giovedì 6 gennaio 2011

Jung, il rosso


Eccolo l’oggetto scomparso e resuscitato. Il “sancta sanctorum” disseppellito che custodisce il “segreto”. Massiccio, “prezioso”, come il contenitore che Jung prescriveva di adottare per iscrivervi l’annotazione diuturna delle proprie fantasie ai suoi pazienti più cari, intrattabile.
Un volume che ti fissa e ti inghiotte, nella sua proliferante densità e nella sua fascinosa “inattualità”. Che chiede spazio, e tempo, come ha sovente dichiarato l’unico che davvero lo conosca a fondo, per ora, il suo traduttore, curatore, commentatore e chiosatore, Sonu Shamdasani. Il tempo di accoglierlo, con l’imbarazzo, anche fisico, che somministra a chi lo incontri, per destino o per scelta, il tempo di addentrarvici, come ci si addentra in una fitta e oscura foresta, per quanto dotata di segnali e indicazioni orientative, il tempo di sostare nei trivi più intricati e nelle radure improvvise che offrono agio alla meditazione, il tempo di immedesimarsi con l’opera di un gigante, gigante ben noto e tanto più temuto, remoto e ostracizzato proprio per la ubris e per la imponenza delle sue imprese.
Un testo miniato, come nella tradizione medievale cui l’autore affermò di volersi ispirare, per immergersi in quel medioevo psichico e spirituale di cui avvertiva il profondo bisogno, un testo scolpito e dipinto, cifrato e istoriato, un testo dai mille volti e dalle molteplici vie di approccio e di smarrimento.
Una fantasmagoria mitico-religiosa al tempo stesso critica e rifondativa, unione impressionante di una nékuia patita fino allo spasimo e di una tensione ermeneutica infaticabile e ostinatissima. Successione di registri stilistici eterogenei ma mai casuali, dal narrativo al poetico al profetico, con l’intermittenza incandescente delle immagini, formidabili exempla al confine di ogni linguaggio della raffigurazione, capaci di congiungere, con una strabiliante erudizione iconografica, le visioni di Blake, il simbolismo di Redon, il Dadà, i mosaici ravennati e bizantini, il simbolismo celtico, la pittura di sabbia navajo e le maschere di giada azteche. Il tutto per addensare, in una stratificazione prodigiosa, i molteplici livelli di un viaggio agli inferi che è una compiuta trasmutazione alchemica, una lunga e ripetuta nigredo, un’iterata, ardua, sofferta liberazione al calor bianco in vista di una impossibile rubedo. Perché uno degli aspetti più traumatici e sorprendenti di questa lettura, di questa immersione visionaria, è la ripetuta, continua, reversione che il “pellegrino” dai capelli dalla foggia di paggio deve subire da tutti i suoi interlocutori -“personificazioni” figurali di un poliverso archetipico-, verso l’abisso del negativo. Jung è costretto, nel suo “confronto con l’inconscio”, ripetutamente e implacabilmente, a ridiscendere nella “selva oscura”, a imbattersi nello sgradevole, nel dannato, nel ripugnante, nell’orrido e nell’abissale, non solo come termini di passaggio in direzione di un’emancipazione definitiva, ma come elementi di cui introiettare progressivamente l’irriducibile necessità, la stabile e omeopatica presenza nell’esperienza psicospirituale.
Il male dunque necessario in una impareggiabile e scenografica prova di “dialettica negativa” che il propugnatore dell’individuazione come “cerca” del centro sembra almeno qui non poter elaborare diversamente e comunque non senza tragiche lacerazioni. Questo fatto, nella concreta e raffinatissima emergenza di episodi dalla crudezza abbagliante e rivoltante, come quando la personificazione velata di Anima lo costringe a strappare e a cibarsi del fegato di una giovinetta straziata e uccisa, è certo uno degli elementi più inattesi e folgoranti dell’opera. Qui Jung rivela veramente l’ “Ombra”, si manifesta come il profeta oscuro, Jung il rosso, avrebbe detto Thomas Mann, iscrivendolo nella genealogia di Ismaele ed Esaù.
“Costellare la follia, la morte, il maligno” potrebbe suonare la sintesi di un percorso al termine della notte di questo Jung “nel mezzo del cammin” (tra il 1913 e il 1930), sprofondato nelle sue fantasie inconsce. Un inconscio, si badi bene, elaborato, decantato, domato dalla comprensione ermeneutica, ma floridamente esposto in figure e personaggi, -da Elia a Filemone- indimenticabili e dotate di una saggezza cupa e inflessibile.
Un grande affresco di riforma religiosa anche, oltre ogni confessione, teosofico e politeistico, all’insegna di una “gnosi” mai potente come qui, capace di convocare Silesio e Maister Eckhart, ma anche e soprattutto Nietzsche, per dialogare con essi e per negare la morte di Dio, o meglio per eufemizzarla. Operazione che Jung prescrive al divino stesso, in un paragrafo formidabile, dove aiuta il dio ferito, Izdubar (Gilgamesh), ferito dalla secolarizzazione e dalla ragione scientifica, a rinascere sotto forma di immagine, di evento eminentemente psichico e simbolico. “Fatti immagine”, dice al dio malato, che non senza disappunto infine acconsente, accedendo così al proprio risanamento e facendosi a tal punto piccolo da poter essere racchiuso nell’uovo (immaginale) della resurrezione.
Il sacro si fa psiche senza perdere nulla della sua trascendenza, della sua iconica e policentrica plasticità, della sua costitutiva inaccessibilità, dal momento che il suo raggiungimento presuppone l’infernale e interminabile travaglio del negativo e il balenare del fanciullo divino solo per attimi e per frammenti.
Eccolo dunque il Libro rosso, il “Liber Novus”: esercizio d’anima, esempio fortunatamente incompiuto di conoscenza come “gnosi”, senza cesure tra inferiore e superiore, tra intelletto e immagine, monumento di conoscenza contraddittoriale, “dissolutio” dell’ego in Anima, in una miscela mai risolta di zolfo e mercurio, itinerario di trasmutazione che rivela di Jung la petizione non più disconoscibile ad una epistemologia irrazionale di cui allora Hillman risulterebbe davvero il più fedele “traditore”, il prosecutore del viaggio immaginale decisivo e necessario. Quel libro giudicato dallo stesso Jung così centrale, il “reattore nucleare” della sua opera, secondo Shamdasani, nascosto forse per non dispiacere troppo al mondo suo contemporaneo ancora incapace di avvicinarsi ad una fonte così impegnativa e scabrosa. Eccolo, il morto rinato.
La sua apparizione segna dunque uno sgelamento, un’apertura verso l’ìimpossibile, l’accesso delle epistemologie odierne alle vie dell’invisibile di cui certo Jung è stato uno dei massimi esploratori, o invece ancora v’è bisogno di “traduzione”, di accomodamento, di urbanizzazione?
Noi accogliamo questa uscita, estrema e scintillante , cospicua e invasiva, come una possibilità e un invito. Sperando che il “libro rosso” non diventi il “libretto rosso” della comunità degli evangelizzati in Jung ma la soglia, al tempo stesso tragica e abissale, di un’altra via al conoscere, oltre le barriere di una psiche che non è dentro e non è fuori, ma che è la tensione immanente che trama il tutto, come un magnetismo, come un reticolo dalle molteplici aperture e dall’irriducibile ustione carnale e il cui epicentro è il viaggio immaginale, sulfureo, nel flusso delle intensità incalcolabili.

