domenica 10 febbraio 2013

Girovagando nello spazio immaginale di ogni stazione

Ogni stazione ha un suo odore, un sapore, una tonalità, una sonorità. Ogni stazione è un microcosmo guizzante, vibrante, libero nel suo respiro, brulicante di dettagli e attraversato da traiettorie curve, serpentiformi che vanno verso l’esterno per poi ritornare verso l’interno senza dirigersi mai verso una meta definitiva. E sostando in ogni stazione si affluisce nel sistema circolatorio della sua folla, si diventa anonimi e infinitesimi in quel tumulto, ci si perde con la miriade dei nostri simili, si precipita in quel vortice, “verso l’ignoto, verso il cielo di una qualche comunanza”.
La stazione è un luogo fluido, dinamico, instabile dove lo sguardo ha la possibilità di rallentare il suo movimento rapido trattenendosi concentrato sull’andare e venire delle persone, su un corpo in attesa impaziente, su un viso reclinato, su uno scambio di risate, sorrisi e bisbigli. Si può rimanere a lungo seduti in un angolo o girovagare tra la folla ascoltando, osservando e registrando, come gli angeli di Wenders, i pensieri, i ricordi, le emozioni, i progetti frantumati delle persone che attraversano quotidianamente e abitualmente una stazione o vi passano per un caso eccezionale.
Terra di nessuno e di ognuno, terra del tempo passato e presente, di storie individuali e della storia del mondo, di migliaia di pensieri, emozioni, corpi che si aggirano inquieti in uno spazio e in un tempo sospeso, si sfiorano, si incrociano guardandosi distrattamente oppure non alzano mai gli occhi per non correre il rischio di incrociare uno sguardo che potrebbe provocare un incontro, che talvolta avviene in una stazione.
Le stazioni sono luoghi liminali, di passaggio, di transizione, abitati da Ermes, il dio greco che sta sui confini, pone in comunicazione, sovraintende i legami, gli scambi. Le stazioni, nel film Tickets  del trio registico Olmi-Kiarostami-Loach, sono luoghi di incontro, abbandono e incompiutezza dove ha inizio una storia che si svolge lungo i binari di un viaggio in treno, e la stazione successiva diventa punto di partenza per un altro racconto in un tempo spiraliforme che lega e annoda, congiunge le trame di infinite e possibili storie.
Ermes, come indica Barioglio, è un “essere ambiguo e duplice, guida delle anime, ladro e furfante, messaggero degli dei, araldo di Zeus come di Ade, medium congiungendi tra cielo e terra, tra spirito e materia, tra interno ed esterno, corpo dell’uomo e corpo del mondo”. La presenza di Ermes si può allora avvertire obliqua e ispiratrice nello spazio immaginale di ogni stazione posta sul confine tra presenza e assenza, attesa e compimento, superficie e profondità, realtà e immaginazione, interno e esterno.
La stazione è un luogo ambiguo e ambivalente che mostra e nasconde nella penombra dei suoi sotterranei e dei suoi tunnel le persone marginali e emarginate, gli invisibili ignorati dal mondo, esibisce artisti e musicisti, pazzi e folli, anime nomadi e precarie che trovano ai suoi bordi una sistemazione provvisoria. È un territorio di caccia, di questua o di sopravvivenza per mendicanti e borseggiatori che si aggirano fragili, furtivi e coraggiosi nel suo sottosuolo.
Nelle stazioni il tempo è sospeso, si interrompe il fluire produttivo e finalistico della vita, abbiamo la possibilità di sostare in un presente tranquillo, di vivere l’intensità emotiva di un momento di attesa, di partenza o di ritorno guidati più dai sogni e dalle fantasie che da una progettazione razionale del futuro. Oscilliamo in quell’attimo di sospensione, di vuoto, di equilibrio labile, di immobilità dinamica in cui si sta per fare qualcosa, in cui forse prenderemo, uscendo dalla stazione, una nuova e insolita direzione o, forse, ci ritufferemo a capofitto nella folle corsa contro il tempo delle nostre città, della nostra società prostrata alla deità del trinomio di progresso, crescita e innovazione. Anche le stazioni sono diventate sempre più automatizzate, i bigliettai stanno sparendo sostituiti da macchine mute e siamo costretti inermi alla tortura di assordanti e accecanti video pubblicitari. Ma nonostante questa infausta tecnologizzazione certe stazioni rimangono, concordando con Marc Augè, dei luoghi densamente popolati e animati di ricordi, abitudini, incontri, volti sconosciuti e familiari dove è possibile intrattenere con lo spazio “una sorta di intimità corporea misurabile nel ritmo della discesa nella rampa di scale, nella precisione del gesto con cui si introduce il biglietto nella fessura del portello di accesso o nell’accelerazione del passo quando si indovina dal rumore l’arrivo del treno sul bordo del binario”.
E come per tutti i viaggiatori arriva il momento di partire: si passa il tornello, ci si avvicina al binario e sul bordo della banchina non si resiste alla tentazione di tendere la testa per “cercare di scorgere, nella profondità del tunnel, lo strano movimento di tenebre e luci che annuncia l’imminente apparizione del treno” e un nuovo viaggio verso l’ignoto.
 
