domenica 16 giugno 2013

Città e anima. Verso la bellezza lungo "Rotaie verdi".


Il mondo non chiede che si creda in esso; chiede che ci si accorga di esso, che lo si apprezzi, e che si abbia attenzione e cura(J. Hillman)
 
Nell’appassionato testo “La politica della bellezza” James Hillman mostra come la nostra condizione umana attuale sia caratterizzata da uno stato di anestesia, di “ottundimento psichico” nei confronti del mondo. La nostra cultura efficientistica e produttivistica, votata al gigantismo, a un “consumismo gargantuesco”, alla devastazione ambientale ha ottenebrato la nostra sensibilità, ci ha resi disinteressati e inconsci del mondo reprimendo la nostra capacità di dare una risposta estetica a ciò che ci circonda, di reagire al bello e al brutto, di partecipare attivamente all’anima mundi. “Passeggiare accanto a un edificio mal disegnato, vedersi servire del cibo preparato in modo sciatto e accettarlo, mettere sul proprio corpo una giacca tagliata e cucita male, per non parlare del non sentire gli uccelli, del non accorgersi del crepuscolo… tutto questo significa ignorare il mondo”.
Si fa urgente per Hillman la necessità di accorgerci e reagire all’assalto del brutto che si riflette sulla nostra anima personale, ci ingabbia in uno stato di “conformità ottundente”, di malessere e depressione rendendoci diligenti cavalli da tiro con i paraocchi che si affrettano e affaticano, giorno dopo giorno, come lavoratori e come consumatori. È necessario mettersi al servizio dell’inestinguibile desiderio di bellezza che ha l’anima, “quel sentimento di misura e armonia cosmica che accendono Eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni, non soltanto umane”. È necessario il coraggio del cuore di ognuno perché, per quanto semplice possa sembrare, la risposta personale ed estetica di ciascuno può andare ancora più in profondità di ogni protesta o campagna dettata da qualche ideologismo, delle manifestazioni oceaniche in piazza sui generi, sul razzismo, sull’ambientalismo.  
E secondo l’invito di Hillman di “partire proprio da dove si è”, nel cuore del caos, ho deciso in questo breve post di partire dalla città che da pochi giorni mi ha accolta tra i suoi cittadini, di partire dalle immagini di questo video che ci immergono in un’oasi tenace e spontanea nel cuore di Milano. Una natura ostinata e selvatica che si è ripresa una parte della metropoli arricchendo un terreno abbandonato a se stesso con pioppi, salici, canneti e decine di varietà di fiori che costituiscono l’habitat di numerose specie di uccelli. E sostando in questa natura miniaturizzata, in questa biosfera in miniatura vorrei raccontare di un progetto, di un piccolo atto di “protesta e di apprezzamento” che può aprire, a mio parere, delle brecce nella condizione di ottundimento che ci ha resi inconsapevoli e incuranti della sofferenza dell’anima del mondo.
Il progetto “Rotaie verdi”, che vede coinvolti in partnership la cooperativa Eliante, WWF Italia e il comune di Milano, si propone di creare un corridoio ecologico urbano lungo le linee ferroviarie, dismesse o in attività. A partire da esperienze già realizzate con successo in altre città come Parigi (Promenade planteé), Londra (Oasi urbane) e New York (The High Line) questa struttura si insinuerebbe nel tessuto urbano disseminando lungo i binari dei treni aree verdi, parchi non addomesticati dove una natura selvaggia, viva e ricca di biodiversità potrebbe non solo “fornire importanti servizi ambientali a livello locale, come la regolazione del microclima e il contenimento delle piante alloctone e dannose come l’Ambrosia”, ma potrebbe “salvaguardare il bisogno che ha l’anima di bellezza, e il soddisfacimento di questo bisogno da parte della natura”. Non credo si tratti di idealizzare ed evocare il ritorno a una natura selvaggia che, come suggerisce Hillman grazie a Jean-Jacques Rosseau ha allontanato il nostro cuore dalla città, ma di ripristinare l’ambiente naturale nell’urbano utilizzando mezzi tecnici come hanno fatto per secoli le arti, come il giardino giapponese che non è natura, ma è l’arte di imitare la natura. Biosfere in miniatura per tutta la città: “da una romantica e sublime immersione nella vastità, alla gioia che viene dal considerare il particolare”.
In una prospettiva di medio-lungo periodo il progetto prevede, inoltre, una riqualificazione architettonica sostenibile delle aree in abbandono, degli scali dismessi per creare centri di aggregazione per la cittadinanza. Luoghi d'incontro dove passeggiare, chiacchierare, sostare, dove sia possibile fare una pausa dalle incombenze e lotte quotidiane, dove sia possibile incontrarsi "ad altezza occhio"e in contatto con l'anima. Luoghi della e nella città dove portare il nostro corpo fisico, dove sia possibile ritrovare l'intimità e l'esigenza di stare insieme, di immaginare, parlare, fare, scambiare.
Per andare oltre la scissione tra natura e città, tra piacere e lavoro, tra città e anima e per risvegliare la bellezza "Rotaie verdi" si muove luongo i binari dell'anima, rivendica la necessità di una risposta estetica che "conduce all'azione politica, diventa azione politica, è azione politica".
Prendersi cura dell’anima della città, significa prendersi cura della nostra anima personale e dell’anima del mondo.
Un’ecologia che recuperi l’anima non ha luogo soltanto nella Sierra Nevada: noi recuperiamo l’anima quando recuperiamo la città nei nostri singoli cuori, il coraggio, l’immaginazione, e l’amore che portiamo alla civiltà.(J. Hillman)
 
Lo scalo di Porta Romana nelle prospettive del progetto




 


 

 

domenica 12 maggio 2013

Il corpo al centro del cerchio. La roda di capoeira.