mercoledì 5 gennaio 2011

Miseria e sconforto dell'uomo a una dimensione(ma anche meno), Marchionne


Provo una grande pena per il povero Marchionne, e non mi si fraintenda: una pena vera, autentica, profonda. Quest’uomo dall’inarrivabile successo, dal gigantesco patrimonio, dal ruolo invidiatissimo e stimato da un numero enorme di persone, fa davvero tenerezza.

La pena, quasi il cordoglio, scatta non appena lo si vede, triste e bolso, con quel ridicolo unico e obbligatorio maglione blu. Forse uno dei tanti “look” simbolici che ha imparato ad assumere (seppur con dolore e sofferenza) per assomigliare al concetto di riconoscibilità che i professionisti dell’immagine dichiarano “efficace”: forse dovrebbe evocare, con una strizzata d’occhio, la somiglianza con le “tute blu”?. Pensatelo la mattina: non ha scelta. Davanti alle possibilità smisurate che il suo portafogli gli aprirebbe, di modificare, ogni giorno, immagine, taglio di capelli, foggia delle scarpe, eccolo condannato a questo insignificante e del tutto invisibile abbigliamento, che ne fa una via di mezzo tra il professore di applicazioni tecniche e il tardivo studente di canto gregoriano. Povero Marchionne, la nuova “icona” dei top manager degli anni 0.

E poi sentiamolo parlare: è sconcertante. Anni e anni di studi, di esperienze all’estero ed ecco che se ne esce con un “codice linguistico” che Bernstein avrebbe solo potuto definire “ristretto”, ma con un eufemismo. Un nastro rallentato cacofonicamente nasale, mellifluo e ripetitivo, come quello che potrebbe produrre un carillon guasto, in cui si distinguono per occorrenza inesauribile tre vocaboli, raramente coniugati o declinati nelle loro diverse forme: “produrre”, “profitto”, “costi”. Il tutto a voce bassa e monocorde, come un flicorno svizzero. Niente, non se ne cava nient’altro. Nulla gli balena di più stimolante di quei tre vocaboli e delle loro infinite possibili combinazioni. “Abbassare i costi per produrre profitto”, “il profitto nasce dalla diminuzione dei costi e dall’aumento della produttività”, “i costi non possono aumentare altrimenti la produzione non permette di ottenere il profitto”, e così all’infinito. Che miseria, che tristezza, che ingiustizia perfino. Ma possibile che sia stato programmato in maniera così drastica da non lasciare alcuno ad altre espressioni, magari qualche aggettivo, o addirittura qualche avverbio? Niente da fare. Non si riesce a scucirgli altro. Chissà se un logopedista o un terapeuta del lessico potrà mai suscitare in quella mente straziata dal jet lag e dalla mancanza di riposo il dubbio che non tutto il sale della vita possa essere compendiato in quelle tre parolette? Di contro occorre riconoscere che sa la geografia. Nel suo cervello le fonti di profitto e i mezzi di produzione possono essere collocati indifferentemente all’est come all’ovest, al sud come al nord, India, Pakistan, Sudamerica, Polonia, ma sempre purchè i costi possano essere ridotti.