 
 
 

mercoledì 2 gennaio 2013


Quando il corpo viene “obbligato” a muoversi. Pratiche corporee e dimensione immaginale nel tempo concentrato e prezioso di un laboratorio.
 

«Ho vissuto il corpo come limite, confine, cambiamento, protezione, separazione e connessione tra me, gli altri ed il mondo. É stato un po’ come riappropriarsi del proprio corpo, prestare attenzione a quanto di solito è invece dato per scontato e normale, tanto da non ascoltarlo più (respiro, battito cardiaco, vibrazione tra addome e colonna vertebrale determinata dall’emissione sonora, per esempio), per riprenderne coscienza come parte che mi appartiene o su cui posso agire, che posso anche attivare in modo “nuovo”, “diverso” dall’abituale e inconsapevole».

Così una studentessa del terzo anno di Scienze dell’Educazione restituisce il percorso di due giornate laboratoriali  in cui viene chiesto di mettere in gioco il corpo, le emozioni, di lasciare la mente “navigare come le nuvole” per provare ad avviare una riflessione rispetto alla dimensione corporea in educazione, al proprio esserci come corpi sulla scena formativa. Giunti quasi al termine del loro percorso universitario gli studenti sono “obbligati” (i Laboratori di Didattica delle Attività motorie prevedono una frequenza obbligatoria) ad indossare un abbigliamento comodo e a recarsi nell’unico e trascurato laboratorio motorio dell’università o in un’ampia sala di una scuola teatrale. E lo spazio vuoto, senza banchi inchiodati ai pavimenti e una cattedra dietro la quale si esibisce e si nasconde il docente li imbarazza, li disorienta, entrano timorosi, incerti se togliersi le scarpe e quando seduti in cerchio condividono le loro aspettative rispetto a ciò che sta per succedere si rassicurano vicendevolmente, certi che la maggior parte di loro vorrebbe non assistere a una lezione frontale e al contempo non vorrebbe esibirsi, giocare, danzare, fare teatro, mettere in gioco il corpo. Dopo aver riposto letteralmente e metaforicamente in una valigia le aspettative, i pre-giudizi, le pre-comprensioni  i corpi iniziano a muoversi  in un tempo e in uno spazio speciali, inconsueti, intensi e preziosi. Uno spazio di quiete che lascia ad ognuno il tempo di incontrarsi, mostrarsi, ascoltare e ascoltarsi, agire e lasciarsi agire. Un tempo di riposo in cui ci si ferma per godere senza fretta il piacere di auscultarsi, di percepire il proprio respiro, il battito del cuore, le emozioni che provengono da un gesto, da un contatto, da uno sguardo. Un tempo di riflessività in cui, in gruppo, si lasciano fluire, condensare e poi di nuovo fluire le molteplici significazioni possibili che l’ambiguità e l’ambivalenza del corpo lasciano emergere. Si condivide il sentire del corpo, non con un obiettivo intimistico e psicologizzante, ma per comprendere il suo esserci e stare nella relazione educativa, per percepire quella “qualità di presenza particolare, viva e autentica” sulla scena formativa. Per questo vengono proposti dei giochi e degli esercizi che provengono dall’ambito teatrale, che non hanno alcuno scopo di carattere performativo, ma provano ad avviare una riflessione rispetto ad alcune dinamiche educative a partire dal vissuto del corpo in un intreccio inestricabile e proficuo tra prassi e teoria. Senza la pretesa e la supponenza di scoprire un’unica e prescrittiva modalità di “esserci”, per ognuno si apre la possibilità di interrogarsi rispetto alla propria ed unica presenza corporea, a come ogni corpo si presenta, si mostra e si nasconde al mondo, come guarda e si lascia guardare, come i gesti degli altri agiscono su se stessi, “espressivi tanto quanto la parola, modulabili in ampiezza al pari del timbro della voce, capaci di accogliere ed includere, come pure di rifiutare ed allontanare”.
E al termine del primo incontro si lascia parlare il corpo che restituisce attraverso diverse modalità espressive la propria idea di educazione per provare ad acquisire consapevolezza delle immagini, dei saperi, delle emozioni, dei vissuti che orientano e determinano la propria presenza di educatori, per non lasciarsi agire inconsapevolmente da esse ma per agirle criticamente. Dopo questa prima parte che può essere considerata come una “pars destruens” viene proposta ai ragazzi una “parte costruttiva” per provare ad arricchire il loro sguardo sul corpo in educazione. Gli studenti vengono invitati e accompagnati ad entrare in contatto con il corpo di alcune immagini pittoriche particolarmente significative rispetto alla presenza del corpo nei contesti educativi. Dopo un momento di visione, meditazione e circolazione delle molteplici vie di significazione che le opere indicano i ragazzi provano a restituire una visione rinnovata e approfondita dell’opera d’arte lasciandosi parlare dal corpo. Alcune volte si limitano a una drammatizzazione o a una narrazione dei significati incontrati nel contatto con l’opera, ma capita anche che la restituzione corporea, attraverso un gesto, un suono, un urlo o un silenzio  riesca a condensare e a far risuonare il mondo immaginale dell’opera. E questo richiede un continuo, paziente e arduo esercizio di movimento, di spoliazione, di pulizia, di poetica del gesto e del corpo per ritrovare, come suggerisce Francesca Antonacci, “le risorse e le potenzialità simboliche e materiali del suo linguaggio cinestesico”. Per questo è necessario continuare ad “obbligare” il corpo a muoversi in un tempo dilatato e prezioso che non si limiti ad un breve laboratorio.
 

