sabato 21 luglio 2012

L'anestesia simbolica


Siamo tutti ottusi, anestetizzati, impermeabili. Non è soltanto l’essere parlati, agiti da un ça interno. Qui è proprio questione di sensi, di qualcosa che anzi definirei più precisamente sensibilità immaginativa. O immaginazione sensibile. Di tale facoltà preziosissima siamo ormai tutti manchi. Con conseguenze spaventose. Non si tratta soltanto di qualcosa che in un più o meno probabile tempo passato esisteva in forma più diffusa. Sì’, certo, in una qual misura. Voglio dire: in un mondo più piccolo, più delimitato, più prossimo, sentirsi accasati con il proprio intorno era certamente cosa comune. Dove sentirsi accasati significa appunto saper riconoscere ciò che si ha intorno, spesso sapere l’esatta provenienza, conoscere la materia, saperla distinguere, tanto più in quanto spesso quell’intorno era stato concretamente fatto da chi lo viveva. Insomma, la sedia, il tavolo, persino i vestiti. Per non parlare di cibi, spesso maturati nei campi e negli orti conosciuti e percorsi continuamente. O gli animali, le uova, quel coniglio alimentato giorno dopo giorno fino alla sua immolazione. Le persone confidavano nelle cose sapendole. Sapendole a fondo, e sapendone anche gli usi, sapendo che quel legno brucia meglio, quell’altro fa fumo, quell’altro scoppietta troppo. O che una bara va fatta con l’olmo, anche simbolicamente. E così via. Anche il linguaggio, magari povero, ristretto, ma era perlopiù fatto di parole note, quelle dialettali, gonfie di materia, di vissuti, di un sapere cresciuto nella matassa carnale di una società pienamente conosciuta. Il che non significa che quel mondo vada guardato con nostalgìa, o per lo meno non con troppa nostalgìa, per le tante e fin troppe ragioni, certo giuste ragioni, che qui ora sarebbe noioso rievocare. Però quella sensibilità, quell’abbozzo di sensibilità simbolica, che conosceva il mondo e vi leggeva messaggi, armonie, quella percezione attenta, di essa un po’ di nostalgia mi sentirei, anche un po’ audacemente, di provarla. Diciamo, con il vecchio Heidegger, che ancora il mondo abitava la terra. Oggi non sappiamo nulla, per converso. Non sappiamo nulla delle cose che abbiamo intorno, non sappiamo da dove venga e cosa sia, letteralmente, ciò che sostiene i nostri deretani per ore e ore, sulle nostre poltrone sintetiche o sui nostri sedili in automobile. Non sappiamo cosa maneggiamo, cosa mangiamo (figuriamoci!), cosa usiamo. Ma non solo non lo sappiamo, neppure ci importa. Viviamo in uno stato di totale anestesia. Non importa la materia di ciò che riempie le nostre vite e ovviamente men che meno può importare il suo significato. Perché, si badi bene, tutto porta con sé un significato, magari all’osso, ma un significato ce l’ha. Se una poltrona è di pelle vera o finta, se è di materiale plastico o di acciaio e gomma, dice qualcosa di diverso rispetto al suo valore, al suo senso, al suo destino e al nostro che l’abbiamo scelta, collocata in un certo punto del nostro habitat, che confidiamo nella sua capacità di sostegno e di conforto magari per un tempo molto lungo. E così per ogni cosa, letteralmente ogni cosa. Occorre lanciare un segnale d’allarme per l’ingresso e la manipolazione continua di oggetti di cui non interroghiamo più né la materialità, per saperla, per distinguerne la congruenza, la finalità, o la forma, per eleggerne la bellezza, la piacevolezza al tatto, al contatto, nell’indossarla, nel maneggiarla, nel riposarci sopra. Figuriamoci se poi ne interroghiamo il senso, il significato simbolico. Eppure ogni cosa parla, talvolta anzi grida. Guardiamo, notiamo. Le case, gli edifici, le strade, le metropolitane, i telefoni, gli schermi, e poi i tessuti, le gomme in cui avvolgiamo i nostri piedi, le plastiche in cui infiliamo i nostri cibi. Non sono solo oggetti, sono segni che comunicano, che, per essere più espliciti, sim-boleggiano. Ogni cosa sim-boleggia. Nel mondo che oggi noi frequentiamo questo sim-boleggiare delle cose è sempre più spesso malinconico, sofferente, povero, devastato. Sorge imperiosa la necessità di ritrovare una sensibilità perduta che aiuti a percepire, ad avvertire, a sentire la pasta delle cose, ma anche a decifrarne il linguaggio simbolico. Avere nella propria casa una poltrona Bauhaus non è soltanto un segno di distinzione, è un gesto simbolico preciso, è un riferimento a una cultura della forma e dei materiali, è un gesto che contiene, anche se spesso in maniera opaca e attutita, un significato persino politico. Ma soprattutto è un messaggio al corpo, allo sguardo, al gusto. E’ uno status-symbol e da esso emana anche un certo snobismo ma è comunque un segno forte. Non lo è di meno una poltrona di pelle gonfia e morbida, una poltrona di famiglia usata e rifoderata innumerevoli volte. Quella poltrona è un oggetto ricco d’anima, una presenza, intrisa del calore, della carne, del ricordo di tutti coloro che l’hanno “abitata”. Ma le cose, in più, sono fatte di materiali, ciascuno dei quali emerge da una storia, che non è solo geologica o produttiva, è anche