Guardandolo non si può resistere allo slancio caritatevole, al desiderio di aiutarlo, povero Marchionne, costretto a dire sempre le stesse cose. Certo i rinforzi gli devono essere stati somministrati a meraviglia, da grandi programmatori. Ogni volta il suo condizionatore personale, il personal trainer, gli diceva, bravo Marchionne, ripeti ancora, ripeti ancora. E via carezze, e poi caramelle, e poi soldini. Povero Marchionne.

Tuttavia la cosa più amara e deprimente è quando, in brevi e appassionate confessioni, cortocircuiti della sua meccanica inesorabile, gli sfugge qualche confidenza su di sé, sulla sua vita intima. Una volta, con un tremito di imbarazzo, ha dovuto ammetterlo. Niente, non ce l’ha. Lui lavora tutto il tempo, sempre, forse riesce a riposare un’ora o due al giorno. Per il resto sempre e solo lavoro. Ha moglie, ha figli ma niente, non li vede mai. Questo è davvero vergognoso. Possibile che un uomo possa essere stato tanto deprivato, tanto anestetizzato, tanto asservito alla macchina da cui dipende, da non riuscire a ribellarsi a questo? Possibile? E poi, un così importante personaggio?

Che discorsi si farà nell’oscuro delle sue due orette di riposo, nei divani superaccessoriati della business class, nelle suite d’albergo di cui neppure può sfruttare tutti gli innumerevoli pregi, gemente e febbrile? Che cosa si racconterà, quando l’ennesima giornata sarà passata e si sarà reso conto di aver usato per ventidue ore filate sempre le stesse parole, di essersi vestito sempre con lo stesso ormai consunto maglioncino blu e di aver sacrificato tutto il tempo che umanamente un uomo può dare per una causa come quella della pur reverendissima multinazionale Chrysler FIAT? Che cosa si racconterà?

E noi, cosa possiamo fare? Come possiamo aiutarlo? C’è un modo di curare un caso di tale gravità? Che si può fare per lenire il dolore terribile alimentato in lui dal silenzio e dalla repressione? Che fine avranno fatto lo spirito libero, il desiderio di avventura, l’ amore per gli animali, la cura di sé, i piccoli vizi, il piacere di un lungo riposo al mattino, nel lettone, e poi una bella partita a tresette, con gli amici. E fare l’amore per ore, mangiare con gusto, guardare il mare…

Come si può risarcire un uomo che rinuncia a tutto questo per il bene della sua impresa, certo com’è, oltre tutto, che quel bene corrisponda al bene di tutti, al bene del mondo? Come si fa mi chiedo, e me lo chiedo nello sgomento e nello sconforto…