lunedì 27 agosto 2012

"Angeli dormienti" tra cielo e terra

 
“Music  is well said to be the speech of angels; in fact, nothing among the utterances allowed to man is felt to be so divine. It bring us near to the infinite”.
 


La musica ci trasporta in una dimensione altra, apre uno spazio fluttuante e ondeggiante, propizia l’ingresso in un presente sonoro prezioso e concentrato, ci avvolge e abbraccia nella sua materia liquida, sonora e graffiante facendoci entrare in un altro ordine del vedere e dell’ascoltare, “una sorta di percezione precategoriale, una visione preverbale”, presignificante. Il suono, scrive Nancy, proviene e si dilata, trascina via la forma. “Non la dissolve, piuttosto l’allarga, le dà un’ampiezza, uno spessore e una vibrazione o un’ondulazione al cui disegno non fa che approssimarsi di continuo”.
La musica ci immerge nell’ascolto delle immagini sonore e visive del video del gruppo islandese dei Sigur Rós. Una musica ancestrale che sembra provenire da un altrove e ci situa in un altrove incantato e sospeso, ci invita, con i suoi vocalizzi distillati e reiterati, a rallentare e ad entrare nell’ascolto per cogliere il risuonare delle cose e dei corpi tra loro, “prima e al di qua dei nostri schemi categoriali e percettologici”. È una musica priva di significato, un linguaggio (vonlenska in islandese) inventato dal cantante e chitarrista del gruppo, fatto di vocalizzi improvvisati, femminei e acuti, espressione di ciò che rimane d’ineffabile di un discorso concettuale. Forse, per questo, all’inizio del video si dice che la musica sia il linguaggio degli angeli: per la sua capacità di approssimarci al divino, all’infinto, a quella dimensione sognante e misteriosa, eterea e terrestre, dolce e impetuosa descritta dai suoni e dalle immagini di “Angeli dormienti”.
Immagini poetiche danzate da creature angeliche, corpi intermedi e intermediari come forse sono i corpi disabili che albergano in una dimensione altra, tra realtà e irrealtà, consapevolezza e inconsapevolezza, in uno spazio misterico in cui si incontrano la vita e la morte, il dolore, il male, la fragilità, la nostra debolezza costitutiva. I loro gesti e i loro sguardi inattesi, concentrati e presenti nell’azione che stanno compiendo è come se mettessero in scacco il sapere, il nostro fare affrettato e risolutivo, le nostre pretese direttive, ci spiazzano, non abbiamo ben chiaro come muoverci, come rispondere, che fare. Forse non possiamo far altro che rallentare, lasciarci condurre da queste guide alate e terrene nel “paesaggio sognante” delle immagini visive e sonore del video e provare a danzare e lasciarci danzare dai suoni, dai corpi e dalle parole in un continuo movimento oscillatorio tra alto e basso, tra terra e cielo.
Il suolo verde e sconfinato sembra rappresentare il radicamento che il corpo mantiene con la terra e a questa concentrazione al suolo risponde, per contro, un’espansione verso l’alto. L’altezza è “messa in evidenza” da uno sfondo bianco e abbacinante da cui sembrano provenire e a cui sembrano ritornare gli angeli, e al contempo è “messa in risonanza” dai suoni, dalla voce, dai gesti e dagli sguardi diretti verso l’alto degli attori. In questo presente sonoro lieve e stridente, creato dalla musica, i corpi giocano, si rincorrono, sembrano essere sul punto di spiccare il volo, si muovono leggeri e leggiadri sulla terra, accarezzano l’aria, si cercano, si abbracciano. E immediatamente dopo l’unione in un atteso e prolungato bacio, avviene la caduta di un angelo a terra. Tutte le creature alate si dispongono in cerchio intorno a quel corpo e inizia una sorta di rituale presieduto da suoni cupi, una voce altisonante e l’arrivo di un uomo vestito di blu, uno stregone, forse uno sciamano, uno psicopompo che presidia la trasformazione dell’angelo nel corpo giallo, luminoso di una nuova creatura. Creatura ambigua, umana, animale o forse vegetale, con una grande spirale disegnata sul petto: simbolo che lega, annoda, congiunge gli opposti, rinvia alla possibilità di una ricongiunzione tra soggetto e oggetto, tra uomo e mondo. Intorno a questa creatura aurea gli angeli iniziano a danzare e volteggiare per poi trovare riposo nella terra. E tenendo lo sguardo rivolto alla terra l’immagine e i suoni si innalzano di nuovo verso l’alto, evocando la presenza di un cielo necessario.
Qui la musica si rende silenziosa e le parole tornano a impastarsi con la materia sonora e visiva per nuovi possibili affioramenti nel paziente e faticoso esercizio di ascolto e restituzione della sonorità delle immagini.
“We haven’t found the words to describe our music. Maybe we will one day. Thanks”. Sigur Rós.