simbolica. Il ferro è diverso dal legno, e il legno di quercia è diverso dal mogano. L’acciaio satinato è diverso dal ferro smaltato e così via. Ciascuno di essi apre un mondo, un mondo di percezioni ma anche di significati. Guardiamo le case che crescono intorno a noi, guardiamo come sim-boleggiano tra loro, guardiamo i materiali di cui le cose sono fatte. Guardiamo noi stessi, i nostri vestiti. Prendiamo le scarpe da ginnastica, autentiche padrone, oggi, dei nostri piedi. Di cosa sono fatte? Ma soprattutto, che cosa esprimono? Di cosa parlano? Di comodità, di comfort soltanto, come suggeriscono i promotori della loro vendita? Oppure esprimono anche un’ideologia, quella che sostituisce la bellezza con la funzione, che fa della funzione una nuova forma di bellezza? Oppure promuovono anche un fare, quello in sintonìa con la richiesta di velocità, che richiede scarpe che permettano, anzi stimolino la camminata veloce. Scarpe che altresì esprimono il desiderio di correre, oppure di stare aderenti al suolo, scarpe che livellano anche, che omogeneizzano. Sono scarpe androgine, che annullano la differenza sessuale, la deprimono, la sfumano. Sono scarpe senza odore ma che producono cattivo odore. Sono scarpe che simboleggiano ormai da decenni, grazie al trionfo di certi marchi, con il mondo anglosassone, che ne esprimono lo spirito, frettoloso, funzionalista, produttivo, del tutto informale, pragmatico. Ma osserviamo ora il nostro linguaggio, grande indicatore della nostra anestesia dal significato. Come parliamo, quali parole usiamo, o meglio, da quali parole siamo usati? Che cosa simboleggiano queste parole? Le parole del professionista, le parole usa e getta, gli abbreviativi, le locuzioni strappate alla lingua dell’economia, o della psicologia, o del giornalismo, con le sue spaventose metafore morte, un “bagno di sangue”, ha “aperto il fuoco”, il “branco”, oppure ancora l’infausta genìa delle parole anglosassoni. Cosa simboleggiano, cosa esprimono? Occorre curiosità simbolica, per i dettagli, per le sfumature. Moltissimi degli aspetti della nostra vita, raccontano infinite cose. Un libro incollato con la colla, anziché rilegato, con una copertina bianca e nuda, oppure con una copertina colorata o arricchito dalla presenza di illustrazioni, di immagini. Il suo formato, i suoi caratteri, le loro dimensioni, i capoversi, le note, che ci siano o non ci siano. Non sono solo fatti letterali, sono messaggi, indicazioni sul senso, sempre che siano il frutto di una scelta. Ma anche se il senso non fosse intenzionale, vi sarebbe comunque, sarebbe un senso inconsapevole, come è spesso sempre di più, perché l’analfabetismo simbolico genera oggetti ignoranti, incapaci di chiedersi che cosa vogliono dire, esprimere, simboleggiare. Paragoniamo una vecchia madia con una moderna, dell’Ikea. Guardiamo i materiali della vecchia madia, guardiamo le rifiniture, guardiamo se c’è qualche intarsio, qualche decorazione, qualche rilievo, chiediamoci a cosa risponde. Guardiamo la rifinitura dei mobili in serie, assaporiamo i materiali, tastiamoli, non c’è vita lì, non c’è odore, non c’è intensità, storia, radice. Solo una pallida imitazione, una sconfortante eco, un vuoto ritornello. Il mondo è tutto insieme un incredibile concerto di significanti, spesso di richiami dolorosi, specie oggi, ma noi vi transitiamo inconsci, inebetiti, anzi volutamente insensibili. Forse proprio perché se ci fermassimo ad ascoltarlo, il messaggio simbolico del mondo, strettamente collegato da fili simbolici con la nostra interiorità, sentiremmo tutta la disperazione che proviene da un organismo sempre meno curato, armonico, sim-boleggiante. Un paesaggio incongruo, mostruoso, dissestato e pericolante. Un paesaggio che simboleggia le sue dissonanze e le sue lacerazioni in assenza di riconoscimento. Ecco allora la necessità di ripristinare la nostra curiosità e sensibilità simbolica, la capacità di cogliere il senso, la vocazione persino delle cose. Il loro richiamo silenzioso. Sempre diverso, infinitamente sfumato. Cose che talvolta sono solo destinate a scomparire. Ce ne sono che chiedono una specifica cura, altre che vogliono essere spostate, altre che desiderano soltanto accogliere un oggetto a loro corrispondente, per albergarlo armoniosamente, come una tavola un vaso di fiori. Altre aspettano di morire ma talvolta, anche dopo la morte, come ci ha suggerito James Hillman, chiedono di restare per sim-boleggiare anche con la materia e con il sentimento di ciò che muore, con il decadimento, con la rovina. Occorre allenarsi al riconoscimento simbolico, una tipica attività immaginale, frutto di attenzione, di immaginazione, di cultura e soprattutto di sensi attivi e febbrili. Forse così potremmo ricominciare ad accorgerci delle nostra inedia simbolica, del nostro malessere profondo, che è anche e, ritengo, soprattutto, il tremendo effetto di questa anestesia, di questa noncuranza, di questa insensatezza del tutto che cresce, che cresce in assenza di ascolto e di immaginazione attiva, e che ci trascina inconsapevolmente con sé.