martedì 4 gennaio 2011

Claudio Naranjo, ultima guida onnilaterale


Il nome di Claudio Naranjo deve essere aggiunto a quelli dei pochi maestri, per lo più scomparsi ma inesorabilmente vivi, che possano favorire la nascita di una cultura dell’educazione finalmente emancipata dall’inettitudine dei suoi artefici e dalla rigida e greve fissità delle sue geometrie penitenziarie.
Naranjo, che è uno straordinario pensatore cileno, una rara personalità onnilaterale e multiculturale, ancora vivente, ancora in azione sul fornte della diffusione di un pensiero plurale e divergente, ci illumina sui guasti di una civiltà che giustamente egli dichiara ancora murata nella sua ispirazione “patriarcale”, obsoleta e pervertitrice. Una civiltà che avanza ancora al seguito di una vocazione illuminatrice e desertificante, gerarchica e normativa, incline al produttivismo cieco e alla maleficazione di tutto ciò che appartiene all’emozione e all’immaginazione, alla bellezza e al desiderio.
Nella sua raffinata architettura personologica, conosciuta come teoria dell’Enneagramma, Naranjo ci insegna a riconoscere i segni di questo danno persistente e feroce, nell’ipertrofia delle funzioni della vanità egocentrica e del controllo , nell’effervescenza di una virilità ancora prometeica e faustiana e in quello che io chiamerei, seguendo un’attribuzione di taglio più archetipico, il primato della coppia Senex-Saturno. Certo, la post-modernità sembrerebbe orientata, come è stato osservato da molti disincantati analisti, più dall’imperativo del godimento e della fluidificazione delle esperienze, dalla disseminazione e dal ritorno del rimosso. Eppure, in un tempo di forti anacronismi, l’educazione, la ricerca, i propositi del mondo economico, non sembrano affatto andare in sintonìa con questi forti rivolgimenti. Al contrario, ancora una volta è un consumo e un piacere simulacrale e manipolatorio quello cui si è consegnati e l’imperativo a godere appare il mascheramento di un mondo dominato ancora in profondità dal normativismo patriarcale e dalle leggi della produzione e della prestazione. Il nucleo profondo che è ben lontano dall’andare in crisi, che a mio giudizio Naranjo ci consente di focalizzare maggiormente, nel profilo di questa dannazione inestirpabile, è riassumibile nella componente “intellettualistica”. Si tratta di un rilievo cruciale che avvicina la sua diagnosi all’insistenza con cui un altro grande, Gilbert Durand, faceva notare, diversi decenni orsono, il dominio di un regime diurno dell’immaginario nella civiltà contemporanea, e cioè lo strapotere delle forme ispirate alla separazione e all’astrazione, all’elevazione e alla geometrizzazione in tutti i campi in cui si estrinseca in profondità ma anche in superficie (basti guardare alle forme dell’architettura delle istituzioni educative o alla forma dei suoi testi e dei suoi meccanismi procedurali) il pensare e l’agire dell’uomo moderno.
E’ questo il cancro del nostro tempo, nella misura in cui esso non è compensato dalla cura e dall’incremento delle componenti femminili ma anche infantili, ludiche e dionisiache, in ogni ambito dell’esistere: ciò che Naranjo definisce la necessità di una “trinitarizzazione”, al’insegna del recupero simbolico, accanto al padre, della madre e del figlio, da non intendersi in senso tradizionale e moralistico, ma come forme e figure che impongano il rispetto delle dimensioni di cura e compassione nei confronti del tutto, insieme alla rivendicazione delle componenti vitalistiche e dionisiache del desiderio e del piacere. E dove il padre, come figura simbolica, ricoprirebbee la funzione di richiamo alla venerazione del misterioso e del sacro, come aree di trascendenza non teologizzate, indirizzate alla limitazione dell’umano. Da quest’ultimo punto di vista la critica di Naranjo alle confessioni nelle loro prassi dogmatiche è radicale, proprio in quanto troppo spesso piegate ad una patriarcalizzazione patologica delle strutture sociali e affettive della vita e soprattutto disinteressate al legame imprescindibile con il cosmo e l’ambiente.
Naranjo concilia semmai le antiche tradizioni spirituali orientali e occidentali richiamandoci alla pratica dello svuotamento ma anche all’esercizio spirituale dell’autoconoscenza come decostruzione dell’io e padronanza della “flexibilitas” psicospirituale necessaria a recepire l’esperienza del mondo. Simultaneamente, senza confinarsi in una deriva neoascetica, chiama alla centralità del corpo, del piacere, del desiderio, con un decisivo appello alla componente dionisiaca della vita e con il lento lavorìo necessario a ricucire le inevitabili ferite e frustrazioni affettive di un’infanzia normalizzata.
Naranjo si dimostra un maestro di quel necessario rivolgimento che il nostro tempo attende per risarcire le forme dell’ esperienza umane defraudate e asservite alle logiche mercantili e alla ragione calcolante, per restituire loro il prisma moltiplicativo che l’antica alchimia mirava a realizzare tra integrità, generosità e totalità. Occorre, al seguito della sua lezione, ritrovare il legame perduto e le assonanze reticolari che consentano al mondo di articolare la sua pluralità in un cosmo unitario ma differenziato nel quale emozioni, desideri, consapevolezza e azione si coniughino in una mobile e virtuosa complementarità.
E’ a questa complementarità complessa e ardua che l’educazione deve guardare per farsi “salvifica”- come egli vorrebbe che fosse-, è alla necessità di una tale trasformazione che dovrebbe piegarsi una educazione finalmente vivente e appassionata per contrastare l’esercizio normativo e manipolatore che tuttora e sempre più, le istituzioni soggiogate alle leggi del mercato, sembrano intenzionate a promuovere con progressiva veemenza.