 


Un cerchio disegna e delimita lo spazio, la musica scandisce il tempo, l’energia si irradia dai corpi e il gioco ha inizio. E’ la roda di capoeira, un cerchio di persone all’interno del quale si danza e si gioca capoeira.
Due giocatori si dispongono al centro del cerchio e si sfidano danzando una lotta che ha origini da  lontani rituali di alcune tribù dell’Africa centro-occidentale. I corpi sono vigili, attenti, attaccano e si difendono per dimostrare la propria superiorità senza l’intenzione di distruggere il rivale e nel rispetto dell’avversario, soprattutto quando questo non può difendersi. Si avvicinano e allontanano, avanzano e indietreggiano, si sfiorano, si provocano, si intrecciano sinuosi senza toccarsi come se “l’azione non terminasse lì dove il gesto si arresta nello spazio ma continuasse molto più avanti”. Compiono movimenti acrobatici, fluttuando nell’aria e mantenendo al contempo un contatto imprescindibile con la terra. E dal suolo, dal battito dei piedi si modella la forma del movimento, si irradia l’energia che come linfa vitale rende vivo l’intero corpo fino a confluire nelle braccia, nelle mani e nelle dita che nelle loro molteplici possibilità di articolazione esprimono mute l’intenzione di colpire, di difendersi, di ammaliare o ingannare l’avversario.
I corpi sono tesi nell’opposizione di forze e tensioni contrastanti che alterano il loro equilibrio rendendoli  “decisi”, sempre pronti ad agire, a spiccare il volo e “fortemente presenti”. E questa danza di opposizioni, come indica Eugenio Barba, viene danzata nel corpo prima che con il corpo e conferisce al capoeirista una qualità di presenza che colpisce e obbliga gli spettatori a guardarli. Per raggiungere questa qualità speciale di presenza è necessario un allenamento, una disciplina, una tecnica del corpo che permette di sviluppare una profonda consapevolezza e sapienza corporea per poi improvvisare, per agire e lasciarsi agire liberamente dal proprio corpo e dal corpo dell’altro in un intrecciarsi di movimenti e gesti che fanno sviluppare l’azione del gioco in maniera imprevista nello spazio normato della roda.
Nell’ambito di questa arte marziale, Mestre Bimba è stato il primo educatore di capoeira che, negli anni trenta del secolo scorso, ha creato la prima academia e ha istituito una preparazione basata sull’esercizio e sulla disciplina che non era finalizzata solo alla partecipazione alla roda ma comprendeva un progetto di formazione dell’uomo, un progetto di perfezionamento del corpo-mente per poter affrontare  l’avversario così come la vita.
La roda è uno spazio speciale, è un cerchio magico, una festa dove le persone si riuniscono solo per giocare, per danzare, senza uno scopo altro dal piacere che si vive nel momento presente. É una radura, uno spazio d’incontro, di attenzione, ascolto, cura e rispetto ma anche di astuzia, malizia, incantamento e sorpresa. Un luogo ambivalente dove si intrecciano inestricabili la collaborazione e la competizione, il corpo e la mente, la libertà e la regola, il divertimento e la serietà, le emozioni e la razionalità, la spontaneità e la finzione.
Spazio ludico e spazio educativo che fa risplendere il corpo nella sua integralità, lo mette al centro del cerchio dove si danza per lottare e si lotta per danzare, per rivendicare la presenza del corpo e del gioco dalla soppressione continua e incessante che avviene nei luoghi dell’educazione. E allora in ogni scuola, di ogni ordine e grado, si potrebbe e dovrebbe dedicare un tempo alla capoeira, così come alla danza, al teatro, alle arti marziali e circensi, a tutte quelle attività corporee che aprono alla possibilità di giocare il corpo e con il corpo, di sperimentare le istanze “pericolose e inaccettabili”, lo spirito bellico, aggressivo, la violenza, che ci sono necessariamente in ogni bambino, adolescente, ragazzo facendogli provare l’eccitante finzione di un battaglia in una “forma fittizia e artificiale, totalmente protetta”.
Ma credo che anche ogni educatore e insegnante dovrebbe dedicare il suo tempo di formazione alla scoperta e al perfezionamento del suo corpo-mente per prendere consapevolezza del suo esserci come presenza integrale, corporea e desiderante e per provare a mettere finalmente in discussione gli assiomi razionalizzanti e disciplinanti che ci muovono come marionette sulla scena formativa, legati ai fili di un sapere vetusto e incrollabile. 
 