venerdì 8 giugno 2012

Fuoco e corpo immaginale


La pedagogia immaginale, così come ho cercato di formularla fin dall’inizio e poi via via con sempre maggiore profondità anche con il contributo di tutti coloro che l’hanno condivisa, non è fondamentalmente un’attività intellettuale. La ricerca immaginale è una ricerca percorsa con il cuore e con i sensi, con l’intuizione e con la passione, solo perifericamente è un atto intellettuale. I nostri autori (gli artisti) sono artefici di una conoscenza come “gnosi”, atto indiviso di apprensione del mondo nella sua integrità, che si realizza attraverso una ricettività globale. Il corpo è il ricettacolo ineludibile di ogni apprensione immaginativa e il tessuto emozionale, strettamente integrato al corpo, ne è la camera di risonanza primaria. E’ attraverso l’emozione corporea, anzitutto, che siamo colpiti e attraversati dall’immagine simbolica. La filosofia che si ispira all’immaginale, almeno nell’accezione in cui da anni mi propongo di diffonderla, non è la filosofia degli intellettuali, non è la filosofia teoretica né la filosofia degli asceti. Ho condiviso, fin da quando l’ho conosciuto, il punto di vista di Françoise Bonardel che contrappone proprio alla scissione inerente a tutti i saperi filosofici e disciplinari segnati dal primato del logos e dell’intelletto, una ricerca di tipo filosofale. Per noi i “filosofi” autentici sono i “figli d’Ermes” e, come per Artaud, l’alchimia è per noi un “combattimento per l’incarnazione” (Bonardel). La filosofia immaginale che pratico è dunque un’ esplorazione filosofale di una materia impura, quella dell’esperienza umana del mondo e dell’esperienza terrestre dell’uomo in costante simbolizzazione ma soprattutto un’educazione a farsi terrestri, radiosamente terrestri, a perfezionare ogni atto conoscitivo in esperienza integralmente vitale. Gli autori che gravitano in un simile travaglio di contaminazione, a gradi diversi di immersione nella pâte immaginale, sono molteplici, e vanno da Jung a Nietzsche, da Paracelso a Novalis, da Hillman e Durand a Deleuze, da Eraclito a Bachelard, da Rilke ad Artaud, da Corbin a Bousquet, da Caillois a Bonnefoy a Schérer. La nostra ricerca è stata fin dall’inizio immersione nella materia immaginale con la precisa consapevolezza che occorreva un’ accondiscendenza e una decostruzione di tutti i nostri apparati dottrinari e di tutti i nostri pregiudizi conoscitivi. Oggi ci rendiamo conto che il nostro apparato operativo, il nostro crogiolo, che chiamiamo “radura”, in onore ad una interpretazione radicale della nozione heideggeriana, è forse troppo statico e talora troppo freddo per accogliere l’incandescenza della materia immaginale in maniera omeopatica, come si conviene. Occorre dunque attivarlo maggiormente. Le nostre istruzioni restano valide, il nostro richiamo a non letteralizzare il cosmo immaginativo anche ma vogliamo aggiungere materia al fuoco. Da un fuoco di bagno vogliamo passare a un fuoco di fiamma, ad un fuoco più intenso. Occorre più calore corporeo, più preparazione all’incontro con le immagini, più conversione ad un attraversamento corporeo, carnale, da sperimentare attraverso il gesto, l’improvvisazione, la danza. All’immaginale si corrisponde con l’immaginale, cioè con un linguaggio che smarrisca quanto più è possibile le tracce di una razionalità diairetica e definitoria, di una cerebralità radicata in una tradizione che è in continuo movimento. Il linguaggio con cui aderire al mondo immaginale è sempre più quello del canto e della danza, del teatro e della poesia, di una “postura” filosofale sempre più aliena all’ipostatizzazione del concetto. Per questo introdurremo, dopo averle sperimentate e ponderate, progressivamente, nelle nostre sessioni di esercizio immaginale, pratiche di preparazione corporea, insieme a una elaborazione del vissuto corporeo dell’esperienza immaginale, ad un suo accompagnamento più caldo e ad una restituzione, in forme creatrici, delle risonanze e delle analogie attivate dall’incontro con la materia immaginale. L’esercizio immaginale non è un seminario di analisi critica o di analisi simbolica delle forme immaginali, è una passione partecipativa ad un mondo a sua volta vivente, di cui si tratta di abitare fino in fondo la carne incandescente.

sabato 2 giugno 2012

"ROSSO". La visione forgiata nell'officina di Mark Rothko.
 