sabato 1 gennaio 2011

Del piacere per il gioco

Della necessità e dell'emergenza di affermare e infondere eros, passione e desiderio per il sapere nei luoghi scialbi e annoiati della formazione, come ingredienti essenziali per alimentare e rendere l'esperienza conoscitiva unica e indimenticabile, palpitante e generativa, sorprendente e trasformativa è la premessa e l'urgenza di questo post.
Del piacere per il gioco vuole provare ad evocare e a testimoniare, per ombre e riflessi, l'esperienza in un contesto educativo che apre ogni giorno il sipario al teatro del gioco e sul cui palcoscenico, emergendo dallo sfondo del mondo reale, appaiono e si muovono cose e persone in un tempo e in uno spazio "magico". Uno spazio e un tempo speciale, ambiguo e ambivalente che si situa entro il mondo reale ma che situa nel mondo del possibile, in un "ultramondo", direbbe il filoso spagnolo Ortega y Gasset, riconoscendo e sottolineando la "virtù magica" del gioco e del teatro di trasformare il reale per rap-presentare e mostrarci in trasparenza l'irreale, per condurci in una sfera immaginaria che sospende momentaneamente il fluire della vita. Anche l'immagine di Paul Klee sembra aprire il nostro sguardo su un altrove, su un altro mondo, un mondo acquatico e terrestre, notturno e diurno, fermo e fluttuante, delimitato e diffuso, interno e rivolto all'aperto, naturale e artificiale, umbratile e luminoso, giocoso e grave, attraversato da linee impercettibili e marcate di vita e di morte. Ogni singolo tratto, ogni elemento e ogni sfumatura di colore richiederebbe di essere ri-guardata e riletta, ci interroga e ci indica innumerevoli vie di significazione possibili che qui ci siamo limitati ad accennare ma che sembrano iniziare a nominare i tratti poliedrici, polisemici e ambivalenti del gioco e che abitano il particolare contesto educativo dello Spazio Gioco, di cui si vuole provare a lasciare una traccia.
Lo Spazio Gioco è un servizio educativo gestito e promosso dall'associazione L'abilità, strategie familiari nelle disabilità della prima infanzia. L'associazione opera a Milano dal 1998, proponendosi di intervenire laddove non arrivano le istituzioni e i servizi, insinuandosi nella zona misterica del danno, del dolore, della sofferenza nelle loro molteplici e imperscrutabili manifestazioni, laddove precipano le famiglie, con la finalità di costruire opportunità di benessere per il bambino con disabilità, offrendo sostegno ai suoi genitori e promuovendo una cultura più attenta ai diritti delle persone con disabilità. Lo Spazio Gioco nasce con l'obiettivo di restituire il diritto e il piacere per il gioco. Restituire il diritto al gioco al bambino disabile credo significhi innanzitutto provare a invertire, secondo le indicazioni di una pedagogia immaginale, il nostro sguardo compensando l'immaginario diurno ed eroico della nostra cultura occidentale che ci porta a confondere la sofferenza, la debolezza, la ferita con qualcosa di "guasto o di sbagliato" da raddrizzare, correggere e riparare sempre e in ogni caso. Per questo di fronte al disagio, alle diverse patologie, ai disturbi generalizzati dello sviluppo, alle difficlotà dell'agire o di non riuscire a stare fermi e concentrati, al deficit percettivo, cognitivo e motorio, a un'assenza o una scarsa motivazione e iniziativa rischiamo di negare il diritto al gioco ritenendolo, banalmente, una delle capacità maggiormente compromesse e utilizzandolo solo come mezzo e strumento terapeutico per sviluppare abilità sociali, linguistiche e cognitive. Lo Spazio Gioco si propone di compensare il tempo che il bambino trascorre nei contesti medico-riabilitativi pensando e istituendo una radura spazio-temporale dove il bambino può trovare riposo dal "generale tratto futuristico" della vita, da ogni obiettivo terapeutico in un presente tranquillo, autonomo, che ha solo scopi intrinseci e di piacevolezza. In questo senso il piacere è un fine intrinseco del gioco che ne svela la sua intima essenza, il piacere è un elemento strutturale del gioco, come indica il filosofo e fenomenologo Eugen Fink, è un elemento singolare e difficile da comprendere. "E' un piacere che può assorbire in sé la profonda tristezza e la sofferenza abissale, che può abbracciare il tremendo sempre gioiosamente". E allo Spazio Gioco il piacere abbraccia il "tremendo" della disabilità, che spesso con troppa disinvoltura e semplicisticamente associamo al bambino down, abbraccia il sapere misterico del male, il suo inquietante esserci, la sua presenza oscura che interroga il nostro senso del limite. Il piacere è estasi e rapimento che ammalia e conduce il bambino in una dimensione altra, in una sfera immaginaria che gli consente di giocare i suoi limiti: non solo ha la possibilità di sperimentare abilità sconosciute ma anche di alleggerire la realtà della disabilità spostando la frustrazione di non riuscirci, di non vedere, di non camminare, di non leggere in un un contesto protetto e più accettabile, superando ed uscendo dall'isolamento a cui va incontro quando si confronta sempre e solo con i suoi limiti e la sua solitudine. Il piacere è stupore e godimento del corpo, è la sensazione gradevole ed emozionante di ascoltare una cascata di farina, gialla o bianca, o di pangrattato sulle proprie braccia e gambe, di ricoprirsi completamente il corpo di tempera o di creta, di massaggiare le mani e i piedi con un impasto di colla e zucchero per sentire, percepire e accorgersi del proprio corpo.
Il piacere è la passione e il desiderio dell'adulto, dell'educatore di giocare, di porsi e sostare sulla soglia del gioco, di creare e istituire uno spazio e un tempo bello, affascinante, sorprendente e adeguato alle possibilità e alle mancanze dei bambini. E' un piacere nuovamente difficile da spiegare e comprendere per chi si confronta quotidianamente con il danno, la malattia, il dolore, il male e che ci fa confrontare ogni giorno con il "nostro essere limitati, finiti, mortali, impotenti, malati e feriti, proprio come i soggetti che abbiamo in cura", che ci chiede di rimanere in ascolto della nostra debolezza, del fondo di oscurità che ci abita per continuare a condividere la casa di chi alberga dentro la luce bassa della diversità.