giovedì 26 luglio 2012

Cezanne: Estetica dell'informe come verità in pittura


Cosa ci mostra Cezanne dunque nelle sue S.Victoire? Nelle ultime in particolare? Che significa l’espressione “verità in pittura”, che egli voleva “dare”, da lui pronunciata (e mi si perdoni se qui non seguo per nulla Derrida)? Anzitutto vediamo il cedimento di una pellicola, la pellicola della nostra illusione costruttiva, l’illusione della presenza, della presa sul mondo. Lì si scompagina l’abbaglio del possesso. Noi non dominiamo più nulla non appena abbandoniamo l’illusione di una vista, quella vista che riteniamo tanto affidabile, che poggia integralmente sulla parola. Ha ragione Lacan, è la parola che precede la visione, o meglio che la istituisce nella sua “forma”. Noi vediamo quello che crediamo di vedere, case, campi, alberi, cielo, terra, solo perché ne possediamo i lemmi, le parole. In assenza di essi quel sipario sottile cede e appare il “reale”, cioè la materia, la materia che resiste alla simbolizzazione, nella sua proliferazione incontenibile e minacciosa. O, per dirla in altri termini, in luogo della forma riconoscibile ecco manifestarsi, magmatico e in continua fluidificazione, o, se si preferisce, in perpetua metamorfosi, l’informe. Penetriamo o cadiamo, sarebbe forse meglio dire, in un altro ordine del vedere, una sorta di percezione precategoriale, una visione preverbale. Cezanne lentamente arriva a produrre una lacerazione nel tessuto della forma del reale, arretrando o penetrando oltre, a seconda di come si voglia intendere questo movimento. In parte è entrambe le cose, penetra oltre perché la sua è un’avventura dell’intenzione, anche, ma di un’intenzione che sa come cedere alla pretesa di trattenere, di contenere. Un’azione passiva dunque, un accesso retrocedente che si rivela una vera e propria resa al dominio della materia, al suo manifestarsi “reale”. Manifestarsi visivo ora rappresentato, e dunque attingibile, sebbene secondo un processo di decostruzione della percezione che è accondiscendenza alla emergenza di una terra che non è già più mondo (per dirla con Heidegger). E’ pre-mondo, e sempre più pre-mondo. E’ una “pâte”, per usare un termine bachelardiano, in quanto indica proprio il nucleo dell’immaginazione materiale, l’immaginazione che vede in assenza di forma, l’immaginazione dell’informe, dell’elementare. Ecco allora questo e-venire della verità in pittura. Lì la visione si fa ricettacolo dell’evento di un premondo informe, quello che ci accomuna alla materia ben prima che il linguaggio ci situi di fronte ad esso, in posizione di nominatori e di padroni. Quindi: non poetica della dissomiglianza (questo sarà affare dei surrealisti o dei simbolisti, dei cubisti o degli espressionisti), che è una poetica dell’intenzione, per quanto modulata attraverso sistemi di percezione-espressione di volta in volta differenti, ma poetica dell’accondiscendenza, opera di ricezione e di cedimento della struttura del vedere, poetica immaginale primaria, elementare, capace di rifondare un legame matriciale alla tessitura terrestre.
Si tratta di una emergenza prepotente del sensibile. L’opera di preconoscenza o surconoscenza di Cezanne è un’acutizzazione del sensibile. Il suo puntare l’invisibile, che in questa formula poteva generare equivoci, indica, al contrario di ogni filosofema sublimante, l’idea che c’è un sensibile che richiede un esercizio di attenzione ipersofisticato, un sensibile amplificato che è il prodotto dell’osservazione tenuta e durata della cosa. Osservazione che arriva al limite di far cedere il suo apparato di cattura del visibile nelle maglie del linguaggio. E’ questa l’autentica opera immaginale? Ne conseguirebbe che l’esercizio immaginale autentico non è per nulla l’allenamento di una facoltà sovrasensibile ma l’incremento di una percezione sensibile consuetudinariamente anestetizzata e talora addirittura interdetta (dall’abbreviazione del riconoscimento verbale). Ecco quindi affacciarsi un ulteriore problema (eventuale): come tradurre in linguaggio questo affioramento? Come “tradurlo” di nuovo in parole che non lo rimettano nel posto da dove si era tolto per lasciare respirare la materia? Posto che si voglia superare la soglia della visione muta, iniziatica e carnale di un tale incontro, occorrerà un linguaggio che sia in grado di dire altrimenti l’affioramento di questo sensibile negletto: una lingua lenta, densa, adesiva all’evento incatturabile specifico. Una sorta di lingua poietica, addirittura gliscromorfa, tenacemente vischiosa. Una lingua che faccia l’amore con la visione, che s’intrida della sua tessitura, non solo nel produrre uno sforzo di nominazione referenziale di un visibile che inevitabilmente è privo di nome proprio e che richiede quindi la poiesi di una nominazione obliqua, metaforica, la produzione di invenzioni figurali. Ma anche nel superamento di una grammatica che potrebbe rischiare di fissare la fluidità propria ad una fenomenologia magmatica. Dunque una grammatica in cui diradi la punteggiatura, che trasgredisca le consegne di un periodare regolato e, assecondando le fratture e gli inghiottimenti dell’informe, se ne faccia ecfrasi materica, al limite della glossolalia.