Una volta l’arte era un’impresa solitaria: niente gallerie, niente collezionisti, niente critici, niente soldi. Non avevamo maestri. Non avevamo genitori. Eravamo soli. Eppure è stato un periodo d’oro perché non avevamo niente da perdere e tutta una visione da guadagnare. (Mark Rothko)
Le luci si abbassano, il buio immerge gli spettatori nel silenzio e nell’attesa, l’oscurità avvolge gli attori nella tensione di un’ansiosa aspettativa che si ripete e si rinnova ogni volta nel gioco di una rappresentazione. Il nero crea uno spazio e un tempo di sospensione che permette all’evento teatrale di germogliare. Poi lentamente l’incertezza tenebrosa si dirada circondando e custodendo la radura del palcoscenico da cui emergono due tele di grandi dimensioni. Un uomo le guarda. Dopo qualche istante entra in scena un giovane al quale l’artista chiede «Cosa vedi?» e lo esorta ad avvicinarsi all’opera, a lasciarsi abbracciare da essa, ad immergersi in essa, nella densità e nelle trame del colore. Così inizia lo spettacolo “Rosso” in scena fino al 3 giugno al Teatro Elfo Puccini di Milano. Così il pittore Mark Rothko invita il suo nuovo assistente e lo spettatore a partecipare con tutto il suo corpo, la sua mente e i suoi sensi nella sua opera, a lasciarsi avvolgere ed inglobare in essa, nella profondità superficiale di un rosso circondato, penetrato e sfumato dal nero.
Le opere di Rothko, Deep Red on Maroon e Mural for End Wall, divengono la guida di un percorso di sprofondamento dello sguardo, di dissoluzione di una visione giudicante che imprime sulle immagini valutazioni estetiche e moraleggianti, di abbandono di uno sguardo mercificante che si impossessa di quadri per definire,  nella società della “chiacchiera” e dell’apparenza, il proprio status sociale ed economico, di distruzione di una facoltà meramente creativa che si limita a produrre nuove forme della realtà dimenticandosi e abusando di essa. Le opere di Rothko costituiscono la premessa e il punto d’approdo dell’apprendistato del giovane che si fermerà per «due anni, cinque giorni alla settimana, otto ore al giorno» nello studio del pittore inondato di molteplici tonalità di rosso che macchia il pavimento, straborda dalle pentole e dai barattoli di tempera, cola dai pennelli, impregna i vestiti. E lo studio di Rothko diviene per l’allievo e per lo spettatore luogo dove sostare per discendere, rimanere per contemplare e lasciarsi intridere dal rosso.
Il rosso è vita, affermazione della vita nella chiara consapevolezza della morte. É inquietudine, caos e ordine, tensione e meditazione, rabbia e pacificazione, passione e dolore, luce e tenebra. È il colore denso e scuro del sangue che si rapprende e coagula nel biancore della neve nel flusso impetuoso di ricordi del giovane. E’ il rosso acceso e vivo che scorre dalle vene del pittore preannunciando il suo suicidio. È il tono amaranto che l’artista e il suo allievo dipingono in un corpo a corpo con l’opera. È il colore di un’operatività che rimanda metaforicamente all’alchimia che, come spiega lo stesso Rothko, è un continuo «farsi e disfarsi dal concreto all’astratto e di nuovo al concreto», in una processualità senza fine, in un continuo svolgersi oscillatorio di un processo di bilanciamento inarrestabile.
Lo spettacolo si conclude con l’artista che guarda la sua opera. É in piedi, vicino alla tela, col capo reclinato, in labile e instabile equilibrio sembra essere sul punto di immergersi nell'immagine, di dissolversi in essa, di rendersi invisibile dopo aver licenziato il suo assistente e dopo aver restituito le sue opere alla penombra, togliendole dalle sale del prestigioso ristorante Four Seasons di New York per cui erano state concepite.
E noi spettatori non possiamo far altro che uscire dalla sala attraverso l’opera stessa.

giovedì 3 maggio 2012

Una tazza di mare in tempesta





Ogni volta
che mi accorgo di atteggiare le labbra al torvo,
ogni volta che nell’anima scende come un novembre umido e piovigginoso,
ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me (…)
Allora dico che è tempo di mettermi in mare al più presto, questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. (Melville)


Con queste parole, prese direttamente dall’incipit di Moby Dick, comincia Una tazza di mare in tempesta, di Roberto Abbiati.
Uno spettacolo in una scatola.
Una scatola di legno per contenere poche persone, il pubblico, insolito carico della stiva di una baleniera.
Una piccola installazione per un breve spettacolo, fatto di pochi piccoli oggetti che possono evocare grandi cose: disegni, sculture, lampadine, oggetti d’uso quotidiano suggeriscono balene, velieri e oceani…
Le cose raccontano l’ossessione di Achab per la sua Moby Dick, costringendo lo spettatore ad un’instabile postura e ad una scomoda seduta. Dal centro della scatola occorre continuamente voltarsi, torcersi e cambiare il proprio punto di vista, per non perdere il sottile e delicato filo della narrazione che va in scena.
Si è trascinati in un vortice di scene, o meglio quadri in miniatura da contemplare per pochi istanti che, dal buio in cui siamo immersi, appaiono illuminati dalla fievole luce di una lampadina: l’ombra di un veliero, la corda che si strappa, la lotta con l’animale, il temporale…
Uno spettacolo per adulti che incanta anche i bambini.

