contenimento delle
piante alloctone e dannose come l’Ambrosia”, ma potrebbe “salvaguardare il
bisogno che ha l’anima di bellezza, e il soddisfacimento di questo bisogno da
parte della natura”. </span><span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">Non credo si tratti di idealizzare ed evocare il ritorno a
una natura selvaggia che, come suggerisce Hillman grazie a Jean-Jacques Rosseau
ha allontanato il nostro cuore dalla città, ma di ripristinare l’ambiente
naturale nell’urbano utilizzando mezzi tecnici come hanno fatto per secoli le
arti, come il giardino giapponese che non è natura, ma è l’arte di imitare la
natura. Biosfere in miniatura per tutta la città: “da una romantica e sublime
immersione nella vastità, alla gioia che viene dal considerare il particolare”.
</span></span></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="mso-spacerun: yes;"><span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">In una prospettiva di medio-lungo periodo il progetto
prevede, inoltre, una riqualificazione architettonica sostenibile delle aree in
abbandono, degli scali dismessi per creare centri di aggregazione per la
cittadinanza. Luoghi d'incontro dove passeggiare, chiacchierare, sostare, dove sia possibile fare una pausa dalle incombenze e lotte quotidiane, dove sia possibile incontrarsi "ad altezza occhio"e in contatto con l'anima. Luoghi della e nella città dove portare il nostro corpo fisico, dove sia possibile ritrovare l'intimità e l'esigenza di stare insieme, di immaginare, parlare, fare, scambiare.</span></span></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="mso-spacerun: yes;">Per andare oltre la scissione tra natura e città, tra piacere e lavoro, tra città e anima e per risvegliare la bellezza "Rotaie verdi" si muove luongo i binari dell'anima, rivendica la necessità di una risposta estetica che "conduce all'azione politica, diventa azione politica, è azione politica".</span></span></span></div>
<span style="font-family: inherit;"><div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Prendersi
cura dell’anima della città, significa prendersi cura della nostra anima
personale e dell’anima del mondo.<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Un’ecologia che
recuperi l’anima non ha luogo soltanto nella Sierra Nevada: noi recuperiamo
l’anima quando recuperiamo la città nei nostri singoli cuori, il coraggio,
l’immaginazione, e l’amore che portiamo alla civiltà.(J. Hillman)</span></i></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"> </span></i></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh4m7QwNDlLK09MOtCOLjP3zJG5MF_d7Dk3fSmYCuz41NXmaXcxTP9AYus9ff4uarV6PvVmZqSsicmFRom7rnx1_TBUxWItR25-gZL9CS0sGmEAcXdHoEFOX98v1XI0DG9VCG1YN5AOHnA/s1600/porta%2520romana_12_04.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh4m7QwNDlLK09MOtCOLjP3zJG5MF_d7Dk3fSmYCuz41NXmaXcxTP9AYus9ff4uarV6PvVmZqSsicmFRom7rnx1_TBUxWItR25-gZL9CS0sGmEAcXdHoEFOX98v1XI0DG9VCG1YN5AOHnA/s320/porta%2520romana_12_04.jpg" width="320" /></a></div>
<div align="center">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; line-height: 115%;"><o:p><span style="font-size: x-small;">Lo scalo di Porta Romana nelle prospettive del progetto</span></o:p></span></div>
<br />
</span><br />
<span style="font-family: inherit;">
<br />
<div style="background: white; line-height: 15pt; margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<br /></div>
</span><div style="background: white; line-height: 15pt; margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
</div>
<br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></div>
<br />
<div style="background: white; line-height: 15pt; margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="color: #412909;"><o:p> </o:p></span></div>
Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-45325375313500118062013-05-12T15:09:00.000+02:002013-05-12T15:09:25.295+02:00Il corpo al centro del cerchio. La roda di capoeira.
<br />
<div align="center" class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin: 12pt 0cm 0pt; text-align: center;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"></span></b> </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgrJNOgPndCvo5EE8a6-T-yXqJCC-UglV8O5XHk2BNJxtrKjt2YkkTUJlyjAwc1TcITpg9nUyjX1qTBvi4lqwR2_AhS6dIGRqHqAhAoBUDJ66jEOkWqK598n43cSNaIAAu8adgZZrOPAq8/s1600/roda_strada.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="197" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgrJNOgPndCvo5EE8a6-T-yXqJCC-UglV8O5XHk2BNJxtrKjt2YkkTUJlyjAwc1TcITpg9nUyjX1qTBvi4lqwR2_AhS6dIGRqHqAhAoBUDJ66jEOkWqK598n43cSNaIAAu8adgZZrOPAq8/s320/roda_strada.jpg" width="320" /></a></div>
<br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">Un cerchio disegna e delimita lo spazio,
la musica scandisce il tempo, l’energia si irradia dai corpi e il gioco ha
inizio. E’ la roda di capoeira, un cerchio di persone all’interno del quale si danza
e si gioca capoeira.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">Due giocatori si dispongono al centro
del cerchio e si sfidano danzando una lotta che ha origini da<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>lontani rituali di alcune tribù dell’Africa
centro-occidentale. </span><span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">I corpi sono vigili, attenti, attaccano
e si difendono per dimostrare la propria superiorità senza l’intenzione di
distruggere il rivale e nel rispetto dell’avversario, soprattutto quando questo
non può difendersi. Si avvicinano e allontanano, avanzano e indietreggiano, si
sfiorano, si provocano, si intrecciano sinuosi senza toccarsi come se “l’azione
non terminasse lì dove il gesto si arresta nello spazio ma continuasse molto
più avanti”. Compiono movimenti acrobatici, fluttuando nell’aria e mantenendo al
contempo un contatto imprescindibile con la terra. E dal suolo, dal battito dei
piedi si modella la forma del movimento, si irradia l’energia che come linfa
vitale rende vivo l’intero corpo fino a confluire nelle braccia, nelle mani e
nelle dita che nelle loro molteplici possibilità di articolazione esprimono
mute l’intenzione di colpire, di difendersi, di ammaliare o ingannare l’avversario.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">I corpi sono tesi nell’opposizione di
forze e tensioni contrastanti che alterano il loro equilibrio rendendoli <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>“decisi”, sempre pronti ad agire, a spiccare
il volo e “fortemente presenti”. E questa danza di opposizioni, come indica
Eugenio Barba, viene danzata <i style="mso-bidi-font-style: normal;">nel</i>
corpo prima che <i style="mso-bidi-font-style: normal;">con</i> il corpo e
conferisce al capoeirista una qualità di presenza che colpisce e obbliga gli
spettatori a guardarli. Per raggiungere questa qualità speciale di presenza è
necessario un allenamento, una disciplina, una tecnica del corpo che permette
di sviluppare una profonda consapevolezza e sapienza corporea per poi
improvvisare, per agire e lasciarsi agire liberamente dal proprio corpo e dal
corpo dell’altro in un intrecciarsi di movimenti e gesti che fanno sviluppare
l’azione del gioco in maniera imprevista nello spazio normato della roda.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">Nell’ambito di questa arte marziale,
Mestre Bimba è stato il primo educatore di capoeira che, negli anni trenta del
secolo scorso, ha creato la prima <i style="mso-bidi-font-style: normal;">academia</i>
e ha istituito una preparazione basata sull’esercizio e sulla disciplina che
non era finalizzata solo alla partecipazione alla roda ma comprendeva un
progetto di formazione dell’uomo, un progetto di perfezionamento del
corpo-mente per poter affrontare <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>l’avversario così come la vita. <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">La roda è uno spazio speciale, è un
cerchio magico, una festa dove le persone si riuniscono solo per giocare, per
danzare, senza uno scopo altro dal piacere che si vive nel momento presente. É
una radura, uno spazio d’incontro, di attenzione, ascolto, cura e rispetto ma
anche di astuzia, malizia, incantamento e sorpresa. Un luogo ambivalente dove
si intrecciano inestricabili la collaborazione e la competizione, il corpo e la
mente, la libertà e la regola, il divertimento e la serietà, le emozioni e la razionalità,
la spontaneità e la finzione. <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">Spazio ludico e spazio educativo che fa
risplendere il corpo nella sua integralità, lo mette al centro del cerchio dove
si danza per lottare e si lotta per danzare, per rivendicare la presenza del
corpo e del gioco dalla soppressione continua e incessante che avviene nei
luoghi dell’educazione. E allora in ogni scuola, di ogni ordine e grado, si
potrebbe e dovrebbe dedicare un tempo alla capoeira, così come alla danza, al
teatro, alle arti marziali e circensi, a tutte quelle attività corporee che
aprono alla possibilità di giocare il corpo e con il corpo, di sperimentare le
istanze “pericolose e inaccettabili”, lo spirito bellico, aggressivo, la
violenza, che ci sono necessariamente in ogni bambino, adolescente, ragazzo
facendogli provare l’eccitante finzione di un battaglia in una “forma fittizia
e artificiale, totalmente protetta”. <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">Ma credo che anche ogni educatore e
insegnante dovrebbe dedicare il suo tempo di formazione alla scoperta e al
perfezionamento del suo corpo-mente per prendere consapevolezza del suo esserci
come presenza integrale, corporea e desiderante e per provare a mettere
finalmente in discussione gli assiomi razionalizzanti e disciplinanti che ci
muovono come marionette sulla scena formativa, legati ai fili di un sapere
vetusto e incrollabile.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span><o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"><o:p> </o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"><o:p> </o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="color: #454545; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"><o:p> </o:p></span></div>
Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-45551220714119676772013-02-10T21:16:00.000+01:002013-02-10T23:22:09.243+01:00Girovagando nello spazio immaginale di ogni stazione<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhBzsQ8_EMKOn3OinLK5tDwWo0ixdMHWksRF8Xv_WpjugxWJJfVWN4UFJCmmrfh2yUutTaGjtNOKBu0iiemJQRf1yUk9eLVtrGtkHrdwoIBjLkB6t0XohDBJQgFrXUhY6x1CFeeB8uz9eA/s1600/Stazioni.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhBzsQ8_EMKOn3OinLK5tDwWo0ixdMHWksRF8Xv_WpjugxWJJfVWN4UFJCmmrfh2yUutTaGjtNOKBu0iiemJQRf1yUk9eLVtrGtkHrdwoIBjLkB6t0XohDBJQgFrXUhY6x1CFeeB8uz9eA/s1600/Stazioni.png" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Ogni
stazione ha un suo odore, un sapore, una tonalità, una sonorità. Ogni stazione
è un microcosmo guizzante, vibrante, libero nel suo respiro, brulicante di
dettagli e attraversato da traiettorie curve, serpentiformi che vanno verso
l’esterno per poi ritornare verso l’interno senza dirigersi mai verso una meta
definitiva. E sostando in ogni stazione si affluisce nel sistema circolatorio
della sua folla, si diventa anonimi e infinitesimi in quel tumulto, ci si perde
con la miriade dei nostri simili, si precipita in quel vortice, “verso
l’ignoto, verso il cielo di una qualche comunanza”. <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">La
stazione è un luogo fluido, dinamico, instabile dove lo sguardo ha la
possibilità di rallentare il suo movimento rapido trattenendosi concentrato
sull’andare e venire delle persone, su un corpo in attesa impaziente, su un
viso reclinato, su uno scambio di risate, sorrisi e bisbigli. Si può rimanere a
lungo seduti in un angolo o girovagare tra la folla ascoltando, osservando e
registrando, come gli angeli di Wenders, i pensieri, i ricordi, le emozioni, i
progetti frantumati delle persone che attraversano quotidianamente e abitualmente
una stazione o vi passano per un caso eccezionale.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Terra
di nessuno e di ognuno, terra del tempo passato e presente, di storie individuali
e della storia del mondo, di migliaia di pensieri, emozioni, corpi che si
aggirano inquieti in uno spazio e in un tempo sospeso, si sfiorano, si
incrociano guardandosi distrattamente oppure non alzano mai gli occhi per non
correre il rischio di incrociare uno sguardo che potrebbe provocare un incontro,
che talvolta avviene in una stazione.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Le
stazioni sono luoghi liminali, di passaggio, di transizione, abitati da Ermes,
il dio greco che sta sui confini, pone in comunicazione, sovraintende i legami,
gli scambi. Le stazioni, nel film <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Tickets</i>
<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>del trio registico Olmi-Kiarostami-Loach,
sono luoghi di incontro, abbandono e incompiutezza dove ha inizio una storia
che si svolge lungo i binari di un viaggio in treno, e la stazione successiva diventa
punto di partenza per un altro racconto in un tempo spiraliforme che lega e
annoda, congiunge le trame di infinite e possibili storie.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Ermes,
come indica Barioglio, è un “essere ambiguo e duplice, guida delle anime, ladro
e furfante, messaggero degli dei, araldo di Zeus come di Ade, <i style="mso-bidi-font-style: normal;">medium congiungendi</i> tra cielo e terra,
tra spirito e materia, tra interno ed esterno, corpo dell’uomo e corpo del
mondo”. La presenza di Ermes si può allora avvertire obliqua e ispiratrice
nello spazio immaginale di ogni stazione posta sul confine tra presenza e
assenza, attesa e compimento, superficie e profondità, realtà e immaginazione,
interno e esterno.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">La
stazione è un luogo ambiguo e ambivalente che mostra e nasconde nella penombra
dei suoi sotterranei e dei suoi tunnel le persone marginali e emarginate, gli
invisibili ignorati dal mondo, esibisce artisti e musicisti, pazzi e folli,
anime nomadi e precarie che trovano ai suoi bordi una sistemazione provvisoria.
È un territorio di caccia, di questua o di sopravvivenza per mendicanti e
borseggiatori che si aggirano fragili, furtivi e coraggiosi nel suo sottosuolo.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Nelle
stazioni il tempo è sospeso, si interrompe il fluire produttivo e finalistico della
vita, abbiamo la possibilità di sostare in un presente tranquillo, di vivere
l’intensità emotiva di un momento di attesa, di partenza o di ritorno guidati
più dai sogni e dalle fantasie che da una progettazione razionale del futuro. Oscilliamo
in quell’attimo di sospensione, di vuoto, di equilibrio labile, di immobilità dinamica
in cui si sta per fare qualcosa, in cui forse prenderemo, uscendo dalla
stazione, una nuova e insolita direzione o, forse, ci ritufferemo a capofitto nella
folle corsa contro il tempo delle nostre città, della nostra società prostrata
alla deità del trinomio di progresso, crescita e innovazione. Anche le stazioni
sono diventate sempre più automatizzate, i bigliettai stanno sparendo sostituiti
da macchine mute e siamo costretti inermi alla tortura di assordanti e
accecanti video pubblicitari. Ma nonostante questa infausta tecnologizzazione certe
stazioni rimangono, concordando con Marc Augè, dei luoghi densamente popolati e
animati di ricordi, abitudini, incontri, volti sconosciuti e familiari dove è
possibile intrattenere con lo spazio “una sorta di intimità corporea misurabile
nel ritmo della discesa nella rampa di scale, nella precisione del gesto con
cui si introduce il biglietto nella fessura del portello di accesso o
nell’accelerazione del passo quando si indovina dal rumore l’arrivo del treno
sul bordo del binario”.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">E
come per tutti i viaggiatori arriva il momento di partire: si passa il
tornello, ci si avvicina al binario e sul bordo della banchina non si resiste
alla tentazione di tendere la testa per “cercare di scorgere, nella profondità
del tunnel, lo strano movimento di tenebre e luci che annuncia l’imminente
apparizione del treno” e un nuovo viaggio verso l’ignoto.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Comic Sans MS"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Comic Sans MS"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Comic Sans MS"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Comic Sans MS"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-73266514497825641382013-01-02T17:52:00.000+01:002013-01-02T17:52:50.546+01:00
<br />
<div align="center" class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: center;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";">Quando il corpo viene “obbligato”
a muoversi. Pratiche corporee e dimensione immaginale nel tempo concentrato e
prezioso di un laboratorio.</span></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: center;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";"><o:p></o:p></span></b> </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjYxESFwjNZCLGSfI-svz6wH99-wGazBqhsBo233jM4E1HiMeNo1kRkdp8E_ROSpYS4cZUAxiIZcByhoLxOA-I4SPo_nQHGYzVIAndLWPqgy8T5-vrsGjjWtFsOtXroZH1HF90M3vj6peM/s1600/Lab.+Magistrale+2010-11+060.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="199" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjYxESFwjNZCLGSfI-svz6wH99-wGazBqhsBo233jM4E1HiMeNo1kRkdp8E_ROSpYS4cZUAxiIZcByhoLxOA-I4SPo_nQHGYzVIAndLWPqgy8T5-vrsGjjWtFsOtXroZH1HF90M3vj6peM/s320/Lab.+Magistrale+2010-11+060.JPG" width="320" /></a></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 11.5pt; line-height: 115%;">«Ho
vissuto il corpo come limite, confine, cambiamento, protezione, separazione e
connessione tra me, gli altri ed il mondo. É stato un po’ come riappropriarsi
del proprio corpo, prestare attenzione a quanto di solito è invece dato per
scontato e normale, tanto da non ascoltarlo più (respiro, battito cardiaco,
vibrazione tra addome e colonna vertebrale determinata dall’emissione sonora,
per esempio), per riprenderne coscienza come parte che mi appartiene o su cui
posso agire, che posso anche attivare in modo “nuovo”, “diverso” dall’abituale
e inconsapevole».</span><span style="font-family: "Times New Roman","serif";"><o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif";"><span style="font-family: inherit;">Così una
studentessa del terzo anno di Scienze dell’Educazione restituisce il percorso
di due giornate laboratoriali<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>in cui viene
chiesto di mettere in gioco il corpo, le emozioni, di lasciare la mente
“navigare come le nuvole” per provare ad avviare una riflessione rispetto alla
dimensione corporea in educazione, al proprio esserci come corpi sulla scena formativa.