sabato 21 luglio 2012

L'anestesia simbolica


Siamo tutti ottusi, anestetizzati, impermeabili. Non è soltanto l’essere parlati, agiti da un ça interno. Qui è proprio questione di sensi, di qualcosa che anzi definirei più precisamente sensibilità immaginativa. O immaginazione sensibile. Di tale facoltà preziosissima siamo ormai tutti manchi. Con conseguenze spaventose. Non si tratta soltanto di qualcosa che in un più o meno probabile tempo passato esisteva in forma più diffusa. Sì’, certo, in una qual misura. Voglio dire: in un mondo più piccolo, più delimitato, più prossimo, sentirsi accasati con il proprio intorno era certamente cosa comune. Dove sentirsi accasati significa appunto saper riconoscere ciò che si ha intorno, spesso sapere l’esatta provenienza, conoscere la materia, saperla distinguere, tanto più in quanto spesso quell’intorno era stato concretamente fatto da chi lo viveva. Insomma, la sedia, il tavolo, persino i vestiti. Per non parlare di cibi, spesso maturati nei campi e negli orti conosciuti e percorsi continuamente. O gli animali, le uova, quel coniglio alimentato giorno dopo giorno fino alla sua immolazione. Le persone confidavano nelle cose sapendole. Sapendole a fondo, e sapendone anche gli usi, sapendo che quel legno brucia meglio, quell’altro fa fumo, quell’altro scoppietta troppo. O che una bara va fatta con l’olmo, anche simbolicamente. E così via. Anche il linguaggio, magari povero, ristretto, ma era perlopiù fatto di parole note, quelle dialettali, gonfie di materia, di vissuti, di un sapere cresciuto nella matassa carnale di una società pienamente conosciuta. Il che non significa che quel mondo vada guardato con nostalgìa, o per lo meno non con troppa nostalgìa, per le tante e fin troppe ragioni, certo giuste ragioni, che qui ora sarebbe noioso rievocare. Però quella sensibilità, quell’abbozzo di sensibilità simbolica, che conosceva il mondo e vi leggeva messaggi, armonie, quella percezione attenta, di essa un po’ di nostalgia mi sentirei, anche un po’ audacemente, di provarla. Diciamo, con il vecchio Heidegger, che ancora il mondo abitava la terra. Oggi non sappiamo nulla, per converso. Non sappiamo nulla delle cose che abbiamo intorno, non sappiamo da dove venga e cosa sia, letteralmente, ciò che sostiene i nostri deretani per ore e ore, sulle nostre poltrone sintetiche o sui nostri sedili in automobile. Non sappiamo cosa maneggiamo, cosa mangiamo (figuriamoci!), cosa usiamo. Ma non solo non lo sappiamo, neppure ci importa. Viviamo in uno stato di totale anestesia. Non importa la materia di ciò che riempie le nostre vite e ovviamente men che meno può importare il suo significato. Perché, si badi bene, tutto porta con sé un significato, magari all’osso, ma un significato ce l’ha. Se una poltrona è di pelle vera o finta, se è di materiale plastico o di acciaio e gomma, dice qualcosa di diverso rispetto al suo valore, al suo senso, al suo destino e al nostro che l’abbiamo scelta, collocata in un certo punto del nostro habitat, che confidiamo nella sua capacità di sostegno e di conforto magari per un tempo molto lungo. E così per ogni cosa, letteralmente ogni cosa. Occorre lanciare un segnale d’allarme per l’ingresso e la manipolazione continua di oggetti di cui non interroghiamo più né la materialità, per saperla, per distinguerne la congruenza, la finalità, o la forma, per eleggerne la bellezza, la piacevolezza al tatto, al contatto, nell’indossarla, nel maneggiarla, nel riposarci sopra. Figuriamoci se poi ne interroghiamo il senso, il significato simbolico. Eppure ogni cosa parla, talvolta anzi grida. Guardiamo, notiamo. Le case, gli edifici, le strade, le metropolitane, i telefoni, gli schermi, e poi i tessuti, le gomme in cui avvolgiamo i nostri piedi, le plastiche in cui infiliamo i nostri cibi. Non sono solo oggetti, sono segni che comunicano, che, per essere più espliciti, sim-boleggiano. Ogni cosa sim-boleggia. Nel mondo che oggi noi frequentiamo questo sim-boleggiare delle cose è sempre più spesso malinconico, sofferente, povero, devastato. Sorge imperiosa la necessità di ritrovare una sensibilità perduta che aiuti a percepire, ad avvertire, a sentire la pasta delle cose, ma anche a decifrarne il linguaggio simbolico. Avere nella propria casa una poltrona Bauhaus non è soltanto un segno di distinzione, è un gesto simbolico preciso, è un riferimento a una cultura della forma e dei materiali, è un gesto che contiene, anche se spesso in maniera opaca e attutita, un significato persino politico. Ma soprattutto è un messaggio al corpo, allo sguardo, al gusto. E’ uno status-symbol e da esso emana anche un certo snobismo ma è comunque un segno forte. Non lo è di meno una poltrona di pelle gonfia e morbida, una poltrona di famiglia usata e rifoderata innumerevoli volte. Quella poltrona è un oggetto ricco d’anima, una presenza, intrisa del calore, della carne, del ricordo di tutti coloro che l’hanno “abitata”. Ma le cose, in più, sono fatte di materiali, ciascuno dei quali emerge da una storia, che non è solo geologica o produttiva, è anche