venerdì 30 marzo 2012

Voci da una scuola disseccata e degradata

Condivido con i lettori del blog il progetto di due insegnanti della scuola secondaria di secondo grado per rovesciare e ripensare la scuola sotto il segno della qualità, del pubblico, della passione, della vitalità e della bellezza dell'apprendimento-insegnamento.
L'articolo è apparso su MicroMega il 26 marzo 2012.
Per una rivoluzione della scuola superiore
di Elena Fabrizio e Carla Fabiani (Docenti scuola media superiore di II grado)
Il tema della scuola, in tempo di crisi, viene affrontato per lo più da un punto di vista quantitativo. Quante risorse disponibili spese e da spendere in previsione. Quanti tagli. Quanti esuberi fra gli insegnanti. Quanti precari da immettere in ruolo. Quanti pensionamenti. Consapevoli che queste politiche delle quantità rientrano in una più generale attività dei governi finalizzata a comprimere i costi dello Stato sociale, in estremo spregio, da destra e da sinistra, del fondamentale diritto all’istruzione, intendiamo denunciare in che misura esse vadano invece a incidere sulla qualità della didattica.Noi vogliamo, infatti, parlare di qualità. E precisamente della qualità dell’insegnamento-apprendimento così come si presenta nell’ambito della scuola pubblica superiore e nei licei in particolare.Il livello di preparazione dei docenti si è notevolmente abbassato negli ultimi dieci anni per ragioni che riguardano innanzitutto il diploma universitario cosiddetto 3+2, che ha fortemente dequalificato la formazione globale dello studente, il sistema delle abilitazione SSIS, ma anche perché spesso, con il cosiddetto passaggio di ruolo o di cattedra, insegnanti, che per anni si sono dedicati a una disciplina, passano improvvisamente ad insegnarne un’altra. Non ultima per gravità è la mancanza di seri corsi di aggiornamento in itinere, improntati sia alla sperimentazione didattica sia all’approfondimento disciplinare. Al di là delle responsabilità dei singoli docenti, la qualità dell’insegnamento si realizza oggi, con la riforma Gelmini, in classi pollaio nelle quali risulta impossibile, da parte del docente, dedicarsi all’approfondimento dei contenuti disciplinari e a un apprendimento differenziato, finalizzato al recupero degli alunni più deboli.Il rischio di un ulteriore calo della formazione viene poi da una politica scolastica che si vede costretta a gonfiare i voti finali degli alunni, per non creare esuberi fra il corpo docente. Perdi alunni, perdi cattedre, perdi insegnamenti; e il merito non ha più ragion d’essere. Più in generale, il corpo docente è legato mani e piedi a una vita scolastica organizzata sempre più verticisticamente, fatta di carte e cartacce burocratico-amministrative nelle quali il confronto dialogico docente-studente e docente-docente tramonta miseramente.La didattica sperimentale, laboratoriale, creativa e non-manualistica è di fatto impedita da un sistema tutto teso a premiare competenze-conoscenze-abilità, cioè parametri oggettivo-quantitativi valutati con il sistema dei quiz. Quello che conta sono le tabelle da compilare a fine anno con i relativi crediti-debiti. Non conta cioè come effettivamente quel corso di studi sia stato condotto. Il processo e la qualità scompaiono nel risultato finale.La diffusione e l’imporsi – fuori della scuola beninteso – delle nuove tecnologie informatiche ha determinato un salto antropologico che, in termini cognitivi, determina la sostituzione da parte del computer della capacità tutta umana di memorizzare, calcolare, leggere, creare, comunicare, pensare. Tutto ciò porta con sé l’abbassamento del livello minimo di attenzione prestato dagli studenti a una lezione di media difficoltà; la difficoltà che manifestano nel leggere e capire allo stesso tempo – parliamo di ragazzi quasi maggiorenni – oltre che, evidentemente, la difficoltà che mostrano nella scrittura - non sanno dove mettere la virgola, il punto, ecc. - e nell’articolazione concettuale dei diversi contenuti disciplinari.Ciò che ancora di più risulta depresso e impedito, da tutto quanto detto sopra, è l’obiettivo “minimo” che una scuola pubblica dovrebbe raggiungere: l’acquisizione da parte dello studente di un metodo di studio autonomo, originale, proprio.I docenti che vivono questa crisi dell’istruzione sono indotti dalle condizioni oggettive nelle quali lavorano ogni giorno a elaborare alternative più razionali, più giuste, più funzionali di quelle che una classe dirigente politica, troppo incurante del valore-scuola, ha fino ad oggi imposto. Ne segnaliamo di seguito solo quelle essenziali.
1) Sulla formazione dei docenti. Il concorso pubblico, opportunamente rivisto, è sempre meglio del corso a pagamento. Dopo la laurea chi voglia insegnare dovrebbe intraprendere un breve percorso formativo di tipo universitario (gratuito), nel quale acquisire i fondamentali strumenti della ricerca che gli consentano di imparare ad aggiornare autonomamente il proprio sapere.
2) Sulla scelta della scuola. Bisognerebbe riqualificare le scuole tecnico-professionali e indirizzare sin da subito gli alunni che si iscrivono nei licei, ma che non sono portati per lo studio liceale, verso queste scuole; i ragazzi dovrebbero essere sottoposti subito a test selettivi, magari prima di iscriversi.
3) Sulle classi. Non dovrebbero essere composte da più di 15-18 studenti, così da seguirli tutti, proporre apprendimenti e saperi differenziati, elaborare percorsi disciplinari.
4) Sulla valutazione. Eliminazione del sistema interrogazione/voto, la valutazione in itinere è miope perché finalizzata al particolare momento del sapere e non all'intero processo. Solo la valutazione finale su tutto il programma. È più importante esercitare il dialogo ogni giorno, improntando una didattica altamente collaborativa tra docenti e alunni.
5) Sui corsi di recupero. Eliminazione dei corsi di recupero, la percentuale di quelli che recuperano è molto bassa. La scuola è diventata la sede per eccellenza del recupero, è il luogo dove si recupera e dunque si è sempre in affanno; ma con il recupero non si impara, almeno finché l’obiettivo del recupero rimane il voto.
6) Sul sistema competenze/conoscenze/abilità. Abolire questo sistema e sostituirlo con l’obiettivo di un metodo di studio autonomo, in cui il ragazzo impari a imparare.
7) Spazi e tempi della scuola. Far stare gli alunni più tempo a scuola, iniziare le lezioni non prima delle 9:00, con lezioni, per es., di 60 minuti e pause di 15 tra una lezione e l’altra; farli convivere nella scuola, farli studiare a scuola, attrezzare la scuola di biblioteche e videoteche, palestre, campi di calcio, di tennis, giardini, alberi, fiori, orti botanici, cucine.
8) Sull’eguaglianza di opportunità. Per soddisfarla oggi si è affermata la logica del merito, più meriti più opportunità. Noi crediamo che incentivare il merito dovrebbe significare offrire anche “a chi non merita” (alunni poco volenterosi o cognitivamente più deboli) altre opportunità e stimoli culturali. A tal fine occorre incentivare il pensiero divergente, non condannando gli alunni deboli alla loro debolezza, ma offrendo loro stimoli culturali con i quali riprendersi dalla loro apatia. Invece la scuola crede oggi di soddisfare questo diritto all'opportunità regalando il sei.
9) Sulla dirigenza. I dirigenti scolastici dovrebbero limitarsi a gestire le risorse economiche della scuola, e cioè preoccuparsi di manutenere i locali della scuola (in termini di ordine, decoro, pulizia, bellezza); di creare un clima cordiale tra i docenti; di intervenire il meno possibile nella valutazione e nell’autonomia didattica, ma molto di più sui fenomeni di assenteismo e lassismo; dovrebbero essere più professionali e meno protettivi con gli alunni, che già godono dell’eccessiva protezione dei genitori
10) Sui genitori. Ai genitori non deve essere permesso di scegliere le sezioni, di entrare nel merito di valutazioni e comportamenti dei docenti, di far pesare la propria condizione sociale (a cui spesso, insieme ai figli, si appellano per presumere di avere diritto ad una scuola più qualificata). A tal fine occorre scrivere un codice di comportamento anche per i genitori.
Questo progetto per la scuola, che noi consideriamo minimo per il suo riscatto, ha bisogno di una nuova rivoluzione antropologica, che sproni la classe politica a dirottare le risorse economiche nella risorsa scuola. Ma finché le riforme scolastiche le fanno i politici, che per lo più mandano i loro figli nelle scuole private, noi, che di privato abbiamo solo i libri sui quali ci formiamo per il pubblico, siamo destinati alla sola amara denuncia.