Giunti quasi al termine del loro percorso universitario gli studenti sono
“obbligati” (i Laboratori di Didattica delle Attività motorie prevedono una
frequenza obbligatoria) ad indossare un abbigliamento comodo e a recarsi nell’unico
e trascurato laboratorio motorio dell’università o in un’ampia sala di una scuola
teatrale. E lo spazio vuoto, senza banchi inchiodati ai pavimenti e una
cattedra dietro la quale si esibisce e si nasconde il docente li imbarazza, li
disorienta, entrano timorosi, incerti se togliersi le scarpe e quando seduti in
cerchio condividono le loro aspettative rispetto a ciò che sta per succedere si
rassicurano vicendevolmente, certi che la maggior parte di loro vorrebbe non
assistere a una lezione frontale e al contempo non vorrebbe esibirsi, giocare,
danzare, fare teatro, mettere in gioco il corpo. </span></span><span style="font-family: inherit;">Dopo aver riposto letteralmente
e metaforicamente in una valigia le aspettative, i pre-giudizi, le
pre-comprensioni<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>i corpi iniziano a muoversi<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>in un tempo e in uno spazio speciali, inconsueti,
intensi e preziosi. Uno spazio di quiete che lascia ad ognuno il tempo di
incontrarsi, mostrarsi, ascoltare e ascoltarsi, agire e lasciarsi agire. Un
tempo di riposo in cui ci si ferma per godere senza fretta il piacere di auscultarsi,
di percepire il proprio respiro, il battito del cuore, le emozioni che
provengono da un gesto, da un contatto, da uno sguardo. Un tempo di
riflessività in cui, in gruppo, si lasciano fluire, condensare e poi di nuovo
fluire le molteplici significazioni possibili che l’ambiguità e l’ambivalenza
del corpo lasciano emergere. Si condivide il sentire del corpo, non con un
obiettivo intimistico e psicologizzante, ma per comprendere il suo esserci e
stare nella relazione educativa, per percepire quella “qualità di presenza
particolare, viva e autentica” sulla scena formativa. Per questo vengono
proposti dei giochi e degli esercizi che provengono dall’ambito teatrale, che
non hanno alcuno scopo di carattere performativo, ma provano ad avviare una
riflessione rispetto ad alcune dinamiche educative a partire dal vissuto del
corpo in un intreccio inestricabile e proficuo tra prassi e teoria. Senza la
pretesa e la supponenza di scoprire un’unica e prescrittiva modalità di
“esserci”, per ognuno si apre la possibilità di interrogarsi rispetto alla
propria ed unica presenza corporea, a come ogni corpo si presenta, si mostra e
si nasconde al mondo, come guarda e si lascia guardare, come i gesti degli
altri agiscono su se stessi<span style="line-height: 115%;">, “espressivi
tanto quanto la parola, modulabili in ampiezza al pari del timbro della voce,
capaci di accogliere ed includere, come pure di rifiutare ed allontanare”. <o:p></o:p></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif";">E al termine del
primo incontro si lascia parlare il corpo che restituisce attraverso diverse
modalità espressive la propria idea di educazione per provare ad acquisire
consapevolezza delle immagini, dei saperi, delle emozioni, dei vissuti che
orientano e determinano la propria presenza di educatori, per non lasciarsi
agire inconsapevolmente da esse ma per agirle criticamente. Dopo questa prima
parte che può essere considerata come una “pars destruens” viene proposta ai
ragazzi una “parte costruttiva” per provare ad arricchire il loro sguardo sul
corpo in educazione. Gli studenti vengono invitati e accompagnati ad entrare in
contatto con il corpo di alcune immagini pittoriche particolarmente
significative rispetto alla presenza del corpo nei contesti educativi. Dopo un
momento di visione, meditazione e circolazione delle molteplici vie di
significazione che le opere indicano i ragazzi provano a restituire una visione
rinnovata e approfondita dell’opera d’arte lasciandosi parlare dal corpo.
Alcune volte si limitano a una drammatizzazione o a una narrazione dei
significati incontrati nel contatto con l’opera, ma capita anche che la
restituzione corporea, attraverso un gesto, un suono, un urlo o un silenzio <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>riesca a condensare e a far risuonare il mondo
immaginale dell’opera. </span></span><span style="font-family: inherit;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";">E questo richiede
un continuo, paziente e arduo esercizio di movimento, di spoliazione, di
pulizia, di poetica del gesto e del corpo per ritrovare, come suggerisce
Francesca Antonacci, “le risorse e le potenzialità simboliche e materiali del
suo linguaggio cinestesico”. Per questo è necessario continuare ad “obbligare”
il corpo a muoversi in un tempo dilatato e prezioso che non si limiti ad un
breve laboratorio.<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">
</span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif";"><o:p><span style="font-family: inherit;"> </span></o:p></span></div>
Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-78801329046770192752012-08-27T10:00:00.000+02:002012-08-28T13:49:27.842+02:00"Angeli dormienti" tra cielo e terra<div style="text-align: center;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span lang="EN-US" style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-ansi-language: EN-US;">“Music<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>is well
said to be the speech of angels; in fact, nothing among the utterances allowed
to man is felt to be so divine. It bring us near to the infinite”. </span></i></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span lang="EN-US" style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-ansi-language: EN-US;"><o:p></o:p></span></i> </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/sWiJWLiSKro?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe></div>
<br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt;">La
musica ci trasporta in una dimensione altra, apre uno spazio fluttuante e
ondeggiante, </span><span style="font-family: "Times New Roman","serif";">propizia
l’ingresso in un presente sonoro prezioso e concentrato, ci avvolge e abbraccia
nella sua materia liquida, sonora e graffiante facendoci entrare i</span><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt;">n un altro
ordine del vedere e dell’ascoltare, “una sorta di percezione precategoriale,
una visione preverbale”, presignificante. Il suono, scrive Nancy, proviene e si
dilata, trascina via la forma. “Non la dissolve, piuttosto l’allarga, le dà
un’ampiezza, uno spessore e una vibrazione o un’ondulazione al cui disegno non
fa che approssimarsi di continuo”. <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt;">La
musica ci immerge nell’ascolto delle immagini sonore e visive del video del
gruppo islandese dei Sigur Rós. Una musica ancestrale che sembra provenire da
un altrove e ci situa in un altrove incantato e sospeso, ci invita, con i suoi
vocalizzi distillati e reiterati, a rallentare e ad entrare nell’ascolto per
cogliere il risuonare delle cose e dei corpi tra loro, “prima e al di qua dei
nostri schemi categoriali e percettologici”. È una musica priva di significato,
un linguaggio (</span><i><span style="color: #333333; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">vonlenska </span></i><span style="color: #333333; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-bidi-font-style: italic; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">in islandese<i>)</i></span><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt;"> inventato dal
cantante e chitarrista del gruppo, fatto di vocalizzi improvvisati, femminei e
acuti, espressione di ciò che rimane d’ineffabile di un discorso concettuale. Forse,
per questo, all’inizio del video si dice che la musica sia il linguaggio degli
angeli: per la sua capacità di approssimarci al divino, all’infinto, a quella
dimensione sognante e misteriosa, eterea e terrestre, dolce e impetuosa
descritta dai suoni e dalle immagini di “Angeli dormienti”. </span><br />
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt;">Immagini
poetiche danzate da creature angeliche, corpi intermedi e intermediari come
forse sono i corpi disabili che albergano in una dimensione altra, tra realtà e
irrealtà, consapevolezza e inconsapevolezza, in uno spazio misterico in cui si
incontrano la vita e la morte, il dolore, il male, la fragilità, la nostra
debolezza costitutiva. I loro gesti e i loro sguardi inattesi, concentrati e
presenti nell’azione che stanno compiendo è come se mettessero in scacco il
sapere, il nostro fare affrettato e risolutivo, le nostre pretese direttive, ci
spiazzano, non abbiamo ben chiaro come muoverci, come rispondere, che fare.
Forse non possiamo far altro che rallentare, lasciarci condurre da queste guide
alate e terrene nel “paesaggio sognante” delle immagini visive e sonore del
video e provare a danzare e lasciarci danzare dai suoni, dai corpi e dalle
parole in un continuo movimento oscillatorio tra alto e basso, tra terra e
cielo. </span><br />
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt;">Il
suolo verde e sconfinato sembra rappresentare il radicamento che il corpo
mantiene con la terra e a questa concentrazione al suolo risponde, per contro,
un’espansione verso l’alto. L’altezza è “messa in evidenza” da uno sfondo
bianco e abbacinante da cui sembrano provenire e a cui sembrano ritornare gli
angeli, e al contempo è “messa in risonanza” dai suoni, dalla voce, dai gesti e
dagli sguardi diretti verso l’alto degli attori. In questo presente sonoro lieve
e stridente, creato dalla musica, i corpi giocano, si rincorrono, sembrano
essere sul punto di spiccare il volo, si muovono leggeri e leggiadri sulla
terra, accarezzano l’aria, si cercano, si abbracciano. E immediatamente dopo l’unione
in un atteso e prolungato bacio, avviene la caduta di un angelo a terra. Tutte
le creature alate si dispongono in cerchio intorno a quel corpo e inizia una
sorta di rituale presieduto da suoni cupi, una voce altisonante e l’arrivo
di un uomo vestito di blu, uno stregone, forse uno sciamano, uno psicopompo che
presidia la trasformazione dell’angelo nel corpo giallo, luminoso di una nuova
creatura. Creatura ambigua, umana, animale o forse vegetale, con una grande
spirale disegnata sul petto: simbolo che lega, annoda, congiunge gli opposti,
rinvia alla possibilità di una ricongiunzione tra soggetto e oggetto, tra uomo
e mondo. Intorno a questa creatura aurea gli angeli iniziano a danzare e
volteggiare per poi trovare riposo nella terra. E tenendo lo sguardo rivolto
alla terra l’immagine e i suoni si innalzano di nuovo verso l’alto, evocando la
presenza di un cielo necessario. </span><br />
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt;">Qui
la musica si rende silenziosa e le parole tornano a impastarsi con la materia
sonora e visiva per nuovi possibili affioramenti nel paziente e faticoso esercizio
di ascolto e restituzione della sonorità delle immagini. <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span lang="EN-US" style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; mso-ansi-language: EN-US;">“We haven’t found the words to describe our music.
Maybe we will one day. </span></i><i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt;">Thanks”. Sigur
Rós.<o:p></o:p></span></i></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-82440529678725058552012-07-26T15:51:00.001+02:002012-07-26T15:52:09.719+02:00Cezanne: Estetica dell'informe come verità in pittura<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEilGbdeQmRm6v-rwCHDFqyH_JMvm95VUaNKnZjaV1WJl2Oqhua5dxxU36jLyGPYf-uHkxFsVifwAyZZKa_X7vuclf7fA5PRed8HV1wpuC6TBeDKTEEzMy_aNW3j82oq3-C4FTVpxzfjSe0/s1600/Cezanne+-Saint+Victoire2.jpeg" imageanchor="1" style="clear:left; float:left;margin-right:1em; margin-bottom:1em"><img border="0" height="325" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEilGbdeQmRm6v-rwCHDFqyH_JMvm95VUaNKnZjaV1WJl2Oqhua5dxxU36jLyGPYf-uHkxFsVifwAyZZKa_X7vuclf7fA5PRed8HV1wpuC6TBeDKTEEzMy_aNW3j82oq3-C4FTVpxzfjSe0/s400/Cezanne+-Saint+Victoire2.jpeg" /></a></div>
<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<br /></div>
Cosa ci mostra Cezanne dunque nelle sue S.Victoire? Nelle ultime in particolare? Che significa l’espressione “verità in pittura”, che egli voleva “dare”, da lui pronunciata (e mi si perdoni se qui non seguo per nulla Derrida)?
Anzitutto vediamo il cedimento di una pellicola, la pellicola della nostra illusione costruttiva, l’illusione della presenza, della presa sul mondo. Lì si scompagina l’abbaglio del possesso. Noi non dominiamo più nulla non appena abbandoniamo l’illusione di una vista, quella vista che riteniamo tanto affidabile, che poggia integralmente sulla parola. Ha ragione Lacan, è la parola che precede la visione, o meglio che la istituisce nella sua “forma”. Noi vediamo quello che crediamo di vedere, case, campi, alberi, cielo, terra, solo perché ne possediamo i lemmi, le parole. In assenza di essi quel sipario sottile cede e appare il “reale”, cioè la materia, la materia che resiste alla simbolizzazione, nella sua proliferazione incontenibile e minacciosa. O, per dirla in altri termini, in luogo della forma riconoscibile ecco manifestarsi, magmatico e in continua fluidificazione, o, se si preferisce, in perpetua metamorfosi, l’informe.
Penetriamo o cadiamo, sarebbe forse meglio dire, in un altro ordine del vedere, una sorta di percezione precategoriale, una visione preverbale. Cezanne lentamente arriva a produrre una lacerazione nel tessuto della forma del reale, arretrando o penetrando oltre, a seconda di come si voglia intendere questo movimento. In parte è entrambe le cose, penetra oltre perché la sua è un’avventura dell’intenzione, anche, ma di un’intenzione che sa come cedere alla pretesa di trattenere, di contenere. Un’azione passiva dunque, un accesso retrocedente che si rivela una vera e propria resa al dominio della materia, al suo manifestarsi “reale”. Manifestarsi visivo ora rappresentato, e dunque attingibile, sebbene secondo un processo di decostruzione della percezione che è accondiscendenza alla emergenza di una terra che non è già più mondo (per dirla con Heidegger). E’ pre-mondo, e sempre più pre-mondo. E’ una “pâte”, per usare un termine bachelardiano, in quanto indica proprio il nucleo dell’immaginazione materiale, l’immaginazione che vede in assenza di forma, l’immaginazione dell’informe, dell’elementare.
Ecco allora questo e-venire della verità in pittura. Lì la visione si fa ricettacolo dell’evento di un premondo informe, quello che ci accomuna alla materia ben prima che il linguaggio ci situi di fronte ad esso, in posizione di nominatori e di padroni.
Quindi: non poetica della dissomiglianza (questo sarà affare dei surrealisti o dei simbolisti, dei cubisti o degli espressionisti), che è una poetica dell’intenzione, per quanto modulata attraverso sistemi di percezione-espressione di volta in volta differenti, ma poetica dell’accondiscendenza, opera di ricezione e di cedimento della struttura del vedere, poetica immaginale primaria, elementare, capace di rifondare un legame matriciale alla tessitura terrestre.
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgTBWPDVWeLi9V_WB0iazDS3-_wdbYmmd4Vcszxhz-xtUtz9KPkmBYdVcKVklSuh3PGKUBvSpPfXxnF4zmXoN3NQyjHoYbQu-We3EL-AQtCTTloTzJ-cQtEiJSOBJwgZsUGI0crWF-UUrs/s1600/Cezanne+Saint+Victoire++Zurich+1904-6.jpg" imageanchor="1" style="clear:right; float:right; margin-left:1em; margin-bottom:1em"><img border="0" height="300" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgTBWPDVWeLi9V_WB0iazDS3-_wdbYmmd4Vcszxhz-xtUtz9KPkmBYdVcKVklSuh3PGKUBvSpPfXxnF4zmXoN3NQyjHoYbQu-We3EL-AQtCTTloTzJ-cQtEiJSOBJwgZsUGI0crWF-UUrs/s400/Cezanne+Saint+Victoire++Zurich+1904-6.jpg" /></a></div>
Si tratta di una emergenza prepotente del sensibile. L’opera di preconoscenza o surconoscenza di Cezanne è un’acutizzazione del sensibile. Il suo puntare l’invisibile, che in questa formula poteva generare equivoci, indica, al contrario di ogni filosofema sublimante, l’idea che c’è un sensibile che richiede un esercizio di attenzione ipersofisticato, un sensibile amplificato che è il prodotto dell’osservazione tenuta e durata della cosa. Osservazione che arriva al limite di far cedere il suo apparato di cattura del visibile nelle maglie del linguaggio. E’ questa l’autentica opera immaginale?
Ne conseguirebbe che l’esercizio immaginale autentico non è per nulla l’allenamento di una facoltà sovrasensibile ma l’incremento di una percezione sensibile consuetudinariamente anestetizzata e talora addirittura interdetta (dall’abbreviazione del riconoscimento verbale). Ecco quindi affacciarsi un ulteriore problema (eventuale): come tradurre in linguaggio questo affioramento? Come “tradurlo” di nuovo in parole che non lo rimettano nel posto da dove si era tolto per lasciare respirare la materia?
Posto che si voglia superare la soglia della visione muta, iniziatica e carnale di un tale incontro, occorrerà un linguaggio che sia in grado di dire altrimenti l’affioramento di questo sensibile negletto: una lingua lenta, densa, adesiva all’evento incatturabile specifico. Una sorta di lingua poietica, addirittura gliscromorfa, tenacemente vischiosa. Una lingua che faccia l’amore con la visione, che s’intrida della sua tessitura, non solo nel produrre uno sforzo di nominazione referenziale di un visibile che inevitabilmente è privo di nome proprio e che richiede quindi la poiesi di una nominazione obliqua, metaforica, la produzione di invenzioni figurali. Ma anche nel superamento di una grammatica che potrebbe rischiare di fissare la fluidità propria ad una fenomenologia magmatica. Dunque una grammatica in cui diradi la punteggiatura, che trasgredisca le consegne di un periodare regolato e, assecondando le fratture e gli inghiottimenti dell’informe, se ne faccia ecfrasi materica, al limite della glossolalia.
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh5D_YPTjgB4Jld-K40ZjyH_e8_jidhbwmkTcgW8Boe_-SXTDMhYUgPgj7xWWmgLboL-SCgSOczWQIrt_hFLUye5YRKHeqpfsyrPMfeDAe67pVDHkFD7nVr-kZCYu2senbaEBL6WtZU6w8/s1600/cezanne+saint+victoire+1906+lauves-1529.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="336" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh5D_YPTjgB4Jld-K40ZjyH_e8_jidhbwmkTcgW8Boe_-SXTDMhYUgPgj7xWWmgLboL-SCgSOczWQIrt_hFLUye5YRKHeqpfsyrPMfeDAe67pVDHkFD7nVr-kZCYu2senbaEBL6WtZU6w8/s400/cezanne+saint+victoire+1906+lauves-1529.jpg" /></a></div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-21103917603779372592012-07-21T13:11:00.001+02:002012-07-21T13:12:13.771+02:00L'anestesia simbolica<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgji4uq9J7sV5Ypixfo8bzWWbviSREQ-KHDNpEyFm6678ORjzeeyufX1ADbydv7H_eVAGmhPrCLgiZmEvIodrFE7fhhddAq6eBFpwMXSyYn4COgyZymRrXYJhQHQZOGOQpBgEnt2MEUDZk/s1600/arman-portrait-robot-Arman-11.jpeg" imageanchor="1" style="clear:left; float:left;margin-right:1em; margin-bottom:1em"><img border="0" height="400" width="299" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgji4uq9J7sV5Ypixfo8bzWWbviSREQ-KHDNpEyFm6678ORjzeeyufX1ADbydv7H_eVAGmhPrCLgiZmEvIodrFE7fhhddAq6eBFpwMXSyYn4COgyZymRrXYJhQHQZOGOQpBgEnt2MEUDZk/s400/arman-portrait-robot-Arman-11.jpeg" /></a></div>
<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<br /></div>
Siamo tutti ottusi, anestetizzati, impermeabili. Non è soltanto l’essere parlati, agiti da un ça interno. Qui è proprio questione di sensi, di qualcosa che anzi definirei più precisamente sensibilità immaginativa. O immaginazione sensibile. Di tale facoltà preziosissima siamo ormai tutti manchi. Con conseguenze spaventose.