simbolica. Il ferro è diverso dal legno, e il legno di quercia è diverso dal mogano. L’acciaio satinato è diverso dal ferro smaltato e così via. Ciascuno di essi apre un mondo, un mondo di percezioni ma anche di significati. Guardiamo le case che crescono intorno a noi, guardiamo come sim-boleggiano tra loro, guardiamo i materiali di cui le cose sono fatte. Guardiamo noi stessi, i nostri vestiti. Prendiamo le scarpe da ginnastica, autentiche padrone, oggi, dei nostri piedi. Di cosa sono fatte? Ma soprattutto, che cosa esprimono? Di cosa parlano? Di comodità, di comfort soltanto, come suggeriscono i promotori della loro vendita? Oppure esprimono anche un’ideologia, quella che sostituisce la bellezza con la funzione, che fa della funzione una nuova forma di bellezza? Oppure promuovono anche un fare, quello in sintonìa con la richiesta di velocità, che richiede scarpe che permettano, anzi stimolino la camminata veloce. Scarpe che altresì esprimono il desiderio di correre, oppure di stare aderenti al suolo, scarpe che livellano anche, che omogeneizzano. Sono scarpe androgine, che annullano la differenza sessuale, la deprimono, la sfumano. Sono scarpe senza odore ma che producono cattivo odore. Sono scarpe che simboleggiano ormai da decenni, grazie al trionfo di certi marchi, con il mondo anglosassone, che ne esprimono lo spirito, frettoloso, funzionalista, produttivo, del tutto informale, pragmatico. Ma osserviamo ora il nostro linguaggio, grande indicatore della nostra anestesia dal significato. Come parliamo, quali parole usiamo, o meglio, da quali parole siamo usati? Che cosa simboleggiano queste parole? Le parole del professionista, le parole usa e getta, gli abbreviativi, le locuzioni strappate alla lingua dell’economia, o della psicologia, o del giornalismo, con le sue spaventose metafore morte, un “bagno di sangue”, ha “aperto il fuoco”, il “branco”, oppure ancora l’infausta genìa delle parole anglosassoni. Cosa simboleggiano, cosa esprimono? Occorre curiosità simbolica, per i dettagli, per le sfumature. Moltissimi degli aspetti della nostra vita, raccontano infinite cose. Un libro incollato con la colla, anziché rilegato, con una copertina bianca e nuda, oppure con una copertina colorata o arricchito dalla presenza di illustrazioni, di immagini. Il suo formato, i suoi caratteri, le loro dimensioni, i capoversi, le note, che ci siano o non ci siano. Non sono solo fatti letterali, sono messaggi, indicazioni sul senso, sempre che siano il frutto di una scelta. Ma anche se il senso non fosse intenzionale, vi sarebbe comunque, sarebbe un senso inconsapevole, come è spesso sempre di più, perché l’analfabetismo simbolico genera oggetti ignoranti, incapaci di chiedersi che cosa vogliono dire, esprimere, simboleggiare. Paragoniamo una vecchia madia con una moderna, dell’Ikea. Guardiamo i materiali della vecchia madia, guardiamo le rifiniture, guardiamo se c’è qualche intarsio, qualche decorazione, qualche rilievo, chiediamoci a cosa risponde. Guardiamo la rifinitura dei mobili in serie, assaporiamo i materiali, tastiamoli, non c’è vita lì, non c’è odore, non c’è intensità, storia, radice. Solo una pallida imitazione, una sconfortante eco, un vuoto ritornello. Il mondo è tutto insieme un incredibile concerto di significanti, spesso di richiami dolorosi, specie oggi, ma noi vi transitiamo inconsci, inebetiti, anzi volutamente insensibili. Forse proprio perché se ci fermassimo ad ascoltarlo, il messaggio simbolico del mondo, strettamente collegato da fili simbolici con la nostra interiorità, sentiremmo tutta la disperazione che proviene da un organismo sempre meno curato, armonico, sim-boleggiante. Un paesaggio incongruo, mostruoso, dissestato e pericolante. Un paesaggio che simboleggia le sue dissonanze e le sue lacerazioni in assenza di riconoscimento. Ecco allora la necessità di ripristinare la nostra curiosità e sensibilità simbolica, la capacità di cogliere il senso, la vocazione persino delle cose. Il loro richiamo silenzioso. Sempre diverso, infinitamente sfumato. Cose che talvolta sono solo destinate a scomparire. Ce ne sono che chiedono una specifica cura, altre che vogliono essere spostate, altre che desiderano soltanto accogliere un oggetto a loro corrispondente, per albergarlo armoniosamente, come una tavola un vaso di fiori. Altre aspettano di morire ma talvolta, anche dopo la morte, come ci ha suggerito James Hillman, chiedono di restare per sim-boleggiare anche con la materia e con il sentimento di ciò che muore, con il decadimento, con la rovina. Occorre allenarsi al riconoscimento simbolico, una tipica attività immaginale, frutto di attenzione, di immaginazione, di cultura e soprattutto di sensi attivi e febbrili. Forse così potremmo ricominciare ad accorgerci delle nostra inedia simbolica, del nostro malessere profondo, che è anche e, ritengo, soprattutto, il tremendo effetto di questa anestesia, di questa noncuranza, di questa insensatezza del tutto che cresce, che cresce in assenza di ascolto e di immaginazione attiva, e che ci trascina inconsapevolmente con sé.