 

 

domenica 10 febbraio 2013

Girovagando nello spazio immaginale di ogni stazione

Ogni stazione ha un suo odore, un sapore, una tonalità, una sonorità. Ogni stazione è un microcosmo guizzante, vibrante, libero nel suo respiro, brulicante di dettagli e attraversato da traiettorie curve, serpentiformi che vanno verso l’esterno per poi ritornare verso l’interno senza dirigersi mai verso una meta definitiva. E sostando in ogni stazione si affluisce nel sistema circolatorio della sua folla, si diventa anonimi e infinitesimi in quel tumulto, ci si perde con la miriade dei nostri simili, si precipita in quel vortice, “verso l’ignoto, verso il cielo di una qualche comunanza”.
La stazione è un luogo fluido, dinamico, instabile dove lo sguardo ha la possibilità di rallentare il suo movimento rapido trattenendosi concentrato sull’andare e venire delle persone, su un corpo in attesa impaziente, su un viso reclinato, su uno scambio di risate, sorrisi e bisbigli. Si può rimanere a lungo seduti in un angolo o girovagare tra la folla ascoltando, osservando e registrando, come gli angeli di Wenders, i pensieri, i ricordi, le emozioni, i progetti frantumati delle persone che attraversano quotidianamente e abitualmente una stazione o vi passano per un caso eccezionale.
Terra di nessuno e di ognuno, terra del tempo passato e presente, di storie individuali e della storia del mondo, di migliaia di pensieri, emozioni, corpi che si aggirano inquieti in uno spazio e in un tempo sospeso, si sfiorano, si incrociano guardandosi distrattamente oppure non alzano mai gli occhi per non correre il rischio di incrociare uno sguardo che potrebbe provocare un incontro, che talvolta avviene in una stazione.
Le stazioni sono luoghi liminali, di passaggio, di transizione, abitati da Ermes, il dio greco che sta sui confini, pone in comunicazione, sovraintende i legami, gli scambi. Le stazioni, nel film Tickets  del trio registico Olmi-Kiarostami-Loach, sono luoghi di incontro, abbandono e incompiutezza dove ha inizio una storia che si svolge lungo i binari di un viaggio in treno, e la stazione successiva diventa punto di partenza per un altro racconto in un tempo spiraliforme che lega e annoda, congiunge le trame di infinite e possibili storie.
Ermes, come indica Barioglio, è un “essere ambiguo e duplice, guida delle anime, ladro e furfante, messaggero degli dei, araldo di Zeus come di Ade, medium congiungendi tra cielo e terra, tra spirito e materia, tra interno ed esterno, corpo dell’uomo e corpo del mondo”. La presenza di Ermes si può allora avvertire obliqua e ispiratrice nello spazio immaginale di ogni stazione posta sul confine tra presenza e assenza, attesa e compimento, superficie e profondità, realtà e immaginazione, interno e esterno.
La stazione è un luogo ambiguo e ambivalente che mostra e nasconde nella penombra dei suoi sotterranei e dei suoi tunnel le persone marginali e emarginate, gli invisibili ignorati dal mondo, esibisce artisti e musicisti, pazzi e folli, anime nomadi e precarie che trovano ai suoi bordi una sistemazione provvisoria. È un territorio di caccia, di questua o di sopravvivenza per mendicanti e borseggiatori che si aggirano fragili, furtivi e coraggiosi nel suo sottosuolo.
Nelle stazioni il tempo è sospeso, si interrompe il fluire produttivo e finalistico della vita, abbiamo la possibilità di sostare in un presente tranquillo, di vivere l’intensità emotiva di un momento di attesa, di partenza o di ritorno guidati più dai sogni e dalle fantasie che da una progettazione razionale del futuro. Oscilliamo in quell’attimo di sospensione, di vuoto, di equilibrio labile, di immobilità dinamica in cui si sta per fare qualcosa, in cui forse prenderemo, uscendo dalla stazione, una nuova e insolita direzione o, forse, ci ritufferemo a capofitto nella folle corsa contro il tempo delle nostre città, della nostra società prostrata alla deità del trinomio di progresso, crescita e innovazione. Anche le stazioni sono diventate sempre più automatizzate, i bigliettai stanno sparendo sostituiti da macchine mute e siamo costretti inermi alla tortura di assordanti e accecanti video pubblicitari. Ma nonostante questa infausta tecnologizzazione certe stazioni rimangono, concordando con Marc Augè, dei luoghi densamente popolati e animati di ricordi, abitudini, incontri, volti sconosciuti e familiari dove è possibile intrattenere con lo spazio “una sorta di intimità corporea misurabile nel ritmo della discesa nella rampa di scale, nella precisione del gesto con cui si introduce il biglietto nella fessura del portello di accesso o nell’accelerazione del passo quando si indovina dal rumore l’arrivo del treno sul bordo del binario”.
E come per tutti i viaggiatori arriva il momento di partire: si passa il tornello, ci si avvicina al binario e sul bordo della banchina non si resiste alla tentazione di tendere la testa per “cercare di scorgere, nella profondità del tunnel, lo strano movimento di tenebre e luci che annuncia l’imminente apparizione del treno” e un nuovo viaggio verso l’ignoto.
 
 
 
 

mercoledì 2 gennaio 2013


Quando il corpo viene “obbligato” a muoversi. Pratiche corporee e dimensione immaginale nel tempo concentrato e prezioso di un laboratorio.
 