venerdì 23 dicembre 2011

Mario Perniola: l'intellettuale organico al sex-appeal di Berlusconi


L’ho visto ridacchiare, compiaciuto, ospite dell’Infedele di Gad Lerner, mentre un servizio compiacente mandava in onda immagini di guerriglia del ’68 e sequenze tratte dai set “telecratici” (Virilio) di Mediaset. Se la rideva, il “grande filosofo”, come recita la quarta di copertina dell’agilissimo volumetto da poco dato alle stampe, davvero poche pagine, dallo spettacolarissimo titolo “Berlusconi o il ’68 realizzato”. Chissà di cosa rideva, forse del pubblico, difficilmente di sé stesso, non c’è traccia di autoironia nelle deflagranti affermazioni del “filosofo”, sicuramente se la rideva di tutti coloro che hanno abboccato alle tragicomiche tesi sostenute appunto nel minipamhlet, che, per farla breve, fa del ’68 la premessa politica e culturale del regime berlusconiano.
Che non sono pochi, quelli che hanno abboccato intendo, a cominciare dallo stesso Lerner evidentemente, che non dice una parola sulla questione, limitandosi a promuoverla acriticamente, alla Repubblica e ad altre autorevoli testate che ne parlano con insolita curiosità e non senza un'esplicita condivisione. E certo, ahimè, questo nuovo sport, praticato a destra come a sinistra ormai (mentre per molto tempo è stato un’attività esclusiva della destra), come si potrebbe definirlo? “scoreggiare sopra il ‘68”? no, troppo volgare, diciamo fare del ’68 un’abbreviazione per qualcosa che deve essere rimosso e obliato quanto prima proprio attraverso il suo logoramento e imbrattamento sistematico (per tradurlo in una di quelle espressioni linguistiche di sapore ormai usuale, come “è successo un ‘48”, per dire di un conflitto sociale, con riferimento ai moti del 1848, ma senza più neppure il bisogno di saperlo, o “è una Russia”, per indicare genericamente uno stato di disordine, con riferimento alla rivoluzione russa. Da qui in avanti si potrà dire infatti: “che fai, un ‘68”?, con riferimento al 1968 ma intendendo: “te le godi” da giovane irriducibile e inconcludente, parassitando i tuoi genitori e in barba ad ogni rispetto per la cultura e il dovere).
Perché è questo che sta accadendo, nel mio più completo sconcerto, e parlo per me perché non avverto in giro gran scalpore o scandalo per questa evidente manifestazione di demenza più o meno senile. E da tempo. Perché Perniola non è davvero stato il primo a formulare una tesi del genere. No, da tempo è strombazzata dagli intellettuali lacaniani per esempio, il simpatico e geniale Zizek in testa, il vero clown della filosofia, capace di infarcire i suoi volumi anche densi con gustosi ammiccamenti sessuali, aneddoti sulla vita di Stalin e Lenin e soprattutto con il suo gusto un po’ grossolano, a dire il vero, per il cinema, specie per il filone pop-fantasy, Matrix insomma per intenderci. Lui è stato tra i più incisivi a scatenarsi contro il ’68, vero male del ‘900, induttore di quella coazione al godimento, secondo le sacre scritture del padre-dio Lacan, il “soggetto supposto sapere”, che già aveva profetizzato la trasformazione del super-io normativo freudiano in un super-io trasgressivo il cui unico imperativo avrebbe suonato, per i seguaci della setta: “godi!”. Di qui il passo è breve, quindi. E’ il ’68 ad avere prescritto il godimento generalizzato, è dunque lui ad avere promosso la società dei consumi e dello spettacolo, è lui ad aver alienato il nostro desiderio, è lui ad aver generato nuovi padroni, non più patriarcali ma buffi e cialtroni, insomma Berlusconi.
Teorema dotato certo di un astruso fascino, non c’è che dire, perché ha una sua intonazione seduttiva. A recitarlo qui da noi ci sono vari personaggi, più o meno noti, da Recalcati a Magrelli, da Perniola a Beppe Sebaste e via discorrendo.
A me la cosa suscita un moto di violenta indignazione, non tanto per la diagnosi della società contemporanea, forse vittima di quello “sgravio” di cui parla con ben più dotta prosa Peter Sloterdijk ma non per questo certo esentata dall’imperativo del sacrificio e dall’alienazione del proprio surplus di valore, checché se ne dica. Società dove certo non vige una liberazione generalizzata, come avrebbe voluto il cosiddetto ’68, ma una approssimazione al godimento (ma quale esattamente, quello della pornografia televisiva e delle escort?) in ogni caso che ha pochi, se non pochissimi autentici fruitori. Semmai vi sono moltissimi eccitati a mete di piacere di cui al massimo possono godere i simulacri, le immagini, le riproduzioni. Ma il ’68 non celebrava certo la società dello spettacolo, la cui analisi per altro lo precede di qualche anno, ad opera di quel Debord che tra l’altro Perniola conosceva bene, essendo stato, a suo tempo, un situazionista. E certo è curioso che un partecipante al ’68, in una delle sue manifestazioni più interessanti e singolari, oggi ne sia il detrattore tanto scatenato. Ma è un fenomeno vecchio anche questo, quello del “pentitismo”, quello della svalutazione di una giovinezza che non c’è più e che ha lasciato dietro di sé solo disperazione e fallimento.