Non si tratta soltanto di qualcosa che in un più o meno probabile tempo passato esisteva in forma più diffusa. Sì’, certo, in una qual misura. Voglio dire: in un mondo più piccolo, più delimitato, più prossimo, sentirsi accasati con il proprio intorno era certamente cosa comune. Dove sentirsi accasati significa appunto saper riconoscere ciò che si ha intorno, spesso sapere l’esatta provenienza, conoscere la materia, saperla distinguere, tanto più in quanto spesso quell’intorno era stato concretamente fatto da chi lo viveva. Insomma, la sedia, il tavolo, persino i vestiti. Per non parlare di cibi, spesso maturati nei campi e negli orti conosciuti e percorsi continuamente. O gli animali, le uova, quel coniglio alimentato giorno dopo giorno fino alla sua immolazione. Le persone confidavano nelle cose sapendole. Sapendole a fondo, e sapendone anche gli usi, sapendo che quel legno brucia meglio, quell’altro fa fumo, quell’altro scoppietta troppo. O che una bara va fatta con l’olmo, anche simbolicamente. E così via. Anche il linguaggio, magari povero, ristretto, ma era perlopiù fatto di parole note, quelle dialettali, gonfie di materia, di vissuti, di un sapere cresciuto nella matassa carnale di una società pienamente conosciuta. Il che non significa che quel mondo vada guardato con nostalgìa, o per lo meno non con troppa nostalgìa, per le tante e fin troppe ragioni, certo giuste ragioni, che qui ora sarebbe noioso rievocare. Però quella sensibilità, quell’abbozzo di sensibilità simbolica, che conosceva il mondo e vi leggeva messaggi, armonie, quella percezione attenta, di essa un po’ di nostalgia mi sentirei, anche un po’ audacemente, di provarla. Diciamo, con il vecchio Heidegger, che ancora il mondo abitava la terra.
Oggi non sappiamo nulla, per converso. Non sappiamo nulla delle cose che abbiamo intorno, non sappiamo da dove venga e cosa sia, letteralmente, ciò che sostiene i nostri deretani per ore e ore, sulle nostre poltrone sintetiche o sui nostri sedili in automobile. Non sappiamo cosa maneggiamo, cosa mangiamo (figuriamoci!), cosa usiamo. Ma non solo non lo sappiamo, neppure ci importa. Viviamo in uno stato di totale anestesia. Non importa la materia di ciò che riempie le nostre vite e ovviamente men che meno può importare il suo significato. Perché, si badi bene, tutto porta con sé un significato, magari all’osso, ma un significato ce l’ha. Se una poltrona è di pelle vera o finta, se è di materiale plastico o di acciaio e gomma, dice qualcosa di diverso rispetto al suo valore, al suo senso, al suo destino e al nostro che l’abbiamo scelta, collocata in un certo punto del nostro habitat, che confidiamo nella sua capacità di sostegno e di conforto magari per un tempo molto lungo. E così per ogni cosa, letteralmente ogni cosa.
Occorre lanciare un segnale d’allarme per l’ingresso e la manipolazione continua di oggetti di cui non interroghiamo più né la materialità, per saperla, per distinguerne la congruenza, la finalità, o la forma, per eleggerne la bellezza, la piacevolezza al tatto, al contatto, nell’indossarla, nel maneggiarla, nel riposarci sopra. Figuriamoci se poi ne interroghiamo il senso, il significato simbolico. Eppure ogni cosa parla, talvolta anzi grida. Guardiamo, notiamo. Le case, gli edifici, le strade, le metropolitane, i telefoni, gli schermi, e poi i tessuti, le gomme in cui avvolgiamo i nostri piedi, le plastiche in cui infiliamo i nostri cibi. Non sono solo oggetti, sono segni che comunicano, che, per essere più espliciti, sim-boleggiano. Ogni cosa sim-boleggia. Nel mondo che oggi noi frequentiamo questo sim-boleggiare delle cose è sempre più spesso malinconico, sofferente, povero, devastato. Sorge imperiosa la necessità di ritrovare una sensibilità perduta che aiuti a percepire, ad avvertire, a sentire la pasta delle cose, ma anche a decifrarne il linguaggio simbolico. Avere nella propria casa una poltrona Bauhaus non è soltanto un segno di distinzione, è un gesto simbolico preciso, è un riferimento a una cultura della forma e dei materiali, è un gesto che contiene, anche se spesso in maniera opaca e attutita, un significato persino politico. Ma soprattutto è un messaggio al corpo, allo sguardo, al gusto. E’ uno status-symbol e da esso emana anche un certo snobismo ma è comunque un segno forte. Non lo è di meno una poltrona di pelle gonfia e morbida, una poltrona di famiglia usata e rifoderata innumerevoli volte. Quella poltrona è un oggetto ricco d’anima, una presenza, intrisa del calore, della carne, del ricordo di tutti coloro che l’hanno “abitata”.
Ma le cose, in più, sono fatte di materiali, ciascuno dei quali emerge da una storia, che non è solo geologica o produttiva, è anche simbolica. Il ferro è diverso dal legno, e il legno di quercia è diverso dal mogano. L’acciaio satinato è diverso dal ferro smaltato e così via. Ciascuno di essi apre un mondo, un mondo di percezioni ma anche di significati. Guardiamo le case che crescono intorno a noi, guardiamo come sim-boleggiano tra loro, guardiamo i materiali di cui le cose sono fatte. Guardiamo noi stessi, i nostri vestiti. Prendiamo le scarpe da ginnastica, autentiche padrone, oggi, dei nostri piedi. Di cosa sono fatte? Ma soprattutto, che cosa esprimono? Di cosa parlano? Di comodità, di comfort soltanto, come suggeriscono i promotori della loro vendita? Oppure esprimono anche un’ideologia, quella che sostituisce la bellezza con la funzione, che fa della funzione una nuova forma di bellezza? Oppure promuovono anche un fare, quello in sintonìa con la richiesta di velocità, che richiede scarpe che permettano, anzi stimolino la camminata veloce. Scarpe che altresì esprimono il desiderio di correre, oppure di stare aderenti al suolo, scarpe che livellano anche, che omogeneizzano. Sono scarpe androgine, che annullano la differenza sessuale, la deprimono, la sfumano. Sono scarpe senza odore ma che producono cattivo odore. Sono scarpe che simboleggiano ormai da decenni, grazie al trionfo di certi marchi, con il mondo anglosassone, che ne esprimono lo spirito, frettoloso, funzionalista, produttivo, del tutto informale, pragmatico.
Ma osserviamo ora il nostro linguaggio, grande indicatore della nostra anestesia dal significato. Come parliamo, quali parole usiamo, o meglio, da quali parole siamo usati? Che cosa simboleggiano queste parole? Le parole del professionista, le parole usa e getta, gli abbreviativi, le locuzioni strappate alla lingua dell’economia, o della psicologia, o del giornalismo, con le sue spaventose metafore morte, un “bagno di sangue”, ha “aperto il fuoco”, il “branco”, oppure ancora l’infausta genìa delle parole anglosassoni. Cosa simboleggiano, cosa esprimono?
Occorre curiosità simbolica, per i dettagli, per le sfumature. Moltissimi degli aspetti della nostra vita, raccontano infinite cose. Un libro incollato con la colla, anziché rilegato, con una copertina bianca e nuda, oppure con una copertina colorata o arricchito dalla presenza di illustrazioni, di immagini. Il suo formato, i suoi caratteri, le loro dimensioni, i capoversi, le note, che ci siano o non ci siano. Non sono solo fatti letterali, sono messaggi, indicazioni sul senso, sempre che siano il frutto di una scelta. Ma anche se il senso non fosse intenzionale, vi sarebbe comunque, sarebbe un senso inconsapevole, come è spesso sempre di più, perché l’analfabetismo simbolico genera oggetti ignoranti, incapaci di chiedersi che cosa vogliono dire, esprimere, simboleggiare.
Paragoniamo una vecchia madia con una moderna, dell’Ikea. Guardiamo i materiali della vecchia madia, guardiamo le rifiniture, guardiamo se c’è qualche intarsio, qualche decorazione, qualche rilievo, chiediamoci a cosa risponde. Guardiamo la rifinitura dei mobili in serie, assaporiamo i materiali, tastiamoli, non c’è vita lì, non c’è odore, non c’è intensità, storia, radice. Solo una pallida imitazione, una sconfortante eco, un vuoto ritornello.
Il mondo è tutto insieme un incredibile concerto di significanti, spesso di richiami dolorosi, specie oggi, ma noi vi transitiamo inconsci, inebetiti, anzi volutamente insensibili. Forse proprio perché se ci fermassimo ad ascoltarlo, il messaggio simbolico del mondo, strettamente collegato da fili simbolici con la nostra interiorità, sentiremmo tutta la disperazione che proviene da un organismo sempre meno curato, armonico, sim-boleggiante. Un paesaggio incongruo, mostruoso, dissestato e pericolante. Un paesaggio che simboleggia le sue dissonanze e le sue lacerazioni in assenza di riconoscimento.
Ecco allora la necessità di ripristinare la nostra curiosità e sensibilità simbolica, la capacità di cogliere il senso, la vocazione persino delle cose. Il loro richiamo silenzioso. Sempre diverso, infinitamente sfumato. Cose che talvolta sono solo destinate a scomparire. Ce ne sono che chiedono una specifica cura, altre che vogliono essere spostate, altre che desiderano soltanto accogliere un oggetto a loro corrispondente, per albergarlo armoniosamente, come una tavola un vaso di fiori. Altre aspettano di morire ma talvolta, anche dopo la morte, come ci ha suggerito James Hillman, chiedono di restare per sim-boleggiare anche con la materia e con il sentimento di ciò che muore, con il decadimento, con la rovina.
Occorre allenarsi al riconoscimento simbolico, una tipica attività immaginale, frutto di attenzione, di immaginazione, di cultura e soprattutto di sensi attivi e febbrili.
Forse così potremmo ricominciare ad accorgerci delle nostra inedia simbolica, del nostro malessere profondo, che è anche e, ritengo, soprattutto, il tremendo effetto di questa anestesia, di questa noncuranza, di questa insensatezza del tutto che cresce, che cresce in assenza di ascolto e di immaginazione attiva, e che ci trascina inconsapevolmente con sé.Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-86771564220549485632012-06-08T11:27:00.001+02:002012-06-08T11:27:50.641+02:00Fuoco e corpo immaginale<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<br /></div>La pedagogia immaginale, così come ho cercato di formularla fin dall’inizio e poi via via con sempre maggiore profondità anche con il contributo di tutti coloro che l’hanno condivisa, non è fondamentalmente un’attività intellettuale. La ricerca immaginale è una ricerca percorsa con il cuore e con i sensi, con l’intuizione e con la passione, solo perifericamente è un atto intellettuale. I nostri autori (gli artisti) sono artefici di una conoscenza come “gnosi”, atto indiviso di apprensione del mondo nella sua integrità, che si realizza attraverso una ricettività globale. Il corpo è il ricettacolo ineludibile di ogni apprensione immaginativa e il tessuto emozionale, strettamente integrato al corpo, ne è la camera di risonanza primaria. E’ attraverso l’emozione corporea, anzitutto, che siamo colpiti e attraversati dall’immagine simbolica.
La filosofia che si ispira all’immaginale, almeno nell’accezione in cui da anni mi propongo di diffonderla, non è la filosofia degli intellettuali, non è la filosofia teoretica né la filosofia degli asceti. Ho condiviso, fin da quando l’ho conosciuto, il punto di vista di Françoise Bonardel che contrappone proprio alla scissione inerente a tutti i saperi filosofici e disciplinari segnati dal primato del logos e dell’intelletto, una ricerca di tipo filosofale. Per noi i “filosofi” autentici sono i “figli d’Ermes” e, come per Artaud, l’alchimia è per noi un “combattimento per l’incarnazione” (Bonardel). La filosofia immaginale che pratico è dunque un’ esplorazione filosofale di una materia impura, quella dell’esperienza umana del mondo e dell’esperienza terrestre dell’uomo in costante simbolizzazione ma soprattutto un’educazione a farsi terrestri, radiosamente terrestri, a perfezionare ogni atto conoscitivo in esperienza integralmente vitale. Gli autori che gravitano in un simile travaglio di contaminazione, a gradi diversi di immersione nella pâte immaginale, sono molteplici, e vanno da Jung a Nietzsche, da Paracelso a Novalis, da Hillman e Durand a Deleuze, da Eraclito a Bachelard, da Rilke ad Artaud, da Corbin a Bousquet, da Caillois a Bonnefoy a Schérer.
La nostra ricerca è stata fin dall’inizio immersione nella materia immaginale con la precisa consapevolezza che occorreva un’ accondiscendenza e una decostruzione di tutti i nostri apparati dottrinari e di tutti i nostri pregiudizi conoscitivi.
Oggi ci rendiamo conto che il nostro apparato operativo, il nostro crogiolo, che chiamiamo “radura”, in onore ad una interpretazione radicale della nozione heideggeriana, è forse troppo statico e talora troppo freddo per accogliere l’incandescenza della materia immaginale in maniera omeopatica, come si conviene. Occorre dunque attivarlo maggiormente. Le nostre istruzioni restano valide, il nostro richiamo a non letteralizzare il cosmo immaginativo anche ma vogliamo aggiungere materia al fuoco. Da un fuoco di bagno vogliamo passare a un fuoco di fiamma, ad un fuoco più intenso. Occorre più calore corporeo, più preparazione all’incontro con le immagini, più conversione ad un attraversamento corporeo, carnale, da sperimentare attraverso il gesto, l’improvvisazione, la danza. All’immaginale si corrisponde con l’immaginale, cioè con un linguaggio che smarrisca quanto più è possibile le tracce di una razionalità diairetica e definitoria, di una cerebralità radicata in una tradizione che è in continuo movimento. Il linguaggio con cui aderire al mondo immaginale è sempre più quello del canto e della danza, del teatro e della poesia, di una “postura” filosofale sempre più aliena all’ipostatizzazione del concetto.
Per questo introdurremo, dopo averle sperimentate e ponderate, progressivamente, nelle nostre sessioni di esercizio immaginale, pratiche di preparazione corporea, insieme a una elaborazione del vissuto corporeo dell’esperienza immaginale, ad un suo accompagnamento più caldo e ad una restituzione, in forme creatrici, delle risonanze e delle analogie attivate dall’incontro con la materia immaginale.
L’esercizio immaginale non è un seminario di analisi critica o di analisi simbolica delle forme immaginali, è una passione partecipativa ad un mondo a sua volta vivente, di cui si tratta di abitare fino in fondo la carne incandescente.
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgVMuyyDaouYWRKs8jCbpgs65uxtb-zp5HTdr98ZAbC-TqYMWy0CHCPEfMN5UaOa-hTpW-68O91GZ39FCh_MzW9v62L0H-ylMaLI69-B4-KECucfhHUaPIGM2mkoMMJ1Oc6bOEQfRQCq44/s1600/la_jeunesse_de_bacchus.jpg" imageanchor="1" style="clear:right; float:right; margin-left:1em; margin-bottom:1em"><img border="0" height="175" width="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgVMuyyDaouYWRKs8jCbpgs65uxtb-zp5HTdr98ZAbC-TqYMWy0CHCPEfMN5UaOa-hTpW-68O91GZ39FCh_MzW9v62L0H-ylMaLI69-B4-KECucfhHUaPIGM2mkoMMJ1Oc6bOEQfRQCq44/s320/la_jeunesse_de_bacchus.jpg" /></a>Unknownnoreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-55742838170123215052012-06-02T17:04:00.000+02:002012-06-02T17:04:18.487+02:00<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFyd_usoY9nlh8xm_L2sI5CLZ25DP54uY9OMkjhl-9Xo6D1BZnNPp6FQf3c5kFiMib5D60Tux8DHBJkr2sbm5e72ieyK9qRAHQdihAVdeJ1E6LIp3P_Es3OHwEaJvSbZWIKaXRP_uijw4/s1600/Immagine-8.png" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"></a></div>
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFyd_usoY9nlh8xm_L2sI5CLZ25DP54uY9OMkjhl-9Xo6D1BZnNPp6FQf3c5kFiMib5D60Tux8DHBJkr2sbm5e72ieyK9qRAHQdihAVdeJ1E6LIp3P_Es3OHwEaJvSbZWIKaXRP_uijw4/s1600/Immagine-8.png" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"></a><strong>"ROSSO". La visione forgiata nell'officina di Mark Rothko</strong>.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFyd_usoY9nlh8xm_L2sI5CLZ25DP54uY9OMkjhl-9Xo6D1BZnNPp6FQf3c5kFiMib5D60Tux8DHBJkr2sbm5e72ieyK9qRAHQdihAVdeJ1E6LIp3P_Es3OHwEaJvSbZWIKaXRP_uijw4/s1600/Immagine-8.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="262" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFyd_usoY9nlh8xm_L2sI5CLZ25DP54uY9OMkjhl-9Xo6D1BZnNPp6FQf3c5kFiMib5D60Tux8DHBJkr2sbm5e72ieyK9qRAHQdihAVdeJ1E6LIp3P_Es3OHwEaJvSbZWIKaXRP_uijw4/s400/Immagine-8.png" width="400" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;"><em>Una
volta l’arte era un’impresa solitaria: niente gallerie, niente collezionisti,
niente critici, niente soldi. Non avevamo maestri. Non avevamo genitori.
Eravamo soli. Eppure è stato un periodo d’oro perché non avevamo niente da
perdere e tutta una visione da guadagnare.</em> (Mark Rothko)<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Le
luci si abbassano, il buio immerge gli spettatori nel silenzio e nell’attesa, l’oscurità
avvolge gli attori nella tensione di un’ansiosa aspettativa che si ripete e si
rinnova ogni volta nel gioco di una rappresentazione. Il nero crea uno spazio e
un tempo di sospensione che permette all’evento teatrale di germogliare. Poi lentamente
l’incertezza tenebrosa si dirada circondando e custodendo la radura del
palcoscenico da cui emergono due tele di grandi dimensioni. Un uomo le guarda.
Dopo qualche istante entra in scena un giovane al quale l’artista chiede «Cosa
vedi?» e lo esorta ad avvicinarsi all’opera, a lasciarsi abbracciare da essa,
ad immergersi in essa, nella densità e nelle trame del colore. Così inizia lo
spettacolo “Rosso” in scena fino al 3 giugno al Teatro Elfo Puccini di Milano.