venerdì 8 giugno 2012

Fuoco e corpo immaginale


La pedagogia immaginale, così come ho cercato di formularla fin dall’inizio e poi via via con sempre maggiore profondità anche con il contributo di tutti coloro che l’hanno condivisa, non è fondamentalmente un’attività intellettuale. La ricerca immaginale è una ricerca percorsa con il cuore e con i sensi, con l’intuizione e con la passione, solo perifericamente è un atto intellettuale. I nostri autori (gli artisti) sono artefici di una conoscenza come “gnosi”, atto indiviso di apprensione del mondo nella sua integrità, che si realizza attraverso una ricettività globale. Il corpo è il ricettacolo ineludibile di ogni apprensione immaginativa e il tessuto emozionale, strettamente integrato al corpo, ne è la camera di risonanza primaria. E’ attraverso l’emozione corporea, anzitutto, che siamo colpiti e attraversati dall’immagine simbolica. La filosofia che si ispira all’immaginale, almeno nell’accezione in cui da anni mi propongo di diffonderla, non è la filosofia degli intellettuali, non è la filosofia teoretica né la filosofia degli asceti. Ho condiviso, fin da quando l’ho conosciuto, il punto di vista di Françoise Bonardel che contrappone proprio alla scissione inerente a tutti i saperi filosofici e disciplinari segnati dal primato del logos e dell’intelletto, una ricerca di tipo filosofale. Per noi i “filosofi” autentici sono i “figli d’Ermes” e, come per Artaud, l’alchimia è per noi un “combattimento per l’incarnazione” (Bonardel). La filosofia immaginale che pratico è dunque un’ esplorazione filosofale di una materia impura, quella dell’esperienza umana del mondo e dell’esperienza terrestre dell’uomo in costante simbolizzazione ma soprattutto un’educazione a farsi terrestri, radiosamente terrestri, a perfezionare ogni atto conoscitivo in esperienza integralmente vitale. Gli autori che gravitano in un simile travaglio di contaminazione, a gradi diversi di immersione nella pâte immaginale, sono molteplici, e vanno da Jung a Nietzsche, da Paracelso a Novalis, da Hillman e Durand a Deleuze, da Eraclito a Bachelard, da Rilke ad Artaud, da Corbin a Bousquet, da Caillois a Bonnefoy a Schérer. La nostra ricerca è stata fin dall’inizio immersione nella materia immaginale con la precisa consapevolezza che occorreva un’ accondiscendenza e una decostruzione di tutti i nostri apparati dottrinari e di tutti i nostri pregiudizi conoscitivi. Oggi ci rendiamo conto che il nostro apparato operativo, il nostro crogiolo, che chiamiamo “radura”, in onore ad una interpretazione radicale della nozione heideggeriana, è forse troppo statico e talora troppo freddo per accogliere l’incandescenza della materia immaginale in maniera omeopatica, come si conviene. Occorre dunque attivarlo maggiormente. Le nostre istruzioni restano valide, il nostro richiamo a non letteralizzare il cosmo immaginativo anche ma vogliamo aggiungere materia al fuoco. Da un fuoco di bagno vogliamo passare a un fuoco di fiamma, ad un fuoco più intenso. Occorre più calore corporeo, più preparazione all’incontro con le immagini, più conversione ad un attraversamento corporeo, carnale, da sperimentare attraverso il gesto, l’improvvisazione, la danza. All’immaginale si corrisponde con l’immaginale, cioè con un linguaggio che smarrisca quanto più è possibile le tracce di una razionalità diairetica e definitoria, di una cerebralità radicata in una tradizione che è in continuo movimento. Il linguaggio con cui aderire al mondo immaginale è sempre più quello del canto e della danza, del teatro e della poesia, di una “postura” filosofale sempre più aliena all’ipostatizzazione del concetto. Per questo introdurremo, dopo averle sperimentate e ponderate, progressivamente, nelle nostre sessioni di esercizio immaginale, pratiche di preparazione corporea, insieme a una elaborazione del vissuto corporeo dell’esperienza immaginale, ad un suo accompagnamento più caldo e ad una restituzione, in forme creatrici, delle risonanze e delle analogie attivate dall’incontro con la materia immaginale. L’esercizio immaginale non è un seminario di analisi critica o di analisi simbolica delle forme immaginali, è una passione partecipativa ad un mondo a sua volta vivente, di cui si tratta di abitare fino in fondo la carne incandescente.