«Ho vissuto il corpo come limite, confine, cambiamento, protezione, separazione e connessione tra me, gli altri ed il mondo. É stato un po’ come riappropriarsi del proprio corpo, prestare attenzione a quanto di solito è invece dato per scontato e normale, tanto da non ascoltarlo più (respiro, battito cardiaco, vibrazione tra addome e colonna vertebrale determinata dall’emissione sonora, per esempio), per riprenderne coscienza come parte che mi appartiene o su cui posso agire, che posso anche attivare in modo “nuovo”, “diverso” dall’abituale e inconsapevole».

Così una studentessa del terzo anno di Scienze dell’Educazione restituisce il percorso di due giornate laboratoriali  in cui viene chiesto di mettere in gioco il corpo, le emozioni, di lasciare la mente “navigare come le nuvole” per provare ad avviare una riflessione rispetto alla dimensione corporea in educazione, al proprio esserci come corpi sulla scena formativa. Giunti quasi al termine del loro percorso universitario gli studenti sono “obbligati” (i Laboratori di Didattica delle Attività motorie prevedono una frequenza obbligatoria) ad indossare un abbigliamento comodo e a recarsi nell’unico e trascurato laboratorio motorio dell’università o in un’ampia sala di una scuola teatrale. E lo spazio vuoto, senza banchi inchiodati ai pavimenti e una cattedra dietro la quale si esibisce e si nasconde il docente li imbarazza, li disorienta, entrano timorosi, incerti se togliersi le scarpe e quando seduti in cerchio condividono le loro aspettative rispetto a ciò che sta per succedere si rassicurano vicendevolmente, certi che la maggior parte di loro vorrebbe non assistere a una lezione frontale e al contempo non vorrebbe esibirsi, giocare, danzare, fare teatro, mettere in gioco il corpo. Dopo aver riposto letteralmente e metaforicamente in una valigia le aspettative, i pre-giudizi, le pre-comprensioni  i corpi iniziano a muoversi  in un tempo e in uno spazio speciali, inconsueti, intensi e preziosi. Uno spazio di quiete che lascia ad ognuno il tempo di incontrarsi, mostrarsi, ascoltare e ascoltarsi, agire e lasciarsi agire. Un tempo di riposo in cui ci si ferma per godere senza fretta il piacere di auscultarsi, di percepire il proprio respiro, il battito del cuore, le emozioni che provengono da un gesto, da un contatto, da uno sguardo. Un tempo di riflessività in cui, in gruppo, si lasciano fluire, condensare e poi di nuovo fluire le molteplici significazioni possibili che l’ambiguità e l’ambivalenza del corpo lasciano emergere. Si condivide il sentire del corpo, non con un obiettivo intimistico e psicologizzante, ma per comprendere il suo esserci e stare nella relazione educativa, per percepire quella “qualità di presenza particolare, viva e autentica” sulla scena formativa. Per questo vengono proposti dei giochi e degli esercizi che provengono dall’ambito teatrale, che non hanno alcuno scopo di carattere performativo, ma provano ad avviare una riflessione rispetto ad alcune dinamiche educative a partire dal vissuto del corpo in un intreccio inestricabile e proficuo tra prassi e teoria. Senza la pretesa e la supponenza di scoprire un’unica e prescrittiva modalità di “esserci”, per ognuno si apre la possibilità di interrogarsi rispetto alla propria ed unica presenza corporea, a come ogni corpo si presenta, si mostra e si nasconde al mondo, come guarda e si lascia guardare, come i gesti degli altri agiscono su se stessi, “espressivi tanto quanto la parola, modulabili in ampiezza al pari del timbro della voce, capaci di accogliere ed includere, come pure di rifiutare ed allontanare”.
E al termine del primo incontro si lascia parlare il corpo che restituisce attraverso diverse modalità espressive la propria idea di educazione per provare ad acquisire consapevolezza delle immagini, dei saperi, delle emozioni, dei vissuti che orientano e determinano la propria presenza di educatori, per non lasciarsi agire inconsapevolmente da esse ma per agirle criticamente. Dopo questa prima parte che può essere considerata come una “pars destruens” viene proposta ai ragazzi una “parte costruttiva” per provare ad arricchire il loro sguardo sul corpo in educazione. Gli studenti vengono invitati e accompagnati ad entrare in contatto con il corpo di alcune immagini pittoriche particolarmente significative rispetto alla presenza del corpo nei contesti educativi. Dopo un momento di visione, meditazione e circolazione delle molteplici vie di significazione che le opere indicano i ragazzi provano a restituire una visione rinnovata e approfondita dell’opera d’arte lasciandosi parlare dal corpo. Alcune volte si limitano a una drammatizzazione o a una narrazione dei significati incontrati nel contatto con l’opera, ma capita anche che la restituzione corporea, attraverso un gesto, un suono, un urlo o un silenzio  riesca a condensare e a far risuonare il mondo immaginale dell’opera. E questo richiede un continuo, paziente e arduo esercizio di movimento, di spoliazione, di pulizia, di poetica del gesto e del corpo per ritrovare, come suggerisce Francesca Antonacci, “le risorse e le potenzialità simboliche e materiali del suo linguaggio cinestesico”. Per questo è necessario continuare ad “obbligare” il corpo a muoversi in un tempo dilatato e prezioso che non si limiti ad un breve laboratorio.
 

lunedì 27 agosto 2012

"Angeli dormienti" tra cielo e terra

 
“Music  is well said to be the speech of angels; in fact, nothing among the utterances allowed to man is felt to be so divine. It bring us near to the infinite”.
 