Così il pittore Mark Rothko invita il suo nuovo assistente e lo spettatore a
partecipare con tutto il suo corpo, la sua mente e i suoi sensi nella sua
opera, a lasciarsi avvolgere ed inglobare in essa, nella profondità
superficiale di un rosso circondato, penetrato e sfumato dal nero. <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Le
opere di Rothko, <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Deep Red on Maroon</i> e
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">Mural for End Wall</i>, divengono la
guida di un percorso di sprofondamento dello sguardo, di dissoluzione di una
visione giudicante che imprime sulle immagini valutazioni estetiche e
moraleggianti, di abbandono di uno sguardo mercificante che si impossessa di quadri
per definire, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>nella società della “chiacchiera”
e dell’apparenza, il proprio <i style="mso-bidi-font-style: normal;">status</i> sociale
ed economico, di distruzione di una facoltà meramente creativa che si limita a produrre
nuove forme della realtà dimenticandosi e abusando di essa. Le opere di Rothko
costituiscono la premessa e il punto d’approdo dell’apprendistato del giovane
che si fermerà per «due anni, cinque giorni alla settimana, otto ore al giorno»
nello studio del pittore inondato di molteplici tonalità di rosso che macchia
il pavimento, straborda dalle pentole e dai barattoli di tempera, cola dai
pennelli, impregna i vestiti. E lo studio di Rothko diviene per l’allievo e per
lo spettatore luogo dove sostare per discendere, rimanere per contemplare e
lasciarsi intridere dal rosso.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Il
rosso è vita, affermazione della vita nella chiara consapevolezza della morte. É
inquietudine, caos e ordine, tensione e meditazione, rabbia e pacificazione, passione
e dolore, luce e tenebra. È il colore denso e scuro del sangue che si rapprende
e coagula nel biancore della neve nel flusso impetuoso di ricordi del giovane. E’
il rosso acceso e vivo che scorre dalle vene del pittore preannunciando il suo
suicidio. È il tono amaranto che l’artista e il suo allievo dipingono in un
corpo a corpo con l’opera. È il colore di un’operatività che rimanda metaforicamente
all’alchimia che, come spiega lo stesso Rothko, è un continuo «farsi e disfarsi dal
concreto all’astratto e di nuovo al concreto», in una processualità senza fine,
in un continuo svolgersi oscillatorio di un processo di bilanciamento
inarrestabile.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Lo
spettacolo si conclude con l’artista che guarda la sua opera. É in piedi, vicino
alla tela, col capo reclinato, in labile e instabile equilibrio sembra essere
sul punto di immergersi nell'immagine, di dissolversi in essa, di rendersi
invisibile dopo aver licenziato il suo assistente e dopo aver restituito le sue
opere alla penombra, togliendole dalle sale del prestigioso ristorante <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Four Seasons</i> di New York per cui erano
state concepite.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 12pt; line-height: 115%;">E
noi spettatori non possiamo far altro che uscire dalla sala attraverso l’opera
stessa.</span><span style="font-family: "Comic Sans MS";"><o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-10304807715000509862012-05-03T21:51:00.001+02:002012-05-03T21:57:35.264+02:00Una tazza di mare in tempesta<br />
<a href="http://www.robertoabbiati.it/images/una%20tazza%20di%20mare%20in%20tempesta4%20foto%20lucia%20baldini.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="http://www.robertoabbiati.it/images/una%20tazza%20di%20mare%20in%20tempesta4%20foto%20lucia%20baldini.jpg" width="134" /></a><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin;"><strong><span style="font-size: large;"></span></strong></span><br />
<br />
<br />
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">Ogni
volta <o:p></o:p></span></i><br />
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">che
mi accorgo di atteggiare le labbra al torvo,<o:p></o:p></i></span><br />
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">ogni
volta che nell’anima scende come un novembre umido e piovigginoso, <o:p></o:p></i></span><br />
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">ogni
volta che il malumore si fa tanto forte in me (…) <o:p></o:p></i></span><br />
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">Allora
dico che è tempo di mettermi in mare al più presto, questo è il mio surrogato
della pistola e della pallottola. (Melville)<o:p></o:p></i></span><br />
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
</span><br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">Con queste parole,
prese direttamente dall’incipit di Moby Dick, comincia <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Una tazza di mare in tempesta</i>, di Roberto Abbiati.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
Uno spettacolo in una
scatola.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
Una scatola di legno
per contenere poche persone, il pubblico, insolito carico della stiva di una
baleniera.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
Una piccola
installazione per un breve spettacolo, fatto di pochi piccoli oggetti che
possono evocare grandi cose: disegni, sculture, lampadine, oggetti d’uso
quotidiano suggeriscono balene, velieri e oceani…<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
Le cose raccontano
l’ossessione di Achab per la sua Moby Dick, costringendo lo spettatore ad
un’instabile postura e ad una scomoda seduta. Dal centro della scatola occorre
continuamente voltarsi, torcersi e cambiare il proprio punto di vista, per non
perdere il sottile e delicato filo della narrazione che va in scena. <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
Si è trascinati in
un vortice di scene, o meglio quadri in miniatura da contemplare per pochi
istanti che, dal buio in cui siamo immersi, appaiono illuminati dalla fievole
luce di una lampadina: l’ombra di un veliero, la corda che si strappa, la lotta
con l’animale, il temporale…<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif;">
</span><span style="font-family: Times, "Times New Roman", serif; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin; mso-hansi-theme-font: minor-latin;">Uno spettacolo per adulti che incanta anche i bambini.</span></div>Sara Rivahttp://www.blogger.com/profile/11633100975285833597noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-26613841097748393192012-03-30T11:53:00.004+02:002012-03-30T19:23:33.986+02:00Voci da una scuola disseccata e degradata<div align="justify">Condivido con i lettori del blog il progetto di due insegnanti della scuola secondaria di secondo grado per rovesciare e ripensare la scuola sotto il segno della qualità, del pubblico, della passione, della vitalità e della bellezza dell'apprendimento-insegnamento.</div><div align="justify">L'articolo è apparso su MicroMega il 26 marzo 2012.</div><div align="justify"> </div><div align="justify"> </div><div align="justify"><span style="font-size:85%;"><strong>Per una rivoluzione della scuola superiore</strong></span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;"><em>di Elena Fabrizio e Carla Fabiani</em> (Docenti scuola media superiore di II grado)</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">Il tema della scuola, in tempo di crisi, viene affrontato per lo più da un punto di vista quantitativo. Quante risorse disponibili spese e da spendere in previsione. Quanti tagli. Quanti esuberi fra gli insegnanti. Quanti precari da immettere in ruolo. Quanti pensionamenti. Consapevoli che queste politiche delle quantità rientrano in una più generale attività dei governi finalizzata a comprimere i costi dello Stato sociale, in estremo spregio, da destra e da sinistra, del fondamentale diritto all’istruzione, intendiamo denunciare in che misura esse vadano invece a incidere sulla qualità della didattica.Noi vogliamo, infatti, parlare di qualità. E precisamente della qualità dell’insegnamento-apprendimento così come si presenta nell’ambito della scuola pubblica superiore e nei licei in particolare.Il livello di preparazione dei docenti si è notevolmente abbassato negli ultimi dieci anni per ragioni che riguardano innanzitutto il diploma universitario cosiddetto 3+2, che ha fortemente dequalificato la formazione globale dello studente, il sistema delle abilitazione SSIS, ma anche perché spesso, con il cosiddetto passaggio di ruolo o di cattedra, insegnanti, che per anni si sono dedicati a una disciplina, passano improvvisamente ad insegnarne un’altra. Non ultima per gravità è la mancanza di seri corsi di aggiornamento in itinere, improntati sia alla sperimentazione didattica sia all’approfondimento disciplinare. Al di là delle responsabilità dei singoli docenti, la qualità dell’insegnamento si realizza oggi, con la riforma Gelmini, in classi pollaio nelle quali risulta impossibile, da parte del docente, dedicarsi all’approfondimento dei contenuti disciplinari e a un apprendimento differenziato, finalizzato al recupero degli alunni più deboli.Il rischio di un ulteriore calo della formazione viene poi da una politica scolastica che si vede costretta a gonfiare i voti finali degli alunni, per non creare esuberi fra il corpo docente. Perdi alunni, perdi cattedre, perdi insegnamenti; e il merito non ha più ragion d’essere. Più in generale, il corpo docente è legato mani e piedi a una vita scolastica organizzata sempre più verticisticamente, fatta di carte e cartacce burocratico-amministrative nelle quali il confronto dialogico docente-studente e docente-docente tramonta miseramente.La didattica sperimentale, laboratoriale, creativa e non-manualistica è di fatto impedita da un sistema tutto teso a premiare competenze-conoscenze-abilità, cioè parametri oggettivo-quantitativi valutati con il sistema dei quiz. Quello che conta sono le tabelle da compilare a fine anno con i relativi crediti-debiti. Non conta cioè come effettivamente quel corso di studi sia stato condotto. Il processo e la qualità scompaiono nel risultato finale.La diffusione e l’imporsi – fuori della scuola beninteso – delle nuove tecnologie informatiche ha determinato un salto antropologico che, in termini cognitivi, determina la sostituzione da parte del computer della capacità tutta umana di memorizzare, calcolare, leggere, creare, comunicare, pensare. Tutto ciò porta con sé l’abbassamento del livello minimo di attenzione prestato dagli studenti a una lezione di media difficoltà; la difficoltà che manifestano nel leggere e capire allo stesso tempo – parliamo di ragazzi quasi maggiorenni – oltre che, evidentemente, la difficoltà che mostrano nella scrittura - non sanno dove mettere la virgola, il punto, ecc. - e nell’articolazione concettuale dei diversi contenuti disciplinari.Ciò che ancora di più risulta depresso e impedito, da tutto quanto detto sopra, è l’obiettivo “minimo” che una scuola pubblica dovrebbe raggiungere: l’acquisizione da parte dello studente di un metodo di studio autonomo, originale, proprio.I docenti che vivono questa crisi dell’istruzione sono indotti dalle condizioni oggettive nelle quali lavorano ogni giorno a elaborare alternative più razionali, più giuste, più funzionali di quelle che una classe dirigente politica, troppo incurante del valore-scuola, ha fino ad oggi imposto. Ne segnaliamo di seguito solo quelle essenziali.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">1) <em>Sulla formazione dei docenti</em>. Il concorso pubblico, opportunamente rivisto, è sempre meglio del corso a pagamento. Dopo la laurea chi voglia insegnare dovrebbe intraprendere un breve percorso formativo di tipo universitario (gratuito), nel quale acquisire i fondamentali strumenti della ricerca che gli consentano di imparare ad aggiornare autonomamente il proprio sapere.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">2) <em>Sulla scelta della scuola</em>. Bisognerebbe riqualificare le scuole tecnico-professionali e indirizzare sin da subito gli alunni che si iscrivono nei licei, ma che non sono portati per lo studio liceale, verso queste scuole; i ragazzi dovrebbero essere sottoposti subito a test selettivi, magari prima di iscriversi.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">3) <em>Sulle classi</em>. Non dovrebbero essere composte da più di 15-18 studenti, così da seguirli tutti, proporre apprendimenti e saperi differenziati, elaborare percorsi disciplinari.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">4) <em>Sulla valutazione</em>. Eliminazione del sistema interrogazione/voto, la valutazione in itinere è miope perché finalizzata al particolare momento del sapere e non all'intero processo. Solo la valutazione finale su tutto il programma. È più importante esercitare il dialogo ogni giorno, improntando una didattica altamente collaborativa tra docenti e alunni.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">5) <em>Sui corsi di recupero</em>. Eliminazione dei corsi di recupero, la percentuale di quelli che recuperano è molto bassa. La scuola è diventata la sede per eccellenza del recupero, è il luogo dove si recupera e dunque si è sempre in affanno; ma con il recupero non si impara, almeno finché l’obiettivo del recupero rimane il voto.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">6) <em>Sul sistema competenze/conoscenze/abilità</em>. Abolire questo sistema e sostituirlo con l’obiettivo di un metodo di studio autonomo, in cui il ragazzo impari a imparare.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">7) <em>Spazi e tempi della scuola.</em> Far stare gli alunni più tempo a scuola, iniziare le lezioni non prima delle 9:00, con lezioni, per es., di 60 minuti e pause di 15 tra una lezione e l’altra; farli convivere nella scuola, farli studiare a scuola, attrezzare la scuola di biblioteche e videoteche, palestre, campi di calcio, di tennis, giardini, alberi, fiori, orti botanici, cucine.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">8) <em>Sull’eguaglianza di opportunità</em>. Per soddisfarla oggi si è affermata la logica del merito, più meriti più opportunità. Noi crediamo che incentivare il merito dovrebbe significare offrire anche “a chi non merita” (alunni poco volenterosi o cognitivamente più deboli) altre opportunità e stimoli culturali. A tal fine occorre incentivare il pensiero divergente, non condannando gli alunni deboli alla loro debolezza, ma offrendo loro stimoli culturali con i quali riprendersi dalla loro apatia. Invece la scuola crede oggi di soddisfare questo diritto all'opportunità regalando il sei.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">9) <em>Sulla dirigenza</em>. I dirigenti scolastici dovrebbero limitarsi a gestire le risorse economiche della scuola, e cioè preoccuparsi di manutenere i locali della scuola (in termini di ordine, decoro, pulizia, bellezza); di creare un clima cordiale tra i docenti; di intervenire il meno possibile nella valutazione e nell’autonomia didattica, ma molto di più sui fenomeni di assenteismo e lassismo; dovrebbero essere più professionali e meno protettivi con gli alunni, che già godono dell’eccessiva protezione dei genitori</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">10) <em>Sui genitori</em>. Ai genitori non deve essere permesso di scegliere le sezioni, di entrare nel merito di valutazioni e comportamenti dei docenti, di far pesare la propria condizione sociale (a cui spesso, insieme ai figli, si appellano per presumere di avere diritto ad una scuola più qualificata). A tal fine occorre scrivere un codice di comportamento anche per i genitori.</span></div><div align="justify"><span style="font-size:85%;">Questo progetto per la scuola, che noi consideriamo minimo per il suo riscatto, ha bisogno di una nuova rivoluzione antropologica, che sproni la classe politica a dirottare le risorse economiche nella risorsa scuola. Ma finché le riforme scolastiche le fanno i politici, che per lo più mandano i loro figli nelle scuole private, noi, che di privato abbiamo solo i libri sui quali ci formiamo per il pubblico, siamo destinati alla sola amara denuncia.</span></div>Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-57834385186151576172011-12-23T11:04:00.007+01:002011-12-23T20:51:47.594+01:00Mario Perniola: l'intellettuale organico al sex-appeal di Berlusconi<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVC3VTevwRbCrVso4nFP5gVQh3f7-5NegYC0GX0C6QyAnTTfjFJMhJi79NAVXKxY-xHsbxgVmAkWYf5ktSjAyh1C-MyPsQ8wGxJpbo6XBlquUrS_uNXHdCGlQ1eByeLr2Rvv67vdprvdE/s1600/grosz.greydance.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 233px; height: 320px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVC3VTevwRbCrVso4nFP5gVQh3f7-5NegYC0GX0C6QyAnTTfjFJMhJi79NAVXKxY-xHsbxgVmAkWYf5ktSjAyh1C-MyPsQ8wGxJpbo6XBlquUrS_uNXHdCGlQ1eByeLr2Rvv67vdprvdE/s320/grosz.greydance.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5689263022830923842" /></a><br />L’ho visto ridacchiare, compiaciuto, ospite dell’Infedele di Gad Lerner, mentre un servizio compiacente mandava in onda immagini di guerriglia del ’68 e sequenze tratte dai set “telecratici” (Virilio) di Mediaset. Se la rideva, il “grande filosofo”, come recita la quarta di copertina dell’agilissimo volumetto da poco dato alle stampe, davvero poche pagine, dallo spettacolarissimo titolo “Berlusconi o il ’68 realizzato”. Chissà di cosa rideva, forse del pubblico, difficilmente di sé stesso, non c’è traccia di autoironia nelle deflagranti affermazioni del “filosofo”, sicuramente se la rideva di tutti coloro che hanno abboccato alle tragicomiche tesi sostenute appunto nel minipamhlet, che, per farla breve, fa del ’68 la premessa politica e culturale del regime berlusconiano. <br />Che non sono pochi, quelli che hanno abboccato intendo, a cominciare dallo stesso Lerner evidentemente, che non dice una parola sulla questione, limitandosi a promuoverla acriticamente, alla Repubblica e ad altre autorevoli testate che ne parlano con insolita curiosità e non senza un'esplicita condivisione. E certo, ahimè, questo nuovo sport, praticato a destra come a sinistra ormai (mentre per molto tempo è stato un’attività esclusiva della destra), come si potrebbe definirlo? “scoreggiare sopra il ‘68”? no, troppo volgare, diciamo fare del ’68 un’abbreviazione per qualcosa che deve essere rimosso e obliato quanto prima proprio attraverso il suo logoramento e imbrattamento sistematico (per tradurlo in una di quelle espressioni linguistiche di sapore ormai usuale, come “è successo un ‘48”, per dire di un conflitto sociale, con riferimento ai moti del 1848, ma senza più neppure il bisogno di saperlo, o “è una Russia”, per indicare genericamente uno stato di disordine, con riferimento alla rivoluzione russa. Da qui in avanti si potrà dire infatti: “che fai, un ‘68”?, con riferimento al 1968 ma intendendo: “te le godi” da giovane irriducibile e inconcludente, parassitando i tuoi genitori e in barba ad ogni rispetto per la cultura e il dovere).