Se c’è una diagnosi seria del ’68 e dei suoi sviluppi, è solo quella che ne ha, da tempo, decretato la sconfitta, proprio nella cultura degli anni ’80 e ’90, falsamente e classisticamente permissiva. La cultura di un capitalismo che sta facendo a pezzi il mondo, letteralmente, quando il ‘ 68 era anche e soprattutto caratterizzato dalla sensibilità critica per le derive internazionali dell’imperialismo (allora lo si chiamava così, prima della globalizzazione), per esempio con il sostegno al Vietnam. Il ’68 traeva la sua linfa da un’infinità di punti di pescaggio, da una cultura che mescolava la Teoria critica di Francoforte con gli orgoni di Reich, l’antipsichiatria e il teatro della crudeltà, Cooper e Vaneigem, Freire e Fanon, Artaud con Benjamin, Sartre, Levi-Strauss e Fourier (appena dato alle stampe in quel periodo) con Marcuse e il giovane Marx. Ma come si può confondere, anche solo sul piano culturale ( e senza parlare dell’arte, dell’economia, della letteratura, della sociologia, della politica), quelle radici, di così grande dignità culturale, con il ciarpame neopopulista e neofascista del ventennio berlusconiano, con il suo nulla (neppure lo spiritualismo o il futurismo che sostennero il fascismo)? Con una subcultura pop-mafiosa?
Giovanilismo, rifiuto della scuola, della cultura, dell’università, liberazione sessuale e del desiderio, dell’immaginazione, queste le colpe poste in equazione al “progetto” berlusconiano di cui delira Perniola. Ma di cosa stiamo parlando? Certo, il ’68 fu una rivoluzione, forse giova ricordarlo, che mise in discussione tutto (“Vogliamo tutto” recitava un testo famoso di Nanni Balestrini) ma nel senso che tutto doveva essere sovvertito, la cultura ingessata e autoritaria, la scuola di classe, l’università elitaria, la famiglia cattolica e repressiva, la sessualità gerarchizzata, interdetta e ibernata (forse occorrerebbe ricordare l’immensa rivoluzione di cui furono protagoniste le donne, in quell’epoca, a favore anche di un ripensamento maschile? Il che spiega probabilmente anche perché tra i tanti detrattori odierni del ’68 ci siano pochissime donne, che io sappia).
Ma come si fa a non cogliere l’elemento vitale, collettivo, emancipatorio di quella progettualità, buona e giusta, e soprattutto a non vederne la macroscopica incompatibilità con il “deserto del reale”, così come ha definito in uno dei suoi migliori libri, proprio Zizek, l’attuale stato delle cose? E’ stato il ’68 a muovere tutto e a scatenare come una valanga di neve ciò che ha poi deflagrato nel nulla odierno? Tesi davvero improponibile e balorda. Forse si dimentica la saldatura che vi fu tra movimento studentesco e movimento operaio, la portata collettiva e partecipativa di quel grande movimento, che non è stato il detonatore di una alquanto supposta civiltà del piacere (purtroppo!!!) ma semmai che è stato lentamente e duramente sconfitto da un capitalismo canceroso che ne ha sfruttato alcuni elementi scorporati per asservirli ad un nuovo, pervasivo e più potente sistema di dominio. Cui evidentemente non sfuggono né Perniola né Zizek, se hanno bisogno di sfruttare a loro modo tesi così “spettacolari”, così evidentemente paradossali da sconfinare nella “butade” dell’attore consumato, nel birignao, nell’ossimoro utile solo a scatenare tempeste mediatiche inutili e distruttive. Che utilizzano proprio ciò che fa del capitalismo attuale un terribile avvelenatore, la legge assoluta dell’equivalenza, così ben sottolineata da Sloterdijk in uno dei suoi testi. La legge che ha fatto di tutte le cose pezzi interscambiabili, che possono essere sostituiti l’uno con l’altro senza che nulla cambi, la legge dell’equivalenze generalizzata, artificio peggiore di una reazione atomica, che rende impossibile produrre una qualsivoglia sporgenza sopra il deserto del reale. Per il quale dunque il ’68 può essere uguale a Berlusconi e viceversa, o la destra può essere sinistra e così via, come aveva già lucidamente cantato Giorgio Gaber. E’ però una tristezza constatare che tanta (supposta) intelligenza si presti a questo disegno sterminatore, con un sottile godimento, tra l’altro, proprio il godimento che imputano alle “masse” (un chiaro gaudente di questo genere è l’inossidabile Cacciari!). E qui emerge la loro vera identità. Si tratta di intellettuali iperaristocratici, proprio loro, che hanno tifato per il pop e per il rovesciamento delle categorie tradizionali dell’estetica o della morale, gli immoralisti, gli ermeneuti della Coca-Cola e dei blue-jeans. In realtà sono quelli che odiano la “gente” e che pur di continuare a sembrare diversi, pur di sentirsi delle star, anche sul pianeta dei Berlusconi, giocano il gioco osceno, il gioco mortifero, il gioco pornografico del fare di tutto l’eguale del tutto, del ’68 quindi –incredibile – la stessa cosa di Berlusconi.
Questo è l’intellettuale organico al sex-appeal di Berlusconi, l’intellettuale elitario di cui mi vergogno e per il quale invoco e spero un nuovo ’68, magari proprio da parte di quegli indignati di cui “gente” come Perniola ironizzava tutto goduto l’altra sera da Gad Lerner.