La musica ci trasporta in una dimensione altra, apre uno spazio fluttuante e ondeggiante, propizia l’ingresso in un presente sonoro prezioso e concentrato, ci avvolge e abbraccia nella sua materia liquida, sonora e graffiante facendoci entrare in un altro ordine del vedere e dell’ascoltare, “una sorta di percezione precategoriale, una visione preverbale”, presignificante. Il suono, scrive Nancy, proviene e si dilata, trascina via la forma. “Non la dissolve, piuttosto l’allarga, le dà un’ampiezza, uno spessore e una vibrazione o un’ondulazione al cui disegno non fa che approssimarsi di continuo”.
La musica ci immerge nell’ascolto delle immagini sonore e visive del video del gruppo islandese dei Sigur Rós. Una musica ancestrale che sembra provenire da un altrove e ci situa in un altrove incantato e sospeso, ci invita, con i suoi vocalizzi distillati e reiterati, a rallentare e ad entrare nell’ascolto per cogliere il risuonare delle cose e dei corpi tra loro, “prima e al di qua dei nostri schemi categoriali e percettologici”. È una musica priva di significato, un linguaggio (vonlenska in islandese) inventato dal cantante e chitarrista del gruppo, fatto di vocalizzi improvvisati, femminei e acuti, espressione di ciò che rimane d’ineffabile di un discorso concettuale. Forse, per questo, all’inizio del video si dice che la musica sia il linguaggio degli angeli: per la sua capacità di approssimarci al divino, all’infinto, a quella dimensione sognante e misteriosa, eterea e terrestre, dolce e impetuosa descritta dai suoni e dalle immagini di “Angeli dormienti”.
Immagini poetiche danzate da creature angeliche, corpi intermedi e intermediari come forse sono i corpi disabili che albergano in una dimensione altra, tra realtà e irrealtà, consapevolezza e inconsapevolezza, in uno spazio misterico in cui si incontrano la vita e la morte, il dolore, il male, la fragilità, la nostra debolezza costitutiva. I loro gesti e i loro sguardi inattesi, concentrati e presenti nell’azione che stanno compiendo è come se mettessero in scacco il sapere, il nostro fare affrettato e risolutivo, le nostre pretese direttive, ci spiazzano, non abbiamo ben chiaro come muoverci, come rispondere, che fare. Forse non possiamo far altro che rallentare, lasciarci condurre da queste guide alate e terrene nel “paesaggio sognante” delle immagini visive e sonore del video e provare a danzare e lasciarci danzare dai suoni, dai corpi e dalle parole in un continuo movimento oscillatorio tra alto e basso, tra terra e cielo.
Il suolo verde e sconfinato sembra rappresentare il radicamento che il corpo mantiene con la terra e a questa concentrazione al suolo risponde, per contro, un’espansione verso l’alto. L’altezza è “messa in evidenza” da uno sfondo bianco e abbacinante da cui sembrano provenire e a cui sembrano ritornare gli angeli, e al contempo è “messa in risonanza” dai suoni, dalla voce, dai gesti e dagli sguardi diretti verso l’alto degli attori. In questo presente sonoro lieve e stridente, creato dalla musica, i corpi giocano, si rincorrono, sembrano essere sul punto di spiccare il volo, si muovono leggeri e leggiadri sulla terra, accarezzano l’aria, si cercano, si abbracciano. E immediatamente dopo l’unione in un atteso e prolungato bacio, avviene la caduta di un angelo a terra. Tutte le creature alate si dispongono in cerchio intorno a quel corpo e inizia una sorta di rituale presieduto da suoni cupi, una voce altisonante e l’arrivo di un uomo vestito di blu, uno stregone, forse uno sciamano, uno psicopompo che presidia la trasformazione dell’angelo nel corpo giallo, luminoso di una nuova creatura. Creatura ambigua, umana, animale o forse vegetale, con una grande spirale disegnata sul petto: simbolo che lega, annoda, congiunge gli opposti, rinvia alla possibilità di una ricongiunzione tra soggetto e oggetto, tra uomo e mondo. Intorno a questa creatura aurea gli angeli iniziano a danzare e volteggiare per poi trovare riposo nella terra. E tenendo lo sguardo rivolto alla terra l’immagine e i suoni si innalzano di nuovo verso l’alto, evocando la presenza di un cielo necessario.
Qui la musica si rende silenziosa e le parole tornano a impastarsi con la materia sonora e visiva per nuovi possibili affioramenti nel paziente e faticoso esercizio di ascolto e restituzione della sonorità delle immagini.
“We haven’t found the words to describe our music. Maybe we will one day. Thanks”. Sigur Rós.