<br />Perché è questo che sta accadendo, nel mio più completo sconcerto, e parlo per me perché non avverto in giro gran scalpore o scandalo per questa evidente manifestazione di demenza più o meno senile. E da tempo. Perché Perniola non è davvero stato il primo a formulare una tesi del genere. No, da tempo è strombazzata dagli intellettuali lacaniani per esempio, il simpatico e geniale Zizek in testa, il vero clown della filosofia, capace di infarcire i suoi volumi anche densi con gustosi ammiccamenti sessuali, aneddoti sulla vita di Stalin e Lenin e soprattutto con il suo gusto un po’ grossolano, a dire il vero, per il cinema, specie per il filone pop-fantasy, Matrix insomma per intenderci. Lui è stato tra i più incisivi a scatenarsi contro il ’68, vero male del ‘900, induttore di quella coazione al godimento, secondo le sacre scritture del padre-dio Lacan, il “soggetto supposto sapere”, che già aveva profetizzato la trasformazione del super-io normativo freudiano in un super-io trasgressivo il cui unico imperativo avrebbe suonato, per i seguaci della setta: “godi!”. Di qui il passo è breve, quindi. E’ il ’68 ad avere prescritto il godimento generalizzato, è dunque lui ad avere promosso la società dei consumi e dello spettacolo, è lui ad aver alienato il nostro desiderio, è lui ad aver generato nuovi padroni, non più patriarcali ma buffi e cialtroni, insomma Berlusconi.<br />Teorema dotato certo di un astruso fascino, non c’è che dire, perché ha una sua intonazione seduttiva. A recitarlo qui da noi ci sono vari personaggi, più o meno noti, da Recalcati a Magrelli, da Perniola a Beppe Sebaste e via discorrendo. <br />A me la cosa suscita un moto di violenta indignazione, non tanto per la diagnosi della società contemporanea, forse vittima di quello “sgravio” di cui parla con ben più dotta prosa Peter Sloterdijk ma non per questo certo esentata dall’imperativo del sacrificio e dall’alienazione del proprio surplus di valore, checché se ne dica. Società dove certo non vige una liberazione generalizzata, come avrebbe voluto il cosiddetto ’68, ma una approssimazione al godimento (ma quale esattamente, quello della pornografia televisiva e delle escort?) in ogni caso che ha pochi, se non pochissimi autentici fruitori. Semmai vi sono moltissimi eccitati a mete di piacere di cui al massimo possono godere i simulacri, le immagini, le riproduzioni. Ma il ’68 non celebrava certo la società dello spettacolo, la cui analisi per altro lo precede di qualche anno, ad opera di quel Debord che tra l’altro Perniola conosceva bene, essendo stato, a suo tempo, un situazionista. E certo è curioso che un partecipante al ’68, in una delle sue manifestazioni più interessanti e singolari, oggi ne sia il detrattore tanto scatenato. Ma è un fenomeno vecchio anche questo, quello del “pentitismo”, quello della svalutazione di una giovinezza che non c’è più e che ha lasciato dietro di sé solo disperazione e fallimento. <br />Se c’è una diagnosi seria del ’68 e dei suoi sviluppi, è solo quella che ne ha, da tempo, decretato la sconfitta, proprio nella cultura degli anni ’80 e ’90, falsamente e classisticamente permissiva. La cultura di un capitalismo che sta facendo a pezzi il mondo, letteralmente, quando il ‘ 68 era anche e soprattutto caratterizzato dalla sensibilità critica per le derive internazionali dell’imperialismo (allora lo si chiamava così, prima della globalizzazione), per esempio con il sostegno al Vietnam. Il ’68 traeva la sua linfa da un’infinità di punti di pescaggio, da una cultura che mescolava la Teoria critica di Francoforte con gli orgoni di Reich, l’antipsichiatria e il teatro della crudeltà, Cooper e Vaneigem, Freire e Fanon, Artaud con Benjamin, Sartre, Levi-Strauss e Fourier (appena dato alle stampe in quel periodo) con Marcuse e il giovane Marx. Ma come si può confondere, anche solo sul piano culturale ( e senza parlare dell’arte, dell’economia, della letteratura, della sociologia, della politica), quelle radici, di così grande dignità culturale, con il ciarpame neopopulista e neofascista del ventennio berlusconiano, con il suo nulla (neppure lo spiritualismo o il futurismo che sostennero il fascismo)? Con una subcultura pop-mafiosa?<br />Giovanilismo, rifiuto della scuola, della cultura, dell’università, liberazione sessuale e del desiderio, dell’immaginazione, queste le colpe poste in equazione al “progetto” berlusconiano di cui delira Perniola. Ma di cosa stiamo parlando? Certo, il ’68 fu una rivoluzione, forse giova ricordarlo, che mise in discussione tutto (“Vogliamo tutto” recitava un testo famoso di Nanni Balestrini) ma nel senso che tutto doveva essere sovvertito, la cultura ingessata e autoritaria, la scuola di classe, l’università elitaria, la famiglia cattolica e repressiva, la sessualità gerarchizzata, interdetta e ibernata (forse occorrerebbe ricordare l’immensa rivoluzione di cui furono protagoniste le donne, in quell’epoca, a favore anche di un ripensamento maschile? Il che spiega probabilmente anche perché tra i tanti detrattori odierni del ’68 ci siano pochissime donne, che io sappia). <br />Ma come si fa a non cogliere l’elemento vitale, collettivo, emancipatorio di quella progettualità, buona e giusta, e soprattutto a non vederne la macroscopica incompatibilità con il “deserto del reale”, così come ha definito in uno dei suoi migliori libri, proprio Zizek, l’attuale stato delle cose? E’ stato il ’68 a muovere tutto e a scatenare come una valanga di neve ciò che ha poi deflagrato nel nulla odierno? Tesi davvero improponibile e balorda. Forse si dimentica la saldatura che vi fu tra movimento studentesco e movimento operaio, la portata collettiva e partecipativa di quel grande movimento, che non è stato il detonatore di una alquanto supposta civiltà del piacere (purtroppo!!!) ma semmai che è stato lentamente e duramente sconfitto da un capitalismo canceroso che ne ha sfruttato alcuni elementi scorporati per asservirli ad un nuovo, pervasivo e più potente sistema di dominio. Cui evidentemente non sfuggono né Perniola né Zizek, se hanno bisogno di sfruttare a loro modo tesi così “spettacolari”, così evidentemente paradossali da sconfinare nella “butade” dell’attore consumato, nel birignao, nell’ossimoro utile solo a scatenare tempeste mediatiche inutili e distruttive. Che utilizzano proprio ciò che fa del capitalismo attuale un terribile avvelenatore, la legge assoluta dell’equivalenza, così ben sottolineata da Sloterdijk in uno dei suoi testi. La legge che ha fatto di tutte le cose pezzi interscambiabili, che possono essere sostituiti l’uno con l’altro senza che nulla cambi, la legge dell’equivalenze generalizzata, artificio peggiore di una reazione atomica, che rende impossibile produrre una qualsivoglia sporgenza sopra il deserto del reale. Per il quale dunque il ’68 può essere uguale a Berlusconi e viceversa, o la destra può essere sinistra e così via, come aveva già lucidamente cantato Giorgio Gaber. E’ però una tristezza constatare che tanta (supposta) intelligenza si presti a questo disegno sterminatore, con un sottile godimento, tra l’altro, proprio il godimento che imputano alle “masse” (un chiaro gaudente di questo genere è l’inossidabile Cacciari!). E qui emerge la loro vera identità. Si tratta di intellettuali iperaristocratici, proprio loro, che hanno tifato per il pop e per il rovesciamento delle categorie tradizionali dell’estetica o della morale, gli immoralisti, gli ermeneuti della Coca-Cola e dei blue-jeans. In realtà sono quelli che odiano la “gente” e che pur di continuare a sembrare diversi, pur di sentirsi delle star, anche sul pianeta dei Berlusconi, giocano il gioco osceno, il gioco mortifero, il gioco pornografico del fare di tutto l’eguale del tutto, del ’68 quindi –incredibile – la stessa cosa di Berlusconi.<br />Questo è l’intellettuale organico al sex-appeal di Berlusconi, l’intellettuale elitario di cui mi vergogno e per il quale invoco e spero un nuovo ’68, magari proprio da parte di quegli indignati di cui “gente” come Perniola ironizzava tutto goduto l’altra sera da Gad Lerner.Unknownnoreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-48020982103931706672011-10-30T18:13:00.003+01:002011-10-30T18:48:43.073+01:00Laboratori immaginali d'infanzia<div><a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQGqc1xd4jlU2xvpugW84rt1O-WpCi-zzKQE3Oc_9ZSSe6CEsQcEY9OVlmLP0eNpQrmIdrcEiXhHzpYVT96_aG-SF0WpOX0YJ0T8y0VwPTio7V-do358mBpn4TGukVBnhQARZXYBW3K3A/s1600/III+incontro++020.JPG"><img style="margin: 0px 0px 10px 10px; width: 320px; height: 239px; float: right; cursor: pointer;" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5669336720338115714" border="0" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQGqc1xd4jlU2xvpugW84rt1O-WpCi-zzKQE3Oc_9ZSSe6CEsQcEY9OVlmLP0eNpQrmIdrcEiXhHzpYVT96_aG-SF0WpOX0YJ0T8y0VwPTio7V-do358mBpn4TGukVBnhQARZXYBW3K3A/s320/III+incontro++020.JPG" /></a></div><div align="justify"><font face="georgia"><font face="times new roman">C’è silenzio in aula, un silenzio colmo di attenzione, concentrazione, contemplazione. Sta parlando un’immagine e i bambini la stanno ascoltando con la partecipazione di tutti i sensi, la sfiorano, fanno scorrere lentamente le loro dita lungo i contorni del quadro e tra le linee nere che disegnano forme inconsuete, si muovono tra le sfumature di colore e ne percepiscono la corposità e il diradarsi. Avvicinano il loro viso al quadro oppure lo allontanano per vederlo da un’altra distanza, lo capovolgono o lo mettono in posizione orizzontale per osservarlo da diverse prospettive.<br />E’ il primo passaggio di un esercizio immaginale proposto ad alcune classi della scuola primaria all’interno di un progetto di sensibilizzazione alla diversità e alla disabilità promosso dall’associazione L’Abilità. E’ il momento della visione a cui i bambini sono introdotti e predisposti dall’ascolto di un brano musicale e dall’invito a concentrarsi sull’opera, che ognuno di loro ha sul proprio banco, con rispetto e accuratezza. Dopo la visione chiedo ai bambini di girare il quadro e lo spazio bianco del foglio apre e favorisce una fase di meditazione silenziosa in cui cominciano a disegnarsi appassionate e precise descrizioni, riproduzioni del quadro attraverso le parole, e accenni di interpretazioni. Dopo una prima scrittura, i bambini alternano nuove visioni con altri affioramenti di particolari e dettagli che condividono durante la circolazione. Ognuno legge quello che ha scritto, ciò che ha visto, in un’atmosfera protetta e depurata da qualsiasi frenesia di prestazione e di giudizio che impedirebbe il fluttuare e lo scambio di timide emergenze di senso e bloccherebbe il dialogo che i bambini intraprendono tra di loro e con il quadro. Un dialogo attraverso cui emergono nuovi particolari, si approfondiscono i dettagli e si cercano insieme possibili risposte e significazioni della diversità e della disabilità con l’opera del pittore francese Georges Rouault “Il pagliaccio ferito”. Opera ambigua e ambivalente dai colori opachi e accessi situata tra la luce e il buio, l’alba e il tramonto e che situa in uno spazio di dubbi e contraddizioni, in cui spesso i bambini faticano a sostare e mi chiedono di svelargli il senso dell’opera, il suo segreto. Un’ immagine che parla di tristezza, malinconia, dolore, ferita, morte, di quelle dimensioni legate visibilmente e indissolubilmente alla disabilità, ad ogni condizione di minorazione. I tre personaggi, marionette o figure umane, sono segnati dalla ferita, portano su di sé il segno del danno, per natura o per determinazioni esterne. Hanno uno sguardo basso, vuoto, «uno solo vede veramente la luna, gli altri la vedono immaginandola», descrive un bambino, ma anche «la luna li guarda» aggiunge un altro. La loro postura instabile e claudicante esprime un momento di debolezza e sofferenza di cui si fa spettatore e custode il personaggio più basso, una figura mercuriale e bricconesca che sembra offrire agli altri due un dono prezioso per una possibile guarigione o forse vuole giocare un tiro scherzoso e maligno. E ancora l’immagine parla ai bambini nascondendo e svelando un volto, in alto, nella cornice interna del quadro. Una figura enigmatica, indefinibile nel genere e nell’età, uno stregone con un pappagallo sulla spalla, una figura diabolica che sembra essere indifferente alla tristezza dei personaggi, ma anche una figura numinosa che plasma e forse dipinge il quadro, una sfinge che pone l’enigma della presenza misteriosa del male o un burattinaio che anima e manovra le sue marionette, che è chiamato a integrare il dire e il muoversi frantumato e parziale di coloro che si trovano ad affrontare il mondo in condizioni di particolare minorità, “ponendo le condizioni perché una soggettività compromessa e deficitaria possa ambire a una sua riconoscibilità”.<br />Questi sono i primi e provvisori significati di un’esperienza in corso e appena iniziata ma che cominciano ad offrire una prima rinnovata e approfondita visione dell’oggetto, una visione che fa emergere la complessità e la molteplicità dei volti della disabilità, oltre la sua medicalizzazione e al di là dell’atteggiamento compassionevole o di sottile scherno che esprimono anche i bambini, già condizionati dai pregiudizi e stereotipi della nostra società che emargina e allontana ciò che è differente, che può spaventare, che è minorato, in ritardo, incapace e impossibilitato ad alzarsi e a correre al ritmo serrato di ogni crescita e progresso. Per questo ci sembra necessario continuare a pensare e istituire un laboratorio immaginale per i bambini, uno spazio e un tempo prezioso e concentrato dove venire in contatto con l’inconsueto e il misterioso nell’incontro particolarissimo con l’opera d’arte per esplorare, perdersi e sostare nella ricchezza inesauribile dei suoi significati, per arricchire l’immagine e l’immaginazione del volto misterioso e profondo della minorità e della differenza.<br />Concludo questo post, e ogni incontro, con i titoli attraverso cui i bambini “ribattezzano” l’opera, gli offrono in dono un nuovo e rinnovato nome.<br />«Una grande disperazione. Il personaggio ammalato e ferito. L’alba triste e grigia. Era notte…Le persone che si aiutano l’un l’altro. Aiutarsi a vicenda. Bisogna affrontare… La differenza umana. Un dono non accettato. Anche se burattino ferito».<br /></font></font></div><font face="georgia"></font>Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-71071803283956161692011-07-04T18:54:00.001+02:002011-07-04T18:57:19.555+02:00Accademici letterali<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj5ZdJuJFWt-uqb-8umKhKgP2b_HZYgu8xX59CfB0GSjawzi81CtiLcaa3WBmfWySt8Oy5O0B9MPMEtNB67uY83s7v5tt87qJa0LWOmT6qOcE2oTWFAy9XG5haIF-iH47Rh7SqLy4s3klU/s1600/ensor_herring2.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 258px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj5ZdJuJFWt-uqb-8umKhKgP2b_HZYgu8xX59CfB0GSjawzi81CtiLcaa3WBmfWySt8Oy5O0B9MPMEtNB67uY83s7v5tt87qJa0LWOmT6qOcE2oTWFAy9XG5haIF-iH47Rh7SqLy4s3klU/s320/ensor_herring2.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5625541958351691634" /></a><br />I loro libri li riconosci al primo colpo d’occhio. Massicci, lineari come incroci nel deserto, dal colore indefinito e sudicio, senza immagine alcuna chè sono ispirati dalla peggiore iconoclastìa, scritti a carattere piccolo e normotipo. Grigi, salmodianti e tetri. Accumulano prove e citano all’impazzata, allineando riferimenti come i galloni di un’uniforme. Piatti e deduttivi, ogni concetto bonificato da qualsiasi traccia emozionale, poiché son patofobici all’inverosimile. Per loro ogni concessione all’apparenza è colpevole, ogni sospetto di seduzione, di ammiccamento, di sofisticazione è passibile di immediata scomunica, le armi solo quelle della verbosa retorica e del rigorismo ascetico. Parole scorticate e prosaicizzate affinchè nulla di troppo ambiguo vi sfugga, dittatura della denotazione e della asciuttezza, imperativi pragmatici ad ogni più sospinto, timore di esondare in spasmi di entusiasmo o, peggio, di slanci poetici e affabulatori. Il loro dio è l’utile, il loro strumento il pragma, la loro motivazione è l’eroismo punitivo, il loro proposito l’uniformazione alla legge.<br />I bigi chierici della parola ben finalizzata, temperata sul fuoco della prova di efficacia concettuale ma irrimediabilmente destinata a produrre noia e ripugnanza, dilagano ancora nella provincia del ben pensare. Specie nelle fucine accademiche, dove il loro credo si puntella spesso con le presunte buone ragioni del contrapporre le concrete pratiche e solerti all’aulicismo presunto della fucina filosofica o agli eroici furori considerati fatui delle passioni sensibili.<br />Contrari, per irrigidimento della colonna –propria- e della costola –libraria-, al “demone dell’analogia”, seminano l’aere già costipato dal nulla, di nuove macchinose elucubrazioni sedicentemente parate sotto il vessillo dell’utile e del maneggevole ma in verità (ma qui alligna il vero occulto appagamento narcisico) annegate in una complessità che richiede protratta e anchilosata applicazione affinchè se ne deduca anche il più piccolo ( e spesso piccolissimo), ritorno di senso. Sia detto per inciso, alcuni sono animati dalle migliori intenzioni, fuori e dentro la provincia accademica, ma il problema da porsi è come sciogliere il grano duro delle loro prose forbite e aristocratiche per alimentare il gusto del sapere, il piacere di conoscere, come appassionare menti e cuori ai nocciòli più celati della cultura ma anche alla polpa sugosa.