domenica 30 ottobre 2011

Laboratori immaginali d'infanzia

C’è silenzio in aula, un silenzio colmo di attenzione, concentrazione, contemplazione. Sta parlando un’immagine e i bambini la stanno ascoltando con la partecipazione di tutti i sensi, la sfiorano, fanno scorrere lentamente le loro dita lungo i contorni del quadro e tra le linee nere che disegnano forme inconsuete, si muovono tra le sfumature di colore e ne percepiscono la corposità e il diradarsi. Avvicinano il loro viso al quadro oppure lo allontanano per vederlo da un’altra distanza, lo capovolgono o lo mettono in posizione orizzontale per osservarlo da diverse prospettive.
E’ il primo passaggio di un esercizio immaginale proposto ad alcune classi della scuola primaria all’interno di un progetto di sensibilizzazione alla diversità e alla disabilità promosso dall’associazione L’Abilità. E’ il momento della visione a cui i bambini sono introdotti e predisposti dall’ascolto di un brano musicale e dall’invito a concentrarsi sull’opera, che ognuno di loro ha sul proprio banco, con rispetto e accuratezza. Dopo la visione chiedo ai bambini di girare il quadro e lo spazio bianco del foglio apre e favorisce una fase di meditazione silenziosa in cui cominciano a disegnarsi appassionate e precise descrizioni, riproduzioni del quadro attraverso le parole, e accenni di interpretazioni. Dopo una prima scrittura, i bambini alternano nuove visioni con altri affioramenti di particolari e dettagli che condividono durante la circolazione. Ognuno legge quello che ha scritto, ciò che ha visto, in un’atmosfera protetta e depurata da qualsiasi frenesia di prestazione e di giudizio che impedirebbe il fluttuare e lo scambio di timide emergenze di senso e bloccherebbe il dialogo che i bambini intraprendono tra di loro e con il quadro. Un dialogo attraverso cui emergono nuovi particolari, si approfondiscono i dettagli e si cercano insieme possibili risposte e significazioni della diversità e della disabilità con l’opera del pittore francese Georges Rouault “Il pagliaccio ferito”. Opera ambigua e ambivalente dai colori opachi e accessi situata tra la luce e il buio, l’alba e il tramonto e che situa in uno spazio di dubbi e contraddizioni, in cui spesso i bambini faticano a sostare e mi chiedono di svelargli il senso dell’opera, il suo segreto. Un’ immagine che parla di tristezza, malinconia, dolore, ferita, morte, di quelle dimensioni legate visibilmente e indissolubilmente alla disabilità, ad ogni condizione di minorazione. I tre personaggi, marionette o figure umane, sono segnati dalla ferita, portano su di sé il segno del danno, per natura o per determinazioni esterne. Hanno uno sguardo basso, vuoto, «uno solo vede veramente la luna, gli altri la vedono immaginandola», descrive un bambino, ma anche «la luna li guarda» aggiunge un altro. La loro postura instabile e claudicante esprime un momento di debolezza e sofferenza di cui si fa spettatore e custode il personaggio più basso, una figura mercuriale e bricconesca che sembra offrire agli altri due un dono prezioso per una possibile guarigione o forse vuole giocare un tiro scherzoso e maligno. E ancora l’immagine parla ai bambini nascondendo e svelando un volto, in alto, nella cornice interna del quadro. Una figura enigmatica, indefinibile nel genere e nell’età, uno stregone con un pappagallo sulla spalla, una figura diabolica che sembra essere indifferente alla tristezza dei personaggi, ma anche una figura numinosa che plasma e forse dipinge il quadro, una sfinge che pone l’enigma della presenza misteriosa del male o un burattinaio che anima e manovra le sue marionette, che è chiamato a integrare il dire e il muoversi frantumato e parziale di coloro che si trovano ad affrontare il mondo in condizioni di particolare minorità, “ponendo le condizioni perché una soggettività compromessa e deficitaria possa ambire a una sua riconoscibilità”.
Questi sono i primi e provvisori significati di un’esperienza in corso e appena iniziata ma che cominciano ad offrire una prima rinnovata e approfondita visione dell’oggetto, una visione che fa emergere la complessità e la molteplicità dei volti della disabilità, oltre la sua medicalizzazione e al di là dell’atteggiamento compassionevole o di sottile scherno che esprimono anche i bambini, già condizionati dai pregiudizi e stereotipi della nostra società che emargina e allontana ciò che è differente, che può spaventare, che è minorato, in ritardo, incapace e impossibilitato ad alzarsi e a correre al ritmo serrato di ogni crescita e progresso. Per questo ci sembra necessario continuare a pensare e istituire un laboratorio immaginale per i bambini, uno spazio e un tempo prezioso e concentrato dove venire in contatto con l’inconsueto e il misterioso nell’incontro particolarissimo con l’opera d’arte per esplorare, perdersi e sostare nella ricchezza inesauribile dei suoi significati, per arricchire l’immagine e l’immaginazione del volto misterioso e profondo della minorità e della differenza.
Concludo questo post, e ogni incontro, con i titoli attraverso cui i bambini “ribattezzano” l’opera, gli offrono in dono un nuovo e rinnovato nome.
«Una grande disperazione. Il personaggio ammalato e ferito. L’alba triste e grigia. Era notte…Le persone che si aiutano l’un l’altro. Aiutarsi a vicenda. Bisogna affrontare… La differenza umana. Un dono non accettato. Anche se burattino ferito».