giovedì 26 luglio 2012

Cezanne: Estetica dell'informe come verità in pittura


Cosa ci mostra Cezanne dunque nelle sue S.Victoire? Nelle ultime in particolare? Che significa l’espressione “verità in pittura”, che egli voleva “dare”, da lui pronunciata (e mi si perdoni se qui non seguo per nulla Derrida)? Anzitutto vediamo il cedimento di una pellicola, la pellicola della nostra illusione costruttiva, l’illusione della presenza, della presa sul mondo. Lì si scompagina l’abbaglio del possesso. Noi non dominiamo più nulla non appena abbandoniamo l’illusione di una vista, quella vista che riteniamo tanto affidabile, che poggia integralmente sulla parola. Ha ragione Lacan, è la parola che precede la visione, o meglio che la istituisce nella sua “forma”. Noi vediamo quello che crediamo di vedere, case, campi, alberi, cielo, terra, solo perché ne possediamo i lemmi, le parole. In assenza di essi quel sipario sottile cede e appare il “reale”, cioè la materia, la materia che resiste alla simbolizzazione, nella sua proliferazione incontenibile e minacciosa. O, per dirla in altri termini, in luogo della forma riconoscibile ecco manifestarsi, magmatico e in continua fluidificazione, o, se si preferisce, in perpetua metamorfosi, l’informe. Penetriamo o cadiamo, sarebbe forse meglio dire, in un altro ordine del vedere, una sorta di percezione precategoriale, una visione preverbale. Cezanne lentamente arriva a produrre una lacerazione nel tessuto della forma del reale, arretrando o penetrando oltre, a seconda di come si voglia intendere questo movimento. In parte è entrambe le cose, penetra oltre perché la sua è un’avventura dell’intenzione, anche, ma di un’intenzione che sa come cedere alla pretesa di trattenere, di contenere. Un’azione passiva dunque, un accesso retrocedente che si rivela una vera e propria resa al dominio della materia, al suo manifestarsi “reale”. Manifestarsi visivo ora rappresentato, e dunque attingibile, sebbene secondo un processo di decostruzione della percezione che è accondiscendenza alla emergenza di una terra che non è già più mondo (per dirla con Heidegger). E’ pre-mondo, e sempre più pre-mondo. E’ una “pâte”, per usare un termine bachelardiano, in quanto indica proprio il nucleo dell’immaginazione materiale, l’immaginazione che vede in assenza di forma, l’immaginazione dell’informe, dell’elementare. Ecco allora questo e-venire della verità in pittura. Lì la visione si fa ricettacolo dell’evento di un premondo informe, quello che ci accomuna alla materia ben prima che il linguaggio ci situi di fronte ad esso, in posizione di nominatori e di padroni. Quindi: non poetica della dissomiglianza (questo sarà affare dei surrealisti o dei simbolisti, dei cubisti o degli espressionisti), che è una poetica dell’intenzione, per quanto modulata attraverso sistemi di percezione-espressione di volta in volta differenti, ma poetica dell’accondiscendenza, opera di ricezione e di cedimento della struttura del vedere, poetica immaginale primaria, elementare, capace di rifondare un legame matriciale alla tessitura terrestre.
Si tratta di una emergenza prepotente del sensibile. L’opera di preconoscenza o surconoscenza di Cezanne è un’acutizzazione del sensibile. Il suo puntare l’invisibile, che in questa formula poteva generare equivoci, indica, al contrario di ogni filosofema sublimante, l’idea che c’è un sensibile che richiede un esercizio di attenzione ipersofisticato, un sensibile amplificato che è il prodotto dell’osservazione tenuta e durata della cosa. Osservazione che arriva al limite di far cedere il suo apparato di cattura del visibile nelle maglie del linguaggio. E’ questa l’autentica opera immaginale? Ne conseguirebbe che l’esercizio immaginale autentico non è per nulla l’allenamento di una facoltà sovrasensibile ma l’incremento di una percezione sensibile consuetudinariamente anestetizzata e talora addirittura interdetta (dall’abbreviazione del riconoscimento verbale). Ecco quindi affacciarsi un ulteriore problema (eventuale): come tradurre in linguaggio questo affioramento? Come “tradurlo” di nuovo in parole che non lo rimettano nel posto da dove si era tolto per lasciare respirare la materia? Posto che si voglia superare la soglia della visione muta, iniziatica e carnale di un tale incontro, occorrerà un linguaggio che sia in grado di dire altrimenti l’affioramento di questo sensibile negletto: una lingua lenta, densa, adesiva all’evento incatturabile specifico. Una sorta di lingua poietica, addirittura gliscromorfa, tenacemente vischiosa. Una lingua che faccia l’amore con la visione, che s’intrida della sua tessitura, non solo nel produrre uno sforzo di nominazione referenziale di un visibile che inevitabilmente è privo di nome proprio e che richiede quindi la poiesi di una nominazione obliqua, metaforica, la produzione di invenzioni figurali. Ma anche nel superamento di una grammatica che potrebbe rischiare di fissare la fluidità propria ad una fenomenologia magmatica. Dunque una grammatica in cui diradi la punteggiatura, che trasgredisca le consegne di un periodare regolato e, assecondando le fratture e gli inghiottimenti dell’informe, se ne faccia ecfrasi materica, al limite della glossolalia.