<br />Per evitare le paludi romantiche delle grandi idee dalla tribolata applicabilità (pèrò adatte a scuotere e risvegliare nel nome di un sapere sapido e succolento), si arenano nella sabbia ustoria ma talvolta anche mobile delle dissertazioni complicate e interminabili, spesso accompagnate da rendiconti empirici e controprove fattuali (dio scampi che essi non siano portatori dell’ausilio della verità riscontrata in atto), la cui compulsazione risulta indigesta anche al più daimonico dei lettori. I loro titoli sono brevi e anonimi, le loro copertine disseccate come cadaveri preistorici, i loro contenuti raffermi e improbi. Ma essi menan vanto proprio di questo: del non aver indulto agli eccessi di spettacolarizzazione (sommo peccato della cultura contemporanea), del non drogare i loro messaggi con ornamenti e cosmesi non richiesta ma soprattutto ( e qui ne emerge il volto irrimediabilmente compromesso di catecumeni penitenti) di aver del tutto espunto e diserbato il territorio di ogni traccia di libido che non sia quella pia e conserta delle cose concrete e “utili”, o dell’astrazione assoluta. Con una perversione maligna che è anche quella per la quale ha senso imparare solo se è arduo e ancor più arduo: nessun alleggerimento, anzi, se possibile aguzzare il male, scrivere piccolo, ingombrare di inutili e verbose citazioni, arzigogolare, azzerare le immagini, divinità infide e seduttrici, solo deve restare la scabra pagina bianca caricata di segni dall’improba comprensione, pagina iniziatica, selettiva, implacabile.<br />Ed è allora facile anche riconoscerli nelle loro diafane epifanìe: trascurati e sciatti, malvestiti e inodori, asettici, dai sorrisi fossili e senza bersaglio (tipico dell’amor agapico dei bravi cattolici: amar tutti per non amar nessuno), apparentemente gentili e in realtà feroci e invidiosi di ogni bellezza, specie se umana, specie se agghindata, specie se apprezzata. Brutti e indesiderabili, infestano i luoghi dell’istruzione, dove hanno eretto da secoli la loro fortezza e imperversano senza timore sulla specie umana ai suoi albori e, purtroppo, assai anche in seguito. Finché ne han destro, diciamo. Ché l’estro invece, di quello, son manchi. <br />D’essi una controeducazione nel piacere fondata e piena si vuol emancipare in tutti i modi, rifornendo il mondo dei precetti di Afrodite sull’aspetto, sulla seduzione, sul gusto d’immagine e sui suoi monili. Scatenando ovunque le frecce velenose e guaritrici di Eros, che perforino pelli e le lacerino fino a che urla e godimento faccian tutt’uno. Serpenti e mandragore affollino gli spazi incolti e spigolosi dove gli adunchi diffusori della noia generalizzata e del vaccino contro il desiderio imperversano, e ne concimino la dura sterpaglia. Affinchè cresca foresta fitta e stillante d’acqua di mimosa. <br />Si vogliono maestri attraenti e ben coltivati, dalle vesti preziose e dal profumo intenso, dai volti sapienti ma non indigenti di appassionamenti, cari a se stessi e disposti ad amare anche l’altro, con occhi accesi e parole fluenti. Si voglion libri veri, intarsiati dal sudore del tempo oppure anche nuovi ma colorati e piccanti, scritti con desiderio e di desiderio infusi, accattivanti e avventurosi, saporosi e fondi, come pozzi dove risuona il sottosuolo tiepido e umido o come il firmamento, dove le costellazioni vibrano la loro nota mercuriale e luminosa. Libri con immagini, con figure, libri sonori, libri come pasta di terra, che mentre li maneggi palpitano e traspirano, ti afferrano e ti trattengono, ti guardano e ti sorprendono.<br />Libri che i nostri adunchi nemici getterebbero nella Geenna, offesi dal vilipendio all’ascesi di un’ipostatica cultura tutta ossari e ritiri nel deserto. Libri che li facciano inorridire perché capaci di irretire al primo sguardo, tentacolari e mobili, irrorati dalla rugiada del desiderio, non più neppure libri ma corpi intarsiati e dionisiaci, danzanti e ammiccanti come baiadere.<br />Libri che nessun accademico di vaglia citerebbe mai, che mai questi dementi inserirebbero in bibliografia o proporrebbero ai propri studenti da esaminare, libri che li terrorizzerebbero perché capaci persino di appassionare e di emozionare. Giammai! Il libro come cilicio, l’esame come sanzione, lo studio come castigo, il sapere come vessazione. Questo il vangelo dei catecumeni della vera scienza, ora in coda per essere ammessi alla prova dell’impact factor ma comunque pronti a escogitare pomici di conoscenza ispida e ingrata a test e a tesi. <br />Orrido sciame di cavallette devastatrici, come liberarsi di questa infausta genìa, come sgombrare la radura dell’imparare dalle loro zampe ungulate e feroci? Come scacciare la peste di questi sgobboni del nulla, di questi cimeli dell’autolesionismo crudele e reiterato?<br />Forse davvero con l’apprender dolce e conviviale, con la lussuria della conversazione e della contemplazione felice, con libri sapidi e voluttuosi, con maestri del cuore e dell’eloquenza, con l’hammam fluente e nuovo di una radura, di un dare e di un ricevere nel segno della gratuità, della meraviglia, dell’avventura e della festa. Tramite il ludico, tramite il teatro, tramite l’immaginazione attiva e la musica, tramite il calore di corpi in mutua sintonìa, nel ritmo di una temporalità densa senza essere melensa, languida ma non spossata, febbrile senza isterie, allietata dal cibo, dal riposo, dall’espansione corporea e dal coito dei pensieri liberi e imprevidenti.Unknownnoreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-52424366807296402202011-06-02T13:17:00.003+02:002011-07-04T19:01:41.741+02:00Saper piacendo<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTN8tqMeqALKRrlYLMgkL7ioLjkkBfV9U0oXEDRe_5sC9F055fN0hAhBxjermzwVjKe4ZE1bHLXpbcy0Hp4vXpSQ3iOkUTIxTt-x6FeUybbTSqovVjFgzMnhXdAscLMGmTcnadKHWCidI/s1600/music+lesson.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 317px; height: 320px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTN8tqMeqALKRrlYLMgkL7ioLjkkBfV9U0oXEDRe_5sC9F055fN0hAhBxjermzwVjKe4ZE1bHLXpbcy0Hp4vXpSQ3iOkUTIxTt-x6FeUybbTSqovVjFgzMnhXdAscLMGmTcnadKHWCidI/s320/music+lesson.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5613580480372076594" /></a><br />Nostalgici del fallimento, i sacerdoti della fatica ancora sentenziano contro l’imparare dal piacere e il piacere d’imparare. Come se le loro scuole e i loro oratori avessero partorito il sale dell’acume e il seme della curiosità verso le vetuste cattedrali di enciclopedie aride e velenose che spacciano per sapere, invocano le piaghe della passione e i chiodi della tortura per tutti gli edonisti del nuovo millennio. Non paghi di aver mandato in bancarotta ogni traccia di cultura, in virtù di una radicale ignoranza sui meccanismi che sollevano gli occhi verso gli orizzonti iridati della conoscenza, ancora inveiscono sulla facilità dell’oggi contrapposta alla sana difficoltà dell’ieri (che ben pochi superstiti però ha lasciato sul suo cammino, a giudicare dall’inenarrabile ignoranza che impera). Senza nulla sapere del come può alimentarsi il gusto della fatica stessa, che si appaga comunque di una meta agognata e del desiderio, vorrebbero tutti proni a torturarsi in cambio del niente. Eccoli, i predicatori della pesantezza, insofferenti verso qualsiasi indulgenza, poiché “ogni cosa si conquista solo con il sudore”. Vero. Ma quel sudore deve pur avere una meta cui indirizzarsi. Asini sì ma con la carota. Se prima non si è persuaso che è affascinante sapere, che leggere, scrivere e immergersi nell’aspra e pungente atmosfera dell’analisi matematica o della fisica del sublime, accende corpo e mente, come ottengo una fatica che non sia sommaria, finta e di breve respiro? Posso certo agire sul ricatto, sull’eterno flagello della punizione temuta ma quale guadagno otterrò se non quello di vedermi ritorta un’ insipida minestra di lacerti raccogliticci e male impastati? Questo è il frutto dell’imparare per forza, con la fatica agra e senza ricompensa di non capire il che si sta facendo. <br />Occorre invece deporre la vocazione martirizzante e coltivare la faticosa sì ma remunerante ricerca del sapere ricco, colorato e denso, proposto ancora vivo e palpitante e non inumato nei feretri scolastici -manuali, antologie e eserciziari-, ancora odoroso del suo rinascere, stillante la rugiada della scoperta, dell’evento, della sorpresa. Far incontrare il fatto, non il suo residuo secco, l’autore e la sua presenza, magari per immagini in movimento, per testimonianza e racconti, per pedinamenti e sopralluoghi. Che sia un compimento algebrico, teoretico, letterario o scientifico, estrarne il distillato saporito, come vicenda, intreccio, rappresentazione. Invitare ad appropriarsi, in un’ermeneutica del corpo, drammatizzante e recitante, in un’ermeneutica dell’immagine, meditativa e restitutiva, in un’ermeneutica della scrittura, come proliferazione del senso, in superficie e profondità, filatura e ritramatura, individuale, in gruppo, in ricerca. Disseminazione di seminari dove si fa ricerca cercandosi, diceva Roland Barthes, luoghi in cui l’oggetto e i soggetti si tramano in un’interrogazione reciproca, inseguendosi e insidiandosi, infondendo agli scabri sussidiari il carisma della narrazione mitica, in un osmosi tra fuori e dentro, rendendo i muri permeabili, invitando la vita ad entrare, per essere manipolata, vezzeggiata, massaggiata e, contemporaneamente, spingendo la banda arrapata di cercatori nel fuori, con protocolli minimi, solo i sensi accesi, per oggetti che non siano liofilizzati ma ancora viventi, parlanti, danzanti, in divenire. Solo con lo spirito della “cerca”, di una cerca animata dal desiderio, è possibile poi alimentare la fiamma genealogica, il voler disserrare le celle dei perché profondi, inusitati, sprofondati nel tempo. <br />All’inizio muovere le vibrisse della scoperta verso i legami analogici, le somiglianze, le screziature che intrecciano gli oggetti del sapere con le pratiche del quotidiano e con gli spazi della produzione di sapere, siano essi atelier, laboratori, officine o sale chirurgiche. Poi torcere il filo verso le testimonianza sepolte, da rianimare attraverso il figurale, l’immaginativo, il balenare del particolare che radica in un tessuto anch’esso vivente, come san fare il romanzo, il gesto poetico, la narrazione appassionata. Soffiar via l’aria morta delle parole grevi e frigide con l’incandescenza delle immagini succose e simboliche, pregne e accalorate, con la carica tutta sangue e pulsione della musica, che racconta il divenire divenendo, mutando, subdolamente alludendo e sbandando, con l’incarnazione sulfurea della recitazione, del trasmutar parole e paesaggi e idee in attriti, in contatti e in contagio di forze, in intrecci di versi, di gesti, di sudori e salive. <br />Contro i profeti della ascesi come ristrettezza e rinuncia, che vorrebbero l’economia del niente e contro i saccenti che invece vogliono ridurre la cultura alle cacologie alambiccate che loro coltivano per ostruire ogni accesso a quel piacere che li turba e li destabilizza, c’è bisogno sovrano di abbondanza e di profusione, di generosità e di espansione, di maestri accesi, di insegnanti pieni di sale e di fuoco, di guide prodighe di avventura perché sono ancora anch’esse nell’avventura della “gnosi”, -la conoscenza partecipativa che non scinde i sensi e non separa la luce dal mistero-, e dei suoi molteplici percorsi aerei e sotterranei.<br />La fatica si fa per passione, non ci si appassiona alla fatica, e chi lo fa forse deve espiare qualcosa. Ma sulle colpe non si costruisce il gusto di sapere.Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-22665144938940334562011-05-21T12:06:00.004+02:002011-07-04T19:03:49.687+02:00Giovani (corpi) violenti<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgwJVy9BykKEJScVYNha2t0v4CXj-T50_Pb-a4UOToeRmY9Paz-ESDFBkOw5cUc6vAq2TDt4uNB8no3nF0xqvigpNCVmXyIOCN1oiPzGeQCxoCGAGPUR0_-yDvu-YvpUquMmNyChUt1CsQ/s1600/inv.6+P.B.R.+Francesco+De+Grandi1430.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 315px; height: 320px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgwJVy9BykKEJScVYNha2t0v4CXj-T50_Pb-a4UOToeRmY9Paz-ESDFBkOw5cUc6vAq2TDt4uNB8no3nF0xqvigpNCVmXyIOCN1oiPzGeQCxoCGAGPUR0_-yDvu-YvpUquMmNyChUt1CsQ/s320/inv.6+P.B.R.+Francesco+De+Grandi1430.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5609109112435834978" /></a><br />Nei ripetuti episodi di cronaca che vedono giovani esprimersi con la violenza, talora gratuita e, come dicono i media, efferata, indubbiamente si coglie un’emergenza sociale ma, forse, affiora anche un sintomo, qualcosa cui occorrerebbe prestare un’attenzione non solo moralistica e securitaria ma anche un ascolto più audace e riflessivo. <br />La condizione giovanile non è mai stata così massicciamente impedita nel manifestare la propria pulsione aggressiva come oggi. La cultura dominante è radicalmente contraria all’esercizio della forza, il che probabilmente è un bene ma lascia inelaborata la richiesta irriducibile di un modo di dare forma all’energia, anche violenta, presente nei giovani. Energia, desiderio di rottura e trasgressione che sono un effetto in parte relativamente normale del processo di espansione del periodo ma che sono sovralimentati dalla pressione cui il giovane è costantemente sottoposto da una società che lo ossessiona con il suo attivismo e produttivismo sfrenato, con la misurazione continua del risultato e della prestazione e, soprattutto, con lo sterminio di qualsiasi vuoto aperto al libero esercizio dell’avventura, dell’espressione e della sperimentazione di sé con gli altri non vigilata e controllata.<br />I ragazzi non hanno più zone franche, sono intrappolati nel tessuto urbano che ne scruta e processa continuamente il comportamento. Sono letteralmente carcerati in un contesto che è pervasivamente normativo, senza interstizi, sottoposto a costante disciplinamento, in casa, a scuola, nelle varie esperienze di un fuori fittizio –palestre, laboratori, corsi di musica-, sempre regolate da una figura o più figure adulte di riferimento. Non hanno via di scampo, se non ancora una volta in spazi implosivi e claustrofobici come le discoteche o i pub (anch’essi al chiuso), con l’aiuto di sostanze psicotrope, dove certo esperiscono momenti di sfogo e di rottura ma spesso in forme frammentate e frustranti, con il rischio di feroci cortocircuiti psicofisici piuttosto che attraverso un’autentica esperienza di apertura e di emancipazione.<br />I giovani e le giovani hanno bisogno di scatenarsi, di espandersi, di perdersi e di ritrovarsi, per conto proprio, così come hanno bisogno di sperimentare maggiormente i loro corpi, non solo nello sport strettamente regolato, ma nella natura, nella strada e poi anche molto spesso nel combattimento, nella lotta, nella sperimentazione del contatto corpo a corpo. Corpo a corpo con gli altri ma anche con la materia, con la natura, con le forze che agiscono nella realtà. Inoltre i ragazzi hanno bisogno di arricchire lo scenario dei propri desideri, con attività ricche d’anima e non spente e irrilevanti sotto il profilo emotivo come quelle che gli vengono proposte specialmente nella scuola. Per i ragazzi l’immaginazione, la musica, la danza, il teatro, il gioco fisico e l’avventura devono essere le forme di traduzione della loro libido in espressione, in gesto, in simbolo. In assenza di luoghi e tempi diffusi dove liberamente fare esperienza di tutto ciò, si dà quell’anomia che poi si trasforma in violenza distruttiva o, peggio, in violenza contro sé stessi, in depressione e panico, in apatìa o in terrore di tutto. <br />Occorre allora ripensare lo spazio, il tessuto fisico dell’esperienza giovanile, sgomberarlo, liberarlo, disseminarlo di opportunità di nuovo cimento, di nuova sperimentazione. Svuotare del troppo pieno, aprire piste, radure, labirinti. Fare della città foresta e della foresta città. Perché vi sia campo aperto e nascondiglio, corsa libera e intimità. Il corpo deve essere posto al centro dell’educazione, come principio di affermazione, di movimento, di trasformazione. E’ lui il soggetto, non la testa pesante che sembra dirigerlo. Riportare il corpo al centro, come groviglio di pulsioni, carica magnetica che riconnette al mondo, significa accoglierne le infinite possibilità di manifestazione, dall’esplosione all’autocontrollo raffinato, rafforzandone le possibilità di conoscenza, di espressione, di congiunzione. Il corpo in tutta la sua fenomenologia di possibilità, corpo che crea, corpo che desidera, corpo che aggredisce e che lotta, corpo che riposa e corpo che fa corpo con la carne del mondo. Corpo come perno di una sovversione del processo di educazione, corpo integro, resuscitato, felice.Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-49274415296380495832011-05-14T18:46:00.004+02:002011-07-04T19:06:48.724+02:00La "tigre cinese" e il ritorno del nazismo educativo<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgIKpHC4fQmHSAMB56MSspRNcpcnDkmyms8AS1wHpNfb3YoOgWIl6UHuafEV0r0c7-1Ox9t3eqhjE9rdXjOLaQRW7gy8wXbIIbxaXox_9IfXKtYZDg9xUHidZY1dTau1HTxGD9XWUgM6a8/s1600/zhang_xiaogang_family.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 250px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgIKpHC4fQmHSAMB56MSspRNcpcnDkmyms8AS1wHpNfb3YoOgWIl6UHuafEV0r0c7-1Ox9t3eqhjE9rdXjOLaQRW7gy8wXbIIbxaXox_9IfXKtYZDg9xUHidZY1dTau1HTxGD9XWUgM6a8/s320/zhang_xiaogang_family.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5606614711012035202" /></a><br />Il metodo “tigre cinese”, che in realtà, più che essere il rimedio orientale al permissivismo occidentale, appare la riedizione appena un poco attualizzata di un antico autoritarismo famigliare ben noto anche nel nostro emisfero, porta a fare alcune riflessioni piuttosto allarmanti.