mercoledì 10 novembre 2010

Il sapere come dono e l'esame come restituzione

L’esame scolastico, istituzionale, è figlio di una cultura della misura e del controllo. Una cultura dell’educazione che ritiene che la procedura dell’insegnamento sia realizzata quando il sapere, considerato come qualcosa che preesiste al momento dell’istruzione stessa, possa essere poi in qualche modo verificato dopo che è stato veicolato. Operazione meccanica, anche se espressa in innumeri maniere, che vede l’insegnamento come un travaso, come una trasmissione, informaticamente, come un transito, e non, per esempio, nel senso serio e più intrigante che ha dato a questa nozione Mario Perniola, quando parla di transito da sé a sé, dallo stesso allo stesso.
Anche laddove vi è consapevolezza della processualità dell’opera educativa, laddove se ne predica la metaforica platonica della maieutica o dello svelamento, della generazione o dello scatenamento, l’esame resta confinato nella sua struttura di procedura di controllo, a volte rivestito dell’abito della ricerca o dell’ascolto, ma pur sempre finalizzato a vedere ciò che è stato prodotto, a misurare e a comprendere l’effetto. Questo sistema a me pare legato ad una logica produttivistica, efficientistica e fisicalista della cultura pedagogica, che nell’epoca contemporanea poi si tecnicalizza in procedure sempre più sofisticate e modulate variamente, sul piano strumentale, ma non meno univoche su quello strutturale.
A questa logica voglio contrapporre l’idea di formazione come dono, di apertura del sapere e di condivisione della conoscenza. Un’idea partecipativa che mira all’attrazione appassionata e alla coltivazione di una ricettività diffusa e fluida, curiosa e non giudicante. L’azione dell’insegnamento come potlacht o come dissipazione, come debordamento e come dispersione, come deriva e come prassi simbolica, fa cadere ogni esigenza di controllo. Anche perché non c’è più nulla da controllare. Il campo del sapere, non più presupposto come dominabile e segmentabile, è sempre aperto e fluido. Il contributo che offre chi insegna, presenta implicitamente falle e punti di pescaggio da dove chiunque vi partecipi può derivare imprevedibili direzioni di sviluppo, trasformando continuamente, non tanto il modo in cui l’insegnante propone la sua forma, quanto la configurazione in fieri che ne trae come discente. Da questo punto di vista nessuna esigenza di controllo e di misura e neppure l’esigenza del tutto autoriferita di verificare se qualcosa è successo. Il gesto compensatore di una pratica di formazione come dono e condivisione è invece quella della restituzione, come ritorno di qualcosa di non predefinito (al dono si corrisponde con il dono) e della riconoscenza/riconoscimento, nella forma del ringraziamento e dell’accoglimento. Per chi insegna è il fatto stesso dell’ascolto, della partecipazione e della ri-conoscenza che si fa atto di conferma, e che costituisce di per sé indizio di un’auspicabile moltiplicazione esperienziale. In tal senso restituzione e riconoscimento possono essere espressi in modi diversi e imprevedibili che possono non avere affatto a che vedere con il sapere trasmesso, ma semmai con la configurazione che l’esperienza ha assunto. La restituzione può essere un oggetto fisico o un gesto, una danza o un canto, uno scritto o un’immagine. L’esperienza formativa non ha nessuna intrinseca necessità di essere misurata, essa si dà quando si dà, come perfettamente compiuta all’atto della sua effettuazione. L’atto del controllo e della misurazione è solo un gesto disciplinare che la inscrive in una finalizzazione estrinseca di tipo ideologico o istituzionale. Intrinsecamente ogni esperienza di insegnamento è invece semmai tramata da gesti di interrogazione e di intesa, di confronto e, laddove ve ne sia necessità, di prova, di gioco e di simulazione. Ma questo modo di cercare non è mai ordinato nella forma del controllo esterno, semmai della conferma interna, del bisogno di percepire la reciprocità della comprensione. Si conclude all’interno dell’esperienza di insegnamento e non chiede supplementi, a meno che questi non siano indotti dal desiderio di ripetere e andare più a fondo.