sabato 21 luglio 2012

L'anestesia simbolica


Siamo tutti ottusi, anestetizzati, impermeabili. Non è soltanto l’essere parlati, agiti da un ça interno. Qui è proprio questione di sensi, di qualcosa che anzi definirei più precisamente sensibilità immaginativa. O immaginazione sensibile. Di tale facoltà preziosissima siamo ormai tutti manchi. Con conseguenze spaventose. Non si tratta soltanto di qualcosa che in un più o meno probabile tempo passato esisteva in forma più diffusa. Sì’, certo, in una qual misura. Voglio dire: in un mondo più piccolo, più delimitato, più prossimo, sentirsi accasati con il proprio intorno era certamente cosa comune. Dove sentirsi accasati significa appunto saper riconoscere ciò che si ha intorno, spesso sapere l’esatta provenienza, conoscere la materia, saperla distinguere, tanto più in quanto spesso quell’intorno era stato concretamente fatto da chi lo viveva. Insomma, la sedia, il tavolo, persino i vestiti. Per non parlare di cibi, spesso maturati nei campi e negli orti conosciuti e percorsi continuamente. O gli animali, le uova, quel coniglio alimentato giorno dopo giorno fino alla sua immolazione. Le persone confidavano nelle cose sapendole. Sapendole a fondo, e sapendone anche gli usi, sapendo che quel legno brucia meglio, quell’altro fa fumo, quell’altro scoppietta troppo. O che una bara va fatta con l’olmo, anche simbolicamente. E così via. Anche il linguaggio, magari povero, ristretto, ma era perlopiù fatto di parole note, quelle dialettali, gonfie di materia, di vissuti, di un sapere cresciuto nella matassa carnale di una società pienamente conosciuta. Il che non significa che quel mondo vada guardato con nostalgìa, o per lo meno non con troppa nostalgìa, per le tante e fin troppe ragioni, certo giuste ragioni, che qui ora sarebbe noioso rievocare. Però quella sensibilità, quell’abbozzo di sensibilità simbolica, che conosceva il mondo e vi leggeva messaggi, armonie, quella percezione attenta, di essa un po’ di nostalgia mi sentirei, anche un po’ audacemente, di provarla. Diciamo, con il vecchio Heidegger, che ancora il mondo abitava la terra. Oggi non sappiamo nulla, per converso. Non sappiamo nulla delle cose che abbiamo intorno, non sappiamo da dove venga e cosa sia, letteralmente, ciò che sostiene i nostri deretani per ore e ore, sulle nostre poltrone sintetiche o sui nostri sedili in automobile. Non sappiamo cosa maneggiamo, cosa mangiamo (figuriamoci!), cosa usiamo. Ma non solo non lo sappiamo, neppure ci importa. Viviamo in uno stato di totale anestesia. Non importa la materia di ciò che riempie le nostre vite e ovviamente men che meno può importare il suo significato. Perché, si badi bene, tutto porta con sé un significato, magari all’osso, ma un significato ce l’ha. Se una poltrona è di pelle vera o finta, se è di materiale plastico o di acciaio e gomma, dice qualcosa di diverso rispetto al suo valore, al suo senso, al suo destino e al nostro che l’abbiamo scelta, collocata in un certo punto del nostro habitat, che confidiamo nella sua capacità di sostegno e di conforto magari per un tempo molto lungo. E così per ogni cosa, letteralmente ogni cosa. Occorre lanciare un segnale d’allarme per l’ingresso e la manipolazione continua di oggetti di cui non interroghiamo più né la materialità, per saperla, per distinguerne la congruenza, la finalità, o la forma, per eleggerne la bellezza, la piacevolezza al tatto, al contatto, nell’indossarla, nel maneggiarla, nel riposarci sopra. Figuriamoci se poi ne interroghiamo il senso, il significato simbolico. Eppure ogni cosa parla, talvolta anzi grida. Guardiamo, notiamo. Le case, gli edifici, le strade, le metropolitane, i telefoni, gli schermi, e poi i tessuti, le gomme in cui avvolgiamo i nostri piedi, le plastiche in cui infiliamo i nostri cibi. Non sono solo oggetti, sono segni che comunicano, che, per essere più espliciti, sim-boleggiano. Ogni cosa sim-boleggia. Nel mondo che oggi noi frequentiamo questo sim-boleggiare delle cose è sempre più spesso malinconico, sofferente, povero, devastato. Sorge imperiosa la necessità di ritrovare una sensibilità perduta che aiuti a percepire, ad avvertire, a sentire la pasta delle cose, ma anche a decifrarne il linguaggio simbolico. Avere nella propria casa una poltrona Bauhaus non è soltanto un segno di distinzione, è un gesto simbolico preciso, è un riferimento a una cultura della forma e dei materiali, è un gesto che contiene, anche se spesso in maniera opaca e attutita, un significato persino politico. Ma soprattutto è un messaggio al corpo, allo sguardo, al gusto. E’ uno status-symbol e da esso emana anche un certo snobismo ma è comunque un segno forte. Non lo è di meno una poltrona di pelle gonfia e morbida, una poltrona di famiglia usata e rifoderata innumerevoli volte. Quella poltrona è un oggetto ricco d’anima, una presenza, intrisa del calore, della carne, del ricordo di tutti coloro che l’hanno “abitata”. Ma le cose, in più, sono fatte di materiali, ciascuno dei quali emerge da una storia, che non è solo geologica o produttiva, è anche