<br />Da un lato l’aberrante idea, che soggiace al galateo educativo famigliare della cinese di ferro, che i figli siano in debito verso i genitori. Ma di cosa, vien da chiedersi. Come se l’avessero chiesto loro di venire al mondo…<br />In secondo luogo, l’elemento più odioso che soggiace a questo abominevole episodio è l’idea che i figli siano proprietà privata dei loro genitori, che non solo vogliono, ma si ritengono perfettamente in diritto di disporre del loro destino come gli aggrada. La storia di questa Amy Chua, la cui loquela arcigna e pedante è stata già ben documentata dalle sue apparizioni televisive, naturalmente non meriterebbe alcuna seria disamina se non fosse proprio per la smodata e un po’ morbosa attenzione che le è stata tributata qui da noi. E cioè da un mondo culturale che davvero dimostra in tal modo non solo di non sapere che pesci pigliare di fronte ad una generazione di giovani che giustamente non è più né ossequiosa né ubbidiente e che rivendica la propria autonomia profonda ma che, peggio, rincula drammaticamente verso gli orrori del passato. <br />Amy Chua fa inorridire non solo perché riporta in auge modelli d’educazione che speravamo morti e sepolti, con i loro cadaveri nell’armadio, almeno nelle province avvertite del mondo, ma anche perché conferma, nell’epoca in cui la famiglia cade (finalmente) a pezzi, che quest’ultima continua a essere considerata, dalla cosiddetta doxa, l’ultima trincea di fronte alla barbarie, proprio nel mentre ne è spesso a mai come in questo caso la più terribile generatrice. La storia della “tigre” fa tornare in mente il bel film australiano che uscì una quindicina di anni or sono, Shine, sulla storia, vera, di David Helfgott, pianista al quale le torture paterne che ne volevano fare appunto un musicista di successo, generarono invece l’esplosione di una psicosi solo a grande fatica in parte recuperata. <br />La morale è la seguente, per chi ha ancora qualche nostalgìa di morale: i figli non sono nostra proprietà, sono altro da noi, e per poterne assecondare il destino, occorre molta attenzione, uno sguardo partecipe, che riconosca in loro quel tratto che ne evoca la destinazione, spesso molto lontana dalle nostre aspettative, la “eachness”, come la chiama James Hillman. Quella “ciascunità” che, invece che con un progetto concentrazionario, come nel caso di questo ibrido naziharvardiano di Amy Chua, intenda manifestarsi con una sagace intelligenza immaginativa, quella che sa innamorarsi della fantasia dell’altro e predisporne le possibili vie di realizzazione.Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-67891565447545932072011-05-04T23:46:00.004+02:002011-07-04T19:08:19.501+02:00Elogio del bambino barbarico<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgJg3t_5o4oLmbLIiZzNDC0HBkFws22sxW0zGLjSGeJMUtPkPfPUHwYCHOVa_YOSoNUD2AypW6pSfuO6K8YhWB45b8K7HfvsZaEZsVcQi4m-_1GT8mZH3DJ6GDf541EVek5MNF5fgvF794/s1600/mann.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 253px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgJg3t_5o4oLmbLIiZzNDC0HBkFws22sxW0zGLjSGeJMUtPkPfPUHwYCHOVa_YOSoNUD2AypW6pSfuO6K8YhWB45b8K7HfvsZaEZsVcQi4m-_1GT8mZH3DJ6GDf541EVek5MNF5fgvF794/s320/mann.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5602983026502601314" /></a><br />L’infanzia è stata scippata. Sequestrata. Reclusa in luoghi senz’aria e senza sbocco. Intrappolata nella famiglia prima e nella scuola dopo, canalizzate tra loro da corridoi di palestre, sale giochi e macdonalds, l’infanzia vive nel soffocamento e nell’isolamento. Rapita dalle strade, dai cortili e dai giardini, non sventola più come una bandiera iridata sui mezzi mercuriali del suo fluire vertiginoso, in bicicletta, sui pattini o semplicemente in corsa, ora è bloccata sulle seggiole sghembe delle celle casalinghe, delle aule scolastiche, decrepite e avvilenti, dei linoleum e delle moquette infeltrite e avvelenate.<br />Come restituire l’infanzia al mondo “senza negazione” e l’aperto all’infanzia? Quell’aperto dove il poeta la vedeva affacciata, dischiusa sull’infinito come solo l’animale sa essere, ed ora come l’animale stesso ingabbiata, domata, corrotta? Il bambino, come diceva Bachelard, viene reso “oggettivo”. “Lo si prepara alla vita nell’ideale degli uomini inseriti”, entra così nella zona dei conflitti familiari, sociali, psicologici. Diventa un uomo prematuro, un "uomo prematuro in stato d’infanzia repressa”. Strappato al “lucore” dei “limbi” e alla fantasticheria umbratile delle sue solitudini, è immesso nel circuito degli strappi e delle compressioni che debbono estirparne l’incommensurabilità, l’anima di fauno e l’aspetto camaleontico.<br />Non c’è rapimento, fuga o “pederastro”, per dirla con Schérer e Hocquenghem, che possano sottrarlo all’infausto destino della sorveglianza e dell’addomesticamento. Sottoposta a vigilanza continua, scrutata dalla lente della totalizzazione psicologica e frugata nei suoi recessi di inafferrabilità, l’infanzia perisce e con essa un mondo ancora affermativo e vitale di cui era l’emblema rutilante. Niente più infanzia sporca, sanguinante, fangosa, solo soldatini piombati, curvi sotto le cartelle e sotto lo sguardo solerte dell’adulto legislatore e sanzionatore di turno.<br />Basta con l’infanzia privatizzata, ghettizzata, sorvegliata. Facciamo una città che risuoni di gazzarra e di moti accelerati e imprevedibili. Città mercuriale, elfica, dionisiaca. Fuori dal mortorio delle lezioni e degli schermi obbligati, il cemento come pista infinita, la terra come letto di zuffe, gli alberi come trampolini di cielo, le grandi altalene di Wenders, il circo e le focacce croccanti. Rovesciare il mondo che non è più di nessuno, neppure di adulti dall’agenda gravida e dall’affaccendamento senza orizzonte, mondo spadroneggiato solo dell’astrazione scambio. Restituirgli carne, zuffe e pelle polverosa. Lì l’ esperimentum mundi, la prova e la sfida. Lì la catena che si schioda dalle barriere e dai pali del tempo saturnino. Adulti e bambini al sacco della città, come li voleva Fourier, piccole bande di gustatori, ma anche di pulitori, di fattorini, di apprendisti del bar. Scambiare le ore di parola con le ore di esperienza, che poi diventa anche parola e immagine e gesto, nell’arena a cerchio e a spirale che potrebbe diventare la scuola. Fine dell’ “educastrazione”, inaugurazione di un’eupedìa innervata nelle “arterie della città”, fermento di una rinnovata connessione tra le “immensità primitive”, il “pane ben imburrato” dell’esperienza e il reticolo affascinante e labirintico di un territorio di nuovo palpabile e percorribile, acceso di legno combusto e di frizzante letame odoroso. <br />Bambini barbarici e scatenati contro il bambino “culcùlo” dell’ortometrìa pedagogica calcolata e disciplinata.Unknownnoreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-41593287728087192362011-03-11T11:20:00.003+01:002011-03-12T11:19:40.690+01:00L'opera di "distillazione" di Peter Brook<div align="justify"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiLCxKp0qLLO7FDFQiQcjrWsbesehiclf2Hba-BXzLnCclOIejnWvs0lGKYskHA1VvBWBW4eQ73dlXgJNXMmY0aAxMTlC43bALv5eBfwKWH5K0cKtoT7n_kbZ5GjzlVXwfaYGqUqENwwFQ/s1600/Teatro+Brook.jpg"><img style="TEXT-ALIGN: center; MARGIN: 0px auto 10px; WIDTH: 200px; DISPLAY: block; HEIGHT: 161px; CURSOR: hand" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5582765745664602834" border="0" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiLCxKp0qLLO7FDFQiQcjrWsbesehiclf2Hba-BXzLnCclOIejnWvs0lGKYskHA1VvBWBW4eQ73dlXgJNXMmY0aAxMTlC43bALv5eBfwKWH5K0cKtoT7n_kbZ5GjzlVXwfaYGqUqENwwFQ/s200/Teatro+Brook.jpg" /></a> Poche e lievi note spinte nell'aria da un pianoforte si distendono, avvolgono e abbracciano gli spettatori nello spazio vuoto del teatro, alcune canne di bambù, che dalla terra si innalzano verso l'alto invocando la presenza di un cielo necessario, riempiono un palcoscenico spoglio, un uomo lo attraversa: ha inizio la rappresentazione.</div><div align="justify">Così è incominciato <em>Un flauto magico</em>, l'ultimo spettacolo di Peter Brook, così il regista britannico ha dato un senso alla sua necessità di fare teatro: un'opera di "distillazione" che toglie, elimina, purifica per arrivare a restituirci un'opera essenziale, simbolica, un microcosmo che si ricostituisce ogni volta all'interno di uno spazio vuoto, a cui il teatro trasmette "il gusto fuggevole e bruciante di un altro mondo in cui quello della quotidianità si integra e si trasforma". E Brook sembra farsi custode di questo spazio elettivo, ispiratore e tutore di un'operatività alchemica che cuoce nell'alambicco del teatro la materia prima dello spazio, degli attori e degli spettatori per creare, attraverso una progressiva eliminazione, il vuoto.</div><div align="justify">Il vuoto dello spazio è una radura, un cerchio magico che consente un rapporto diretto tra gli attori e il mondo, un luogo propizio illuminato e circondato dall'oscurità che favorisce la concentrazione dell'attore e dello spettatore, è un tappeto che Brook utilizza per tutte le improvvisazioni fuori dal teatro, in mezzo alla natura, che condensa e delimita lo spazio di rappresentazione designando quella rottura ontologica indispensabile perchè il teatro si manifesti. E' il teatro parigino de Les Bouffes du Nord: un <em>edificio</em> e un <em>rifugio</em>, vitale e funzionale, situato ai margini della città che attrae Brook per la sua bellezza di rughe, per la bellezza delle rovine: "bruciacchiato, macchiato dalla pioggia, tappezzato di buchi e tuttavia nobile, umano, rosso, incandescente". Un luogo impuro, doppio, sorprendente e ambiguo che diviene simbolo di un luogo ritrovato e rianimato. Uno spazio che Brook prepara ogni volta coltivando quell'intimità tra sala e scena che vieta l'ampiezza degli effetti e facilita il riavvicinamento dei corpi, che permette di percepire ogni minima sfumatura di rumore, la pesantezza e la leggerezza dei passi nudi degli attori. La distanza intima fa percepire la luce degli occhi, il pallore di un volto, il placarsi e il soffrire, vediamo gli attori e gli attori ci vedono.</div><div align="justify">Il vuoto dell'attore è il processo di spossessamento dell'io verso quella qualità di presenza "speciale" che spazza via l'individualità umana e ricolloca il corpo in una dimensione pre-espressiva, transculturale. Attraverso un momento iniziale di dissoluzione, di eliminazione di tutto ciò che non è necessario, dei condizionamenti delle abitudini, l'affollarsi delle emozioni e le resistenze della ragione, il corpo dell'attore si fa intermediario: un organismo vivo da cui scaturisce l'energia vitale che si configura in molteplici immagini sottili che prendono forma e si irradiano nello spazio mediatore della scena, della spazialità teatrale. Come il corpo di Yoshi Oida, attore giapponese del gruppo internazionale di Brook, che durante un esercizio di improvvisazione si fa aria, acqua, terra e fuoco concentrando la sua energia nel momento di sospensione in cui l'intenzione dell'attore è decisa e sta per fare, nella <em>miniaturizzazione</em> del movimento, nell'immobilità in moto del corpo e del pensiero. L'attore giapponese riesce ad evocare, al di là della forma esteriore, una realtà più vasta, a riconnettersi all'universo rimanendo, come lui stesso racconta, tranquillamente fermo, "solo in mezzo all'agitarsi di corpi che si contorcevano in tutte le direzioni, strisciavano per terra, emettevano suoni da alta voce".</div><div align="justify">E nel vuoto del teatro, da cui proviene e in cui si raccoglie l'evento che sta per germogliare, lo spettatore è condotto e coinvolto dal desiderio dell'attore nel momento presente della rappresentazione, nell'immediatezza di un teatro che riallaccia legami perduti, in un atto di comunione che lo fa partecipare a un'esperienza collettiva, diffusa e avvolgente, a una percettività corporea, a una visione e a una comprensione trasformata e rinnovata.<br />Se il teatro, come afferma Brook, esiste solo quando accade, scrivendo di teatro ci si dedica forse a un atto assurdo, contro natura, se non addirittura impossibile. Ma proprio perchè impossibile, così come tradurre, si prova ogni volta a raccogliere la sfida con l'aiuto delle parole. Parole che, come suggerisce Eugenio Barba, non vogliono fissare e rinchiudere l'esperienza in teorie e concetti, ma volando come farfalle dalle ali leggere, tra luci e ombre, ci vengono incontro per evocare l'esperienza, per divenire <em>presenza</em>, per testimoniare un bagliore, un soffio, la vita di una scena di teatro.</div>Elisa Rossonihttp://www.blogger.com/profile/01545577164917672568noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-90295673938279877172011-02-27T12:51:00.004+01:002011-07-04T19:09:54.406+02:00api dell'invisibile<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiLzo7g1ePPOO1fF8UCkG-3AV19RvyC5xaTL77Y7p3Iaur1koqLftMlth-Jd-50PjmSMCaOk-98-5QiY8zKcyQY_p6kzBaPyTIzQmy4QpSYEhvSujZlOQpinSLlBufq1Bdcv8jBCzgCblY/s1600/burri_-_nero_cretto_1974.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 284px; height: 320px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiLzo7g1ePPOO1fF8UCkG-3AV19RvyC5xaTL77Y7p3Iaur1koqLftMlth-Jd-50PjmSMCaOk-98-5QiY8zKcyQY_p6kzBaPyTIzQmy4QpSYEhvSujZlOQpinSLlBufq1Bdcv8jBCzgCblY/s320/burri_-_nero_cretto_1974.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5578336552053120098" /></a><br />L’insistenza rilkiana sulla trasformazione del visibile nell’invisibile, di cui sono emblema gli Angeli ma di cui sono attori i poeti, mi ha sempre incantato e turbato al tempo stesso. Che cosa indica questo, quale compito addita all’arte, forse da sempre implicito in essa, oltre l’apparente virtù di darci rappresentazione del mondo?<br />Sempre più mi si rivela che quel “bottinare il visibile” per raccoglierlo nell’ “arnia d’oro dell’invisibile” è ciò che individua la specifica forma di evento che è l’arte, quando non si tradisce, si estenua o si svende. Fare il visibile sempre più invisibile, questo gesto elegiaco, questo ricoverare in un’intimità segreta il violento configgere le cose ad una loro supposta oggettività, è forse più ed altro da un semplice gesto di tenerezza e di compassione cosmica. O meglio è certo uno spossessamento, un deragliamento dall’abitudine di dominare e im-porre per dissolvere la presenza in un altrove ma, ancor più, forse è un metter radicalmente in discussione lo statuto e la forma creduta delle cose. Se il visibile è il modo in cui non certo per propria virtù, ma per il nostro disporle alla nostra portata, le cose si danno, allora forse quell’accompagnamento all’invisibile è il movimento che le restituisce al loro costitutivo nascondimento. Al loro essere senza forma, prima e dopo la forma. Ben altro che un’opera di revisione e riproposizione di forma, l’atto artistico si rivelerebbe per quello che dovrebbe essere, e tanto di frequente, nell’accecante bagliore del suo “bruciare”, è: una sottrazione di forma che rivela l’imprendibilità del reale. Ogni atto dell’immaginazione creatrice sarebbe, dunque, un riaccasare la cosa presso quel “piano di consistenza” che ritorna le cose alla loro immanenza preformale. Qualcosa che assomiglia, tanto per restare nel solco del linguaggio di Gilles Deleuze, a quel venir meno dell’imperialisimo del volto, per lasciar trasparire l’indisciplina della “viseità”, che a volte, come in un lampo, o in un “tic”, appare d’improvviso per reinabissarsi sotto il controllo dell’espressione. Il che, si badi bene, non significa un semplice annegamento, un precipitarsi nell’indistinzione, quanto semmai una proliferazione di espressioni ancora senza nome. E non è del resto questo ciò cui assistiamo nella dissipazione della Sainte Victoire di Cezanne, nello smottamento dei volti di Rembrandt, Bonnard e Music nei loro ultimi autoritratti, o nella deflagrazione dei monocromi di Rothko, alla fine del suo viaggio? La durée di un’opera, che attinga lentamente il suo destino di prosciugamento dell’inquadramento consuetudinario di uno sguardo captatore e soggiogatore come quello del soggetto umano, non sta forse proprio in questo restituire l’oggetto, bottiglia di Morandi o cretto di Burri, al suo rango di molteplice in perenne metamorfosi? E non è proprio in virtù di ciò che possiamo attingere, in folgoranti momenti, nel terremoto delle nostre coordinate, quelle attraverso cui ci assicuriamo una stabilità ma anche quelle attraverso cui neutralizziamo il dinamismo inoggettivabile del divenire, la fisionomia cangiante e stupefacente nelle cui trame ci “aboliamo” finalmente? L’opera d’arte ci soccorre incutendoci abissali timori, ci soccorre perché evita che soccombiamo alle nostre stesse finzioni, alla nostra illusione che le cose stiano lì dove noi crediamo che sono, presenti e manifeste in una loro forma disponibile. Genera in noi però il tremore di chi si sa infine incerto e molteplice, gettato nel flusso degli invisibili, impedito così di recare danno a quel tessuto metamorfico del quale è sempre partecipe pur nell’andirivieni dei suoi tentativi maldestri di padroneggiarlo.<br />L’opera d’arte, questo salvifico travaglio dell’invisibile, attenua l’ingenua credenza di essere al centro, ci rifa periferici e minori, lenti e dubbiosi, ma anche incantati nella costellazione degli “eventi”.Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-89224497801393749662011-02-16T14:33:00.000+01:002011-02-16T14:33:09.055+01:00Per una pedagogia immaginale d'infanzia<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiMxuuQPopNS9M-9taWB8a4ybw8E5_quAwiGDEXGhFFxa5mNVrxDexvGgICLIDuf6ypBOxTzNA2L_bfbWKJCF02SvUEcgTWNtAz8Enf_cfo9cj17wzHl8SrJ5_hPnrob-bb6VYFuXSqfvd7/s1600/anna_si_nascone_.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiMxuuQPopNS9M-9taWB8a4ybw8E5_quAwiGDEXGhFFxa5mNVrxDexvGgICLIDuf6ypBOxTzNA2L_bfbWKJCF02SvUEcgTWNtAz8Enf_cfo9cj17wzHl8SrJ5_hPnrob-bb6VYFuXSqfvd7/s1600/anna_si_nascone_.jpg" /></a></div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;">L’infanzia, a cui fa riferimento la pedagogia immaginale non è intesa in senso letterale, ma nella sua dimensione archetipica di stagione immaginativa per eccellenza. Diventa una condizione conoscitiva più che una posizione anagrafica, una modalità che non classifica, non categorizza e non scinde la realtà, ma al contrario, grazie a uno sguardo appassionato e attento, ne tenta una ricomposizione. Infanzia, dunque, come possibilità di uno sguardo che può connettere e collegare ciò che il nostro atteggiamento separatore, razionale, classificatorio ha diviso e separato per imporsi ed ergersi sul mondo, dimenticando di esserne parte, distaccandosi da esso. Con uno sguardo che tenta</span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;"> di sensibilizzare e far brillare l’ingenuità, l’invisibilità, la corporeità, l’incertezza, la solitudine, il procedere incespicante e curioso del Paìs. Lo sguardo d'infanzia si pone al tempo stesso come pre-condizione e punto di approdo di un percorso immaginale, via d’accesso alle immagini e riscoperta di “quel nucleo infantile atemporale” che permane, come suggerisce Bachelard, in ogni animo umano e che si rivela nelle immagini dei poeti. </span></span> </div><div align="JUSTIFY" style="background: none repeat scroll 0% 0% rgb(255, 255, 255); margin-bottom: 0cm;"><a href="http://www.blogger.com/post-edit.g?blogID=731002418504657442&postID=8922449780139374966" name="_ftnref3"></a> <span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;">Le proposte educative, rivolte all’infanzia dal panorama pedagogico attuale, incarnano e declinano, nella maggior parte dei casi, alcuni miti formativi di cui è impregnato il nostro mondo adulto; miti come la crescita, il miglioramento, il cambiamento che rivelano il loro statuto di perno ideologico su cui si fonda la nostra società, ove chi voglia ottenere il successo debba porsi come obiettivo il crescente sviluppo delle proprie potenzialità, il veloce superamento delle contraddizioni e dei dubbi, il pronto oscuramento dei propri limiti e difficoltà. La ricetta dell’</span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;"><i>Up or Out</i></span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;"> si accompagna alla sfrenata ricerca della novità che, anche in campo educativo, tenta di esorcizzare il fantasma della noia, non tollera la perdita di tempo, né la pratica della ripetizione, fugge il già visto ma anche l’invisibile, a favore di orizzonti ben più luminosi e programmabili.