lunedì 1 novembre 2010

Pensare l'anima

E' una figura femminile dal volto antico e dallo sguardo assorto l'angelo che attende alla soglia di questo libro di Donfrancesco. E' lei, la padrona di casa, la "domina" della villa dei Misteri di Pompei che, rivolgendo lo sguardo verso il luogo in cui si celebra il rituale di iniziazione ai misteri dionisiaci, sembra invitarci a partecipare alla vita di quello straordinario affresco miracolosamente sopravvissuto al tempo e al fuoco di cui anch'ella fa parte. E' proprio una personificazione dell'anima a mediare, fin dalla copertina, il nostro accesso a un libro che la ri-guarda con passione e meraviglia riconoscendone la presenza nelle immagini del mondo sensibile trasfigurato dall'arte, in quelle della sofferenza, della morte e dell'esilio intensamente vissute e ri-cordate dalla memoria, nell'esperienza della trasformazione e della bellezza. E forse è proprio attraverso lo sguardo incantato di quella donna, intenta a contemplare un mistero indicibile ed eterno che si manifesta in un momento preciso, nel qui e ora delle immagini di un dramma teatrale, che l'anima pensa se stessa e che il pensiero immaginale – quello del cuore, quella "diversa conoscenza" inseguita da Donfrancesco fin dall'inizio della sua ricerca – si genera e ha modo di dispiegarsi ed esprimersi nella forma che più si addice alla sua natura. Una forma "mitologica e drammatizzante", come sosteneva Jung, non soltanto più espressiva e adeguata a rivelare il tessuto invisibile e archetipico del mondo e dell'esperienza, ma addirittura più accurata e precisa di qualsiasi astratta terminologia scientifica. Una forma metaforica che scaturisce dalla sensibilità "estetica", di chi non si preoccupa di dominare il mondo prendendo le distanze dalla materia viva e ribollente dell'esperienza, di interpretarla letteralmente e riduttivamente imprigionandola in rassicuranti categorie concettuali o imprimendo il marchio esclusivo della propria soggettività su tutto ciò che si presenta al suo cospetto, ma piuttosto di comprenderlo e abitarlo poeticamente riconoscendone le presenze animate e rilegando in immagini di scintillante "bellezza" tutto ciò che quello stile di conoscenza eroico, disincantato e antropocentrico ha rimosso o separato. Restituire luogo, voce e immagine alle dimensioni vulnerabili, fragili e inquietanti dell'esperienza, ricostituire il legame tra materia e spirito, tra soggetto e oggetto, tra concetto e fatto, tra perituro ed eterno è tra le principali preoccupazioni della posizione conoscitiva immaginativa che ben si esprime nella pittura di Cézanne, Music, Bonnard, Morandi, nella poesia di Pessoa, di Garcia Lorca e nell'opera di molti altri invisibili artisti ospitati con estremo riguardo nelle pagine di questo libro.
In una simile posizione conoscitiva, affettiva e partecipativa, e di improbabile validazione "scientifica", sembra essersi consapevolmente e serenamente collocato anche l'autore di Pensare l'anima che con questo volume ci offre il frutto più maturo della sua opera: un affresco delicato e appassionato di testi dedicati all'anima, a lungo meditati nell'alambicco della memoria e ripetutamente rielaborati nel tempo, che ci mostrano il divenire della sua elaborazione teorica scaturita dall'esperienza viva della pratica psicoanalitica e dagli incontri ravvicinati con quella affascinante Signora nei luoghi della memoria, del sogno, dell'arte figurativa e della cultura immaginale. Territori in cui Donfrancesco si è inoltrato con rispetto, cautela e stupore crescente, mai con lo sguardo del medico, dello psichiatra o del critico d'arte, ma piuttosto con quello dell'ospite, dell'apprendista o dell'amante desideroso di contemplare il volto dell'amata, di comprendere e imparare.
Più che costituire il tema di queste pagine, l'anima sembra esserne la musa ispiratrice, la silenziosa presenza che presiede al farsi e al ri-farsi di una elaborazione teorica che assomiglia a ciò che gli alchimisti chiamavano una visione (visio e theoria), che non abbandona mai le immagini a favore dei concetti e non ha mai la pretesa di imporsi come unica o definitiva. Una riflessione dell'anima, mai scissa dall'esperienza vissuta dell'anima, che si dispiega in una trama narrativa immaginosa e appassionata che, senza soluzione di continuità, connette le parole dell'autore con le pagine più intense di Jung, Hillman, Corbin, María Zambrano e di tutti gli artisti, scrittori, pensatori disseminati nel tempo che egli ha incrociato anche soltanto per un breve ma significativo istante, che ha incontrato e amato, e ha riconosciuto come maestri, mèntori e compagni di viaggio.
Un libro pensato immaginativamente, che adegua la sua struttura, il suo stile espositivo, il suo linguaggio e il ritmo della narrazione alle esigenze immaginative dell'anima, che non infligge tagli netti al corpo della materia trattata e non impone all'opera un ordine gerarchico e razionalizzante, ma evoca per noi tre luoghi simbolici entro cui, per tre volte, ci invita a sostare per coltivare l'immaginazione, ospitare gli invisibili e custodire la bellezza, e ci induce ad immaginare.
Un libro raro che riesce a "fare anima" anche nella teoresi, che ri-anima il pensiero e ben corrisponde alla fisionomia e alle intenzioni di quella "psicologia estetica" delineata in queste pagine. Una psicologia poetica che affida il suo sapere all'immaginazione creatrice e si rivolge con rinnovato interesse e rispetto al mondo immaginale dell'arte, per apprendere i modi conoscitivi e assimilare un linguaggio che, come sostiene l'autore, è "sostanzialmente omogeneo a quello dell'anima". Su questo particolare aspetto il contributo di Donfrancesco mi pare estremamente prezioso per il mondo della conoscenza ed anche per quello dell'educazione dove trova accoglienza e corrispondenze nell'ambito della "pedagogia immaginale" che, con simili presupposti ed intenzioni, si è rivolta al mondo immaginale dell'arte, del cinema e della poesia per restituire anima al pensiero pedagogico ed educare alla cognizione immaginativa.

Marina Barioglio







domenica 17 ottobre 2010


Zenone, l’alchimista dell’anima

Una delle intuizioni più feconde e originali dell’opera di James Hillman è quella che si riferisce all’originaria e profonda mutilazione che, già in tempi remoti, la cultura occidentale si è più o meno consapevolmente autoinferta. In molte delle sue opere, Hillman ha richiamato l’attenzione su come all’origine dell’angusto dualismo occidentale corpo/spirito – che è alla base di tutti i principali atteggiamenti schizofrenici della nostra cultura – vi sia il preciso intento, da parte della tradizione teologica dominante imposta inizialmente dalla Chiesa bizantina, di sbarazzarsi della “terza dimensione”, del “terzo genere di essere” che pertiene all’uomo: l’anima. La sede principale dell’immaginazione, ossia del luogo interiore in cui si lasciano ascoltare le “voci degli Dei”, i simboli mitologici degli archetipi della psiche.

Cercando di verificare ulteriormente le illuminanti intuizioni hillmaniane sopra esposte, proverò a prendere in esame il romanzo L’Opera al Nero di Marguerite Yourcenar (1903-87). Il libro, pubblicato a Parigi nel 1968 offre come forse nessun altro, a un lettore non esperto dell’epoca rinascimentale, l’occasione di una affascinante introduzione alla vita quotidiana dell’età di Paracelso e di Giordano Bruno. Nel saggio che fa seguire al suo romanzo, la scrittrice ci tiene a dichiarare la natura soltanto “immaginaria” e “letterararia” di Zenone (il medico-filosofo-alchimista che le cui vicissitudini sono al centro del romanzo). Viene al tempo stesso sottolineato come la figura del pensatore errante le sia stata, fin dalla giovinezza, ispirata dall’esempio delle vite e dall’opera di alcuni dei principali protagonisti del pensiero e della magia rinascimentali: da Paracelso a Leonardo da Vinci, da Cornelio Agrippa a Tommaso Campanella.