simbolica. Il ferro è diverso dal legno, e il legno di quercia è diverso dal mogano. L’acciaio satinato è diverso dal ferro smaltato e così via. Ciascuno di essi apre un mondo, un mondo di percezioni ma anche di significati. Guardiamo le case che crescono intorno a noi, guardiamo come sim-boleggiano tra loro, guardiamo i materiali di cui le cose sono fatte. Guardiamo noi stessi, i nostri vestiti. Prendiamo le scarpe da ginnastica, autentiche padrone, oggi, dei nostri piedi. Di cosa sono fatte? Ma soprattutto, che cosa esprimono? Di cosa parlano? Di comodità, di comfort soltanto, come suggeriscono i promotori della loro vendita? Oppure esprimono anche un’ideologia, quella che sostituisce la bellezza con la funzione, che fa della funzione una nuova forma di bellezza? Oppure promuovono anche un fare, quello in sintonìa con la richiesta di velocità, che richiede scarpe che permettano, anzi stimolino la camminata veloce. Scarpe che altresì esprimono il desiderio di correre, oppure di stare aderenti al suolo, scarpe che livellano anche, che omogeneizzano. Sono scarpe androgine, che annullano la differenza sessuale, la deprimono, la sfumano. Sono scarpe senza odore ma che producono cattivo odore. Sono scarpe che simboleggiano ormai da decenni, grazie al trionfo di certi marchi, con il mondo anglosassone, che ne esprimono lo spirito, frettoloso, funzionalista, produttivo, del tutto informale, pragmatico. Ma osserviamo ora il nostro linguaggio, grande indicatore della nostra anestesia dal significato. Come parliamo, quali parole usiamo, o meglio, da quali parole siamo usati? Che cosa simboleggiano queste parole? Le parole del professionista, le parole usa e getta, gli abbreviativi, le locuzioni strappate alla lingua dell’economia, o della psicologia, o del giornalismo, con le sue spaventose metafore morte, un “bagno di sangue”, ha “aperto il fuoco”, il “branco”, oppure ancora l’infausta genìa delle parole anglosassoni. Cosa simboleggiano, cosa esprimono? Occorre curiosità simbolica, per i dettagli, per le sfumature. Moltissimi degli aspetti della nostra vita, raccontano infinite cose. Un libro incollato con la colla, anziché rilegato, con una copertina bianca e nuda, oppure con una copertina colorata o arricchito dalla presenza di illustrazioni, di immagini. Il suo formato, i suoi caratteri, le loro dimensioni, i capoversi, le note, che ci siano o non ci siano. Non sono solo fatti letterali, sono messaggi, indicazioni sul senso, sempre che siano il frutto di una scelta. Ma anche se il senso non fosse intenzionale, vi sarebbe comunque, sarebbe un senso inconsapevole, come è spesso sempre di più, perché l’analfabetismo simbolico genera oggetti ignoranti, incapaci di chiedersi che cosa vogliono dire, esprimere, simboleggiare. Paragoniamo una vecchia madia con una moderna, dell’Ikea. Guardiamo i materiali della vecchia madia, guardiamo le rifiniture, guardiamo se c’è qualche intarsio, qualche decorazione, qualche rilievo, chiediamoci a cosa risponde. Guardiamo la rifinitura dei mobili in serie, assaporiamo i materiali, tastiamoli, non c’è vita lì, non c’è odore, non c’è intensità, storia, radice. Solo una pallida imitazione, una sconfortante eco, un vuoto ritornello. Il mondo è tutto insieme un incredibile concerto di significanti, spesso di richiami dolorosi, specie oggi, ma noi vi transitiamo inconsci, inebetiti, anzi volutamente insensibili. Forse proprio perché se ci fermassimo ad ascoltarlo, il messaggio simbolico del mondo, strettamente collegato da fili simbolici con la nostra interiorità, sentiremmo tutta la disperazione che proviene da un organismo sempre meno curato, armonico, sim-boleggiante. Un paesaggio incongruo, mostruoso, dissestato e pericolante. Un paesaggio che simboleggia le sue dissonanze e le sue lacerazioni in assenza di riconoscimento. Ecco allora la necessità di ripristinare la nostra curiosità e sensibilità simbolica, la capacità di cogliere il senso, la vocazione persino delle cose. Il loro richiamo silenzioso. Sempre diverso, infinitamente sfumato. Cose che talvolta sono solo destinate a scomparire. Ce ne sono che chiedono una specifica cura, altre che vogliono essere spostate, altre che desiderano soltanto accogliere un oggetto a loro corrispondente, per albergarlo armoniosamente, come una tavola un vaso di fiori. Altre aspettano di morire ma talvolta, anche dopo la morte, come ci ha suggerito James Hillman, chiedono di restare per sim-boleggiare anche con la materia e con il sentimento di ciò che muore, con il decadimento, con la rovina. Occorre allenarsi al riconoscimento simbolico, una tipica attività immaginale, frutto di attenzione, di immaginazione, di cultura e soprattutto di sensi attivi e febbrili. Forse così potremmo ricominciare ad accorgerci delle nostra inedia simbolica, del nostro malessere profondo, che è anche e, ritengo, soprattutto, il tremendo effetto di questa anestesia, di questa noncuranza, di questa insensatezza del tutto che cresce, che cresce in assenza di ascolto e di immaginazione attiva, e che ci trascina inconsapevolmente con sé.