sabato 2 giugno 2012

"ROSSO". La visione forgiata nell'officina di Mark Rothko.
 

Una volta l’arte era un’impresa solitaria: niente gallerie, niente collezionisti, niente critici, niente soldi. Non avevamo maestri. Non avevamo genitori. Eravamo soli. Eppure è stato un periodo d’oro perché non avevamo niente da perdere e tutta una visione da guadagnare. (Mark Rothko)
Le luci si abbassano, il buio immerge gli spettatori nel silenzio e nell’attesa, l’oscurità avvolge gli attori nella tensione di un’ansiosa aspettativa che si ripete e si rinnova ogni volta nel gioco di una rappresentazione. Il nero crea uno spazio e un tempo di sospensione che permette all’evento teatrale di germogliare. Poi lentamente l’incertezza tenebrosa si dirada circondando e custodendo la radura del palcoscenico da cui emergono due tele di grandi dimensioni. Un uomo le guarda. Dopo qualche istante entra in scena un giovane al quale l’artista chiede «Cosa vedi?» e lo esorta ad avvicinarsi all’opera, a lasciarsi abbracciare da essa, ad immergersi in essa, nella densità e nelle trame del colore. Così inizia lo spettacolo “Rosso” in scena fino al 3 giugno al Teatro Elfo Puccini di Milano. Così il pittore Mark Rothko invita il suo nuovo assistente e lo spettatore a partecipare con tutto il suo corpo, la sua mente e i suoi sensi nella sua opera, a lasciarsi avvolgere ed inglobare in essa, nella profondità superficiale di un rosso circondato, penetrato e sfumato dal nero.
Le opere di Rothko, Deep Red on Maroon e Mural for End Wall, divengono la guida di un percorso di sprofondamento dello sguardo, di dissoluzione di una visione giudicante che imprime sulle immagini valutazioni estetiche e moraleggianti, di abbandono di uno sguardo mercificante che si impossessa di quadri per definire,  nella società della “chiacchiera” e dell’apparenza, il proprio status sociale ed economico, di distruzione di una facoltà meramente creativa che si limita a produrre nuove forme della realtà dimenticandosi e abusando di essa. Le opere di Rothko costituiscono la premessa e il punto d’approdo dell’apprendistato del giovane che si fermerà per «due anni, cinque giorni alla settimana, otto ore al giorno» nello studio del pittore inondato di molteplici tonalità di rosso che macchia il pavimento, straborda dalle pentole e dai barattoli di tempera, cola dai pennelli, impregna i vestiti. E lo studio di Rothko diviene per l’allievo e per lo spettatore luogo dove sostare per discendere, rimanere per contemplare e lasciarsi intridere dal rosso.
Il rosso è vita, affermazione della vita nella chiara consapevolezza della morte. É inquietudine, caos e ordine, tensione e meditazione, rabbia e pacificazione, passione e dolore, luce e tenebra. È il colore denso e scuro del sangue che si rapprende e coagula nel biancore della neve nel flusso impetuoso di ricordi del giovane. E’ il rosso acceso e vivo che scorre dalle vene del pittore preannunciando il suo suicidio. È il tono amaranto che l’artista e il suo allievo dipingono in un corpo a corpo con l’opera. È il colore di un’operatività che rimanda metaforicamente all’alchimia che, come spiega lo stesso Rothko, è un continuo «farsi e disfarsi dal concreto all’astratto e di nuovo al concreto», in una processualità senza fine, in un continuo svolgersi oscillatorio di un processo di bilanciamento inarrestabile.
Lo spettacolo si conclude con l’artista che guarda la sua opera. É in piedi, vicino alla tela, col capo reclinato, in labile e instabile equilibrio sembra essere sul punto di immergersi nell'immagine, di dissolversi in essa, di rendersi invisibile dopo aver licenziato il suo assistente e dopo aver restituito le sue opere alla penombra, togliendole dalle sale del prestigioso ristorante Four Seasons di New York per cui erano state concepite.
E noi spettatori non possiamo far altro che uscire dalla sala attraverso l’opera stessa.