Zenone ci si presenta come una sintesi letteraria pressoché completa del filosofo rinascimentale, con i suoi incontenibili slanci scientifici e le profonde incursioni alchemiche (che lo mettono in cattiva luce agli occhi sempre sospettosi del Sant’Uffizio dell’Inquisizione), il suo inquieto vagare per le principali corti europee, i suoi dubbi teologici e la sua spontanea adesione alla religione hermesiana dell’Anima Mundi.

È possibile riconoscere senza troppe forzature interpretative nell’opera e negli amplissimi interessi conoscitivi di Zenone il ritorno in grande stile, in piena epoca rinascimentale, della “terza componente” antropologica: quella dimensione immaginale dell’anima che non si è mai rassegnata a restare in secondo piano nella vita dell’uomo occidentale.

Fin dalle prime battute, quando avviene l’incontro tra il giovane Enrico-Massimiliano Ligre, rampollo di una delle più ricche famiglie belghe, e l’altrettanto giovane Zenone, già intento a inseguire per tutto il mondo allora conosciuto non si sa quale arcana verità, si delinea quella che sarà poi la principale opposizione che informa L’Opera al Nero. Enrico-Massimiliano – al pari del cugino Zenone – è una figura archetipica, che condensa in sé i profondi impulsi corporei dell’uomo occidentale di ogni tempo e nazionalità. Dopo essersi casualmente reincontrati, i due giovani s’intrattengono reciprocamente, raccontandosi impressioni sulla vita e le avventure che erano loro fino a quel momento capitate. Enrico-Massimiliano, che già a sedici anni provava l’irrefrenabile esigenza di affermarsi nell’àmbito degli onori politici e militari, può così dichiarare che scopo della propria vita sarebbe stato quello di “essere uomo”. Il cugino Zenone, al contrario, già a vent’anni aveva ben chiaro l’intento di voler “esser più che un uomo”.

Per chi ancora non avesso compreso come l’età rinascimentale, specie dopo l’intrasingente spaccatura confessionale e politica provocata dalla Riforma teologica luterana, fosse un’epoca tra le più travagliate e dolorose, sotto il profilo politico e sociale, dell’intera storia europea, L’Opera al Nero della Yourcenar offre un’eloquente quadro della cupa ferocia che funestava quei tempi. Dietro le più accanite manifestazioni di zelo e di intolleranza religiosa, si poteva vedere messa in atto la cupidigia e la ferocia degli arroganti potentati di turno, che si dimostravano pronti a mandare al macello le classi popolari a essi sottomesse pur di non rinunciare ai loro privilegi personali.

Messo di fronte alle opposte efferatezze di cattolici e di riformati, facenti entrambi ricorso al “metodico abominio di un supplizio ordinato in nome di un Dio di bontà”, Zenone, fin dalla più giovane età, si sente spinto a prendere le debite distanze da ogni confessione cristiana, sollevando intorno a sé il sospetto, volta per volta, di ateismo o di eresia. Per guadagnarsi da vivere, Zenone esercita l’attività di medico, decidendo così di portare un po’ di conforto ai corpi sofferenti delle persone di più differente estrazione, esuli come lui, bambini perseguitati per il loro credo religioso, nobili moribondi, appestati:

“Qualunque cosa facesse, la meditazione lo riconduceva sempre al corpo, suo principale oggeto di studio”.

L’attenzione del medico-alchimista per i bisogni del corpo, nell’intreccio narrativo va di pari passo con la minuta descrizione del peso dell’esistenza “soltanto corporea” dell’uomo. Il mondo dominato dai più bassi istinti, nel quale lo stretto vincolo tra la sete di potere e di guadagno e quella di un materiale e “meccanico” godimento dei sensi, viene reso attraverso un’eloquente metafora, con la quale la Yourcenar traccia un memorabile ritratto dell’ambiente domestico della famiglia tedesca dei Fugger, i più potenti banchieri dell’epoca:

“Ad altri gli scampanii o lo scoppio delle bombarde, i cavalli scalpitanti, le donne nude o ammantate di broccato, ad essi [i Fugger] la materia vergonosa e sublime, disprezzata pubblicamente, adorata o covata in segreto, che somiglia alle parti nascoste in quanto se ne parla poco ma vi si pensa continuamente”.

Allo sguardo sempre attento e profondo del filosofo ermetico Zenone, le interminabili dispute teologiche che infiammavano la sua epoca – e che rimandavano, sempre mettendo a frutto l’intuizione di Hillman, alla dimensione simbolica dello spirito – apparivano sempre più come il lato d’ombra delle efferatezze che colpivano il corpo abbandonato a se stesso, a queste ultime perfettamente complementari. Lo si comprende in modo particolarmente convincente dalle discussioni che il medico Sebastiano Theus (il nome di fantasia sotto cui si nascondeva prudentemente lo stesso Zenone, allorquando decise di arrischiarsi a tornare a Bruges, il suo luogo natale) intavolava con il priore dei Cordiglieri, l’unica persona che Zenone-Sebastiano reputava degna della propria amicizia e delle proprie confidenze.