</span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"> </span> </div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><a href="http://www.blogger.com/post-edit.g?blogID=731002418504657442&postID=8922449780139374966" name="_ftn1"></a><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;">Al centro dei discorsi e delle pratiche sul bambino, dunque, c’è sempre un’immagine di soggetto attivo, protagonista, creativo e inventivo, se possibile produttore, anche se di prodotti svalutati col termine di «lavoretti». Il bambino, a fronte di una p</span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;"><span style="background: none repeat scroll 0% 0% rgb(255, 255, 255);">resunta attenzione e valorizzazione della sua specificità infante, viene in realtà impegnato in una moltitudine di attività da uno sguardo adultificante che lo vorrebbe sempre più competente, creatore, fantasioso. Un bambino che viene continuamente e ossessivamente stimolato e poi misurato, valorizzato, compiaciuto o consolato. Ma nella continua ossessione attivistica il bambino soffre, gli viene sottratto il tempo del riposo, della solitudine, della noia, delle sue «rêveries» di bambino solitario.</span></span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"> </span> </div><div align="JUSTIFY" style="background: none repeat scroll 0% 0% rgb(255, 255, 255); margin-bottom: 0cm;"><a href="http://www.blogger.com/post-edit.g?blogID=731002418504657442&postID=8922449780139374966" name="_ftn3"></a><a href="http://www.blogger.com/post-edit.g?blogID=731002418504657442&postID=8922449780139374966" name="_ftn2"></a> <span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;">La pedagogia immaginale ci richiama ad uno sguardo nuovo, meno netto ed eroico; ci invita alla riscoperta di un’impronta notturna, </span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;"><i>bachelardiana</i></span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;">, nel rapportarsi con se stessi, gli altri, il mondo ovvero ad essere </span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;"><i>segnati</i></span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;"> più dalla contemplazione che dall’azione.</span></span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"> Q</span><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;">uesto «sguardo ritrovato» può abitare anche il bambino, a patto che sappia soggiornare nel mondo in modo più umile, assorto e contemplativo. Lo sguardo infante, infatti, a dispetto del nome, non è spontaneo o naturale nel bambino, l’infanzia dello sguardo è semmai una promessa, un traguardo, dal momento che richiede concentrazione, passione, cura. Crediamo sia necessario riequilibrare la parcellizzazione del conoscere, la preoccupazione per gli apprendimenti formali e il sapere disciplinare, il vincolo dei programmi che si impone a partire dai primi anni della scuola primaria e si insinua anche nella scuola dell’infanzia. Una pedagogia immaginale d'infanzia invita a fare esperienza con un approccio orientato alla dimensione simbolica e immaginativa, attraverso una postura conoscitiva che non abbia la pretesa di svelare un unico e definitivo significato nelll'esperienza, che non si ponga in prensione rapace dell'esistente, ma che al contraio, si rivolga, come spaesata, in una ricerca continua di possibili risposte e significazioni, che sia rivolta all'Aperto. Il tempo dell'educare si riscopre così come momento sottratto alle logiche produttive, come momento di compensazione per equilibrare la frenesia insistente della performance, come momento rituale e profondamente spaesante per imparare a decentrarsi e a conoscere con passione, senza l'ansia di aggiungere, infilare o inculcare particolari apprendimenti. </span></span> </div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;">Una pedagogia immaginale d'infanzia propone un'amicizia intima tra bambino e opera d'arte sotto il segno della contemplazione, valorizzando con i bambini proprio l’accostamento e il momento dello sguardo che si posa sull’opera come momento magico, in cui avvenga un incontro particolarissimo, carico di mistero e di stupore con il mondo del totalmente altro, dell'inconsueto. Le immagini diventano per il bambino uno scrigno antico e misterioso, colmo di significati simbolici da esplorare e in cui perdersi e per avvicinarsene dovrà compiere un percorso di avvicinamento progressivo, dovrà sostare con esse, provare a nominarle interpretarle condividendo con gli altri questa nuova e atavica passione. </span></span><br />
<span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;">Elisa, Francesca, Sara </span></span></div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="font-family: Times New Roman,serif;"><span style="font-size: small;"> </span></span> </div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-8981987044068066532011-01-07T21:22:00.007+01:002011-01-07T22:04:48.315+01:00Elogio dell'ozio<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPmDd6uwzdQD7gCbSHD6N6ddyBgvy7zEAYwTA0nQRX53WpWUOCWKBEt7UeEZhonjvdFslgcbvngp7WaV22SIZ5PmXImANGxq_Qv1o-LhrBcR6yz9FP3QNv8uoqUUbeAgCue366Lm2LhvOs/s1600/3364643727_a2d416406e.jpg"><img style="float: left; margin: 0pt 10px 10px 0pt; cursor: pointer; width: 320px; height: 306px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPmDd6uwzdQD7gCbSHD6N6ddyBgvy7zEAYwTA0nQRX53WpWUOCWKBEt7UeEZhonjvdFslgcbvngp7WaV22SIZ5PmXImANGxq_Qv1o-LhrBcR6yz9FP3QNv8uoqUUbeAgCue366Lm2LhvOs/s320/3364643727_a2d416406e.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5559551571927976818" border="0" /></a><!--[if !mso]> <style> v\:* {behavior:url(#default#VML);} o\:* {behavior:url(#default#VML);} w\:* {behavior:url(#default#VML);} .shape {behavior:url(#default#VML);} </style> <![endif]--><!--[if gte mso 9]><xml> <w:worddocument> <w:view>Normal</w:View> <w:zoom>0</w:Zoom> <w:trackmoves>false</w:TrackMoves> <w:trackformatting/> <w:hyphenationzone>14</w:HyphenationZone> <w:punctuationkerning/> <w:validateagainstschemas/> <w:saveifxmlinvalid>false</w:SaveIfXMLInvalid> <w:ignoremixedcontent>false</w:IgnoreMixedContent> <w:alwaysshowplaceholdertext>false</w:AlwaysShowPlaceholderText> <w:donotpromoteqf/> <w:lidthemeother>IT</w:LidThemeOther> <w:lidthemeasian>X-NONE</w:LidThemeAsian> 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left;">Lo scorrere dei giorni, soprattutto di quelli vacanzieri, può essere con stupore accompagnato da momenti rari e preziosi, abitati solo dall’ozio.</p><div style="text-align: left;"> </div><p style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt; line-height: 150%; text-align: left;">L’ozio è una figura che, come una crepa, segna e si insinua nello scorrere inesorabile del tempo che passa e che essa pare sospendere e lasciare appeso, in attesa, insieme al flusso inarrestabile del nostro fare.</p><div style="text-align: left;"> </div><p style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt; line-height: 150%; text-align: left;">Anche quando non siamo sollecitati dal lavoro, fuggiamo l’ozio, esorcizziamo in mille modi il fantasma della perdita e dello spreco del tempo e con esso i sensi di colpa che si accompagnerebbero alla nostra incapacità di efficienza, di resa produttiva, di fare operoso. Insieme all’ozio fuggiamo la noia, il già visto, l’inutile, a favore di orizzonti sempre nuovi, effervescenti e luminosi.</p><div style="text-align: left;"> </div><p style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt; line-height: 150%; text-align: left;">L’ozio, come tutti gli aspetti più oscuri, notturni, della nostra esistenza, può ancora farsi largo, nella nostra esistenza, come una “protesta dell’anima e del cuore” (Hermann Hesse), come un invito, figlio della materia tenebrosa, a lasciarci rallentare e sedurre dalle possibilità del tempo di dilatarsi e di discendere, di approfondirsi. </p><div style="text-align: left;"> </div><p style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt; line-height: 150%; text-align: left;">Potremo allora raccogliere il suggerimento di Thomas Moore quando sollecita a rifuggire da uno sfrenato attivismo, per <i style="">prendersi cura dell’anima</i>, confidando che “molto possa essere portato a compimento grazie al non fare”.<br /></p><p style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt; line-height: 150%; text-align: left;">Oziare, dunque, rallentando il nostro Io eroico, mettendolo tra parentesi, umiliandolo anche un po'. Al suo posto, dare spazio ad altro, <i style="">fare anima</i>, per seguire l’insegnamento di James Hillman: invece di crescita e luce, “fantasia, immagine, riflessione, visione interiore, e anche rispecchiare, trattenere, cuocere, digerire, spettegolare, fare da eco, dare profondità”.<br /></p><p style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt; line-height: 150%; text-align: left;">Chardin ci consegna l’immagine di un uomo, colto nell’incanto sospeso del momento in cui fa una bolla di sapone: lo sguardo assorto di chi si stupisce e si attarda a contemplare una piccola meraviglia.</p><div style="text-align: left;"> </div><p style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt; line-height: 150%; text-align: left;">Sarà allora ancora possibile ritrovare quest’oziare nella nostra quotidianità, abitare questa terra di mezzo che ci potrebbe consentire un accesso alla parte più notturna di noi stessi, ad andare oltre l’immediato e il visibile? Sarà allora ancora possibile oziare da soli o con altri, magari anche insieme ai nostri bambini e (perché no?) ai nostri studenti? Insegnare ad oziare: a godere di un tempo sospeso, in cui apprezzare una musica ma anche un silenzio, a guardare insieme un dipinto, a fare una passeggiata, a immaginare il volo di una bolla di sapone... </p>Sara Rivahttp://www.blogger.com/profile/11633100975285833597noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-731002418504657442.post-36266603680962084912011-01-06T11:04:00.004+01:002011-07-04T19:10:44.115+02:00Jung, il rosso<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSBc1jCfUThIde4go8VN4EZrhNVHkQXlNyWBYFG8liNp3seu4Wc38FfBoXa-GGfkutBGElNq_SGOX2cy5zEWdd7ycFbxBXYk53zqaDo_dYnETkgmZjQjxccrgKvYJxsEsG4hrh34p6Nxc/s1600/redbook2.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 240px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSBc1jCfUThIde4go8VN4EZrhNVHkQXlNyWBYFG8liNp3seu4Wc38FfBoXa-GGfkutBGElNq_SGOX2cy5zEWdd7ycFbxBXYk53zqaDo_dYnETkgmZjQjxccrgKvYJxsEsG4hrh34p6Nxc/s320/redbook2.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5559012193713992018" /></a><br />Eccolo l’oggetto scomparso e resuscitato. Il “sancta sanctorum” disseppellito che custodisce il “segreto”. Massiccio, “prezioso”, come il contenitore che Jung prescriveva di adottare per iscrivervi l’annotazione diuturna delle proprie fantasie ai suoi pazienti più cari, intrattabile.<br />Un volume che ti fissa e ti inghiotte, nella sua proliferante densità e nella sua fascinosa “inattualità”. Che chiede spazio, e tempo, come ha sovente dichiarato l’unico che davvero lo conosca a fondo, per ora, il suo traduttore, curatore, commentatore e chiosatore, Sonu Shamdasani. Il tempo di accoglierlo, con l’imbarazzo, anche fisico, che somministra a chi lo incontri, per destino o per scelta, il tempo di addentrarvici, come ci si addentra in una fitta e oscura foresta, per quanto dotata di segnali e indicazioni orientative, il tempo di sostare nei trivi più intricati e nelle radure improvvise che offrono agio alla meditazione, il tempo di immedesimarsi con l’opera di un gigante, gigante ben noto e tanto più temuto, remoto e ostracizzato proprio per la ubris e per la imponenza delle sue imprese.<br />Un testo miniato, come nella tradizione medievale cui l’autore affermò di volersi ispirare, per immergersi in quel medioevo psichico e spirituale di cui avvertiva il profondo bisogno, un testo scolpito e dipinto, cifrato e istoriato, un testo dai mille volti e dalle molteplici vie di approccio e di smarrimento.<br />Una fantasmagoria mitico-religiosa al tempo stesso critica e rifondativa, unione impressionante di una nékuia patita fino allo spasimo e di una tensione ermeneutica infaticabile e ostinatissima. Successione di registri stilistici eterogenei ma mai casuali, dal narrativo al poetico al profetico, con l’intermittenza incandescente delle immagini, formidabili exempla al confine di ogni linguaggio della raffigurazione, capaci di congiungere, con una strabiliante erudizione iconografica, le visioni di Blake, il simbolismo di Redon, il Dadà, i mosaici ravennati e bizantini, il simbolismo celtico, la pittura di sabbia navajo e le maschere di giada azteche. Il tutto per addensare, in una stratificazione prodigiosa, i molteplici livelli di un viaggio agli inferi che è una compiuta trasmutazione alchemica, una lunga e ripetuta nigredo, un’iterata, ardua, sofferta liberazione al calor bianco in vista di una impossibile rubedo. Perché uno degli aspetti più traumatici e sorprendenti di questa lettura, di questa immersione visionaria, è la ripetuta, continua, reversione che il “pellegrino” dai capelli dalla foggia di paggio deve subire da tutti i suoi interlocutori -“personificazioni” figurali di un poliverso archetipico-, verso l’abisso del negativo. Jung è costretto, nel suo “confronto con l’inconscio”, ripetutamente e implacabilmente, a ridiscendere nella “selva oscura”, a imbattersi nello sgradevole, nel dannato, nel ripugnante, nell’orrido e nell’abissale, non solo come termini di passaggio in direzione di un’emancipazione definitiva, ma come elementi di cui introiettare progressivamente l’irriducibile necessità, la stabile e omeopatica presenza nell’esperienza psicospirituale. <br />Il male dunque necessario in una impareggiabile e scenografica prova di “dialettica negativa” che il propugnatore dell’individuazione come “cerca” del centro sembra almeno qui non poter elaborare diversamente e comunque non senza tragiche lacerazioni. Questo fatto, nella concreta e raffinatissima emergenza di episodi dalla crudezza abbagliante e rivoltante, come quando la personificazione velata di Anima lo costringe a strappare e a cibarsi del fegato di una giovinetta straziata e uccisa, è certo uno degli elementi più inattesi e folgoranti dell’opera. Qui Jung rivela veramente l’ “Ombra”, si manifesta come il profeta oscuro, Jung il rosso, avrebbe detto Thomas Mann, iscrivendolo nella genealogia di Ismaele ed Esaù.<br />“Costellare la follia, la morte, il maligno” potrebbe suonare la sintesi di un percorso al termine della notte di questo Jung “nel mezzo del cammin” (tra il 1913 e il 1930), sprofondato nelle sue fantasie inconsce. Un inconscio, si badi bene, elaborato, decantato, domato dalla comprensione ermeneutica, ma floridamente esposto in figure e personaggi, -da Elia a Filemone- indimenticabili e dotate di una saggezza cupa e inflessibile.<br />Un grande affresco di riforma religiosa anche, oltre ogni confessione, teosofico e politeistico, all’insegna di una “gnosi” mai potente come qui, capace di convocare Silesio e Maister Eckhart, ma anche e soprattutto Nietzsche, per dialogare con essi e per negare la morte di Dio, o meglio per eufemizzarla. Operazione che Jung prescrive al divino stesso, in un paragrafo formidabile, dove aiuta il dio ferito, Izdubar (Gilgamesh), ferito dalla secolarizzazione e dalla ragione scientifica, a rinascere sotto forma di immagine, di evento eminentemente psichico e simbolico. “Fatti immagine”, dice al dio malato, che non senza disappunto infine acconsente, accedendo così al proprio risanamento e facendosi a tal punto piccolo da poter essere racchiuso nell’uovo (immaginale) della resurrezione.<br />Il sacro si fa psiche senza perdere nulla della sua trascendenza, della sua iconica e policentrica plasticità, della sua costitutiva inaccessibilità, dal momento che il suo raggiungimento presuppone l’infernale e interminabile travaglio del negativo e il balenare del fanciullo divino solo per attimi e per frammenti.<br />Eccolo dunque il Libro rosso, il “Liber Novus”: esercizio d’anima, esempio fortunatamente incompiuto di conoscenza come “gnosi”, senza cesure tra inferiore e superiore, tra intelletto e immagine, monumento di conoscenza contraddittoriale, “dissolutio” dell’ego in Anima, in una miscela mai risolta di zolfo e mercurio, itinerario di trasmutazione che rivela di Jung la petizione non più disconoscibile ad una epistemologia irrazionale di cui allora Hillman risulterebbe davvero il più fedele “traditore”, il prosecutore del viaggio immaginale decisivo e necessario. Quel libro giudicato dallo stesso Jung così centrale, il “reattore nucleare” della sua opera, secondo Shamdasani, nascosto forse per non dispiacere troppo al mondo suo contemporaneo ancora incapace di avvicinarsi ad una fonte così impegnativa e scabrosa. Eccolo, il morto rinato.<br />La sua apparizione segna dunque uno sgelamento, un’apertura verso l’ìimpossibile, l’accesso delle epistemologie odierne alle vie dell’invisibile di cui certo Jung è stato uno dei massimi esploratori, o invece ancora v’è bisogno di “traduzione”, di accomodamento, di urbanizzazione?<br />Noi accogliamo questa uscita, estrema e scintillante , cospicua e invasiva, come una possibilità e un invito. Sperando che il “libro rosso” non diventi il “libretto rosso” della comunità degli evangelizzati in Jung ma la soglia, al tempo stesso tragica e abissale, di un’altra via al conoscere, oltre le barriere di una psiche che non è dentro e non è fuori, ma che è la tensione immanente che trama il tutto, come un magnetismo, come un reticolo dalle molteplici aperture e dall’irriducibile ustione carnale e il cui epicentro è il viaggio immaginale, sulfureo, nel flusso delle intensità incalcolabili.Unknownnoreply@blogger.com0