
venerdì 8 giugno 2012
Fuoco e corpo immaginale

sabato 2 giugno 2012
"ROSSO". La visione forgiata nell'officina di Mark Rothko.
Una
volta l’arte era un’impresa solitaria: niente gallerie, niente collezionisti,
niente critici, niente soldi. Non avevamo maestri. Non avevamo genitori.
Eravamo soli. Eppure è stato un periodo d’oro perché non avevamo niente da
perdere e tutta una visione da guadagnare. (Mark Rothko)
Le
luci si abbassano, il buio immerge gli spettatori nel silenzio e nell’attesa, l’oscurità
avvolge gli attori nella tensione di un’ansiosa aspettativa che si ripete e si
rinnova ogni volta nel gioco di una rappresentazione. Il nero crea uno spazio e
un tempo di sospensione che permette all’evento teatrale di germogliare. Poi lentamente
l’incertezza tenebrosa si dirada circondando e custodendo la radura del
palcoscenico da cui emergono due tele di grandi dimensioni. Un uomo le guarda.
Dopo qualche istante entra in scena un giovane al quale l’artista chiede «Cosa
vedi?» e lo esorta ad avvicinarsi all’opera, a lasciarsi abbracciare da essa,
ad immergersi in essa, nella densità e nelle trame del colore. Così inizia lo
spettacolo “Rosso” in scena fino al 3 giugno al Teatro Elfo Puccini di Milano.
Così il pittore Mark Rothko invita il suo nuovo assistente e lo spettatore a
partecipare con tutto il suo corpo, la sua mente e i suoi sensi nella sua
opera, a lasciarsi avvolgere ed inglobare in essa, nella profondità
superficiale di un rosso circondato, penetrato e sfumato dal nero.
Le
opere di Rothko, Deep Red on Maroon e
Mural for End Wall, divengono la
guida di un percorso di sprofondamento dello sguardo, di dissoluzione di una
visione giudicante che imprime sulle immagini valutazioni estetiche e
moraleggianti, di abbandono di uno sguardo mercificante che si impossessa di quadri
per definire, nella società della “chiacchiera”
e dell’apparenza, il proprio status sociale
ed economico, di distruzione di una facoltà meramente creativa che si limita a produrre
nuove forme della realtà dimenticandosi e abusando di essa. Le opere di Rothko
costituiscono la premessa e il punto d’approdo dell’apprendistato del giovane
che si fermerà per «due anni, cinque giorni alla settimana, otto ore al giorno»
nello studio del pittore inondato di molteplici tonalità di rosso che macchia
il pavimento, straborda dalle pentole e dai barattoli di tempera, cola dai
pennelli, impregna i vestiti. E lo studio di Rothko diviene per l’allievo e per
lo spettatore luogo dove sostare per discendere, rimanere per contemplare e
lasciarsi intridere dal rosso.
Il
rosso è vita, affermazione della vita nella chiara consapevolezza della morte. É
inquietudine, caos e ordine, tensione e meditazione, rabbia e pacificazione, passione
e dolore, luce e tenebra. È il colore denso e scuro del sangue che si rapprende
e coagula nel biancore della neve nel flusso impetuoso di ricordi del giovane. E’
il rosso acceso e vivo che scorre dalle vene del pittore preannunciando il suo
suicidio. È il tono amaranto che l’artista e il suo allievo dipingono in un
corpo a corpo con l’opera. È il colore di un’operatività che rimanda metaforicamente
all’alchimia che, come spiega lo stesso Rothko, è un continuo «farsi e disfarsi dal
concreto all’astratto e di nuovo al concreto», in una processualità senza fine,
in un continuo svolgersi oscillatorio di un processo di bilanciamento
inarrestabile.
Lo
spettacolo si conclude con l’artista che guarda la sua opera. É in piedi, vicino
alla tela, col capo reclinato, in labile e instabile equilibrio sembra essere
sul punto di immergersi nell'immagine, di dissolversi in essa, di rendersi
invisibile dopo aver licenziato il suo assistente e dopo aver restituito le sue
opere alla penombra, togliendole dalle sale del prestigioso ristorante Four Seasons di New York per cui erano
state concepite.
E
noi spettatori non possiamo far altro che uscire dalla sala attraverso l’opera
stessa.
giovedì 3 maggio 2012
Una tazza di mare in tempesta
Ogni volta
che mi accorgo di atteggiare le labbra al torvo,
ogni volta che nell’anima scende come un novembre umido e piovigginoso,
ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me (…)
Allora dico che è tempo di mettermi in mare al più presto, questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. (Melville)
Con queste parole,
prese direttamente dall’incipit di Moby Dick, comincia Una tazza di mare in tempesta, di Roberto Abbiati.
Uno spettacolo in una
scatola.
Una scatola di legno
per contenere poche persone, il pubblico, insolito carico della stiva di una
baleniera.
Una piccola
installazione per un breve spettacolo, fatto di pochi piccoli oggetti che
possono evocare grandi cose: disegni, sculture, lampadine, oggetti d’uso
quotidiano suggeriscono balene, velieri e oceani…
Le cose raccontano
l’ossessione di Achab per la sua Moby Dick, costringendo lo spettatore ad
un’instabile postura e ad una scomoda seduta. Dal centro della scatola occorre
continuamente voltarsi, torcersi e cambiare il proprio punto di vista, per non
perdere il sottile e delicato filo della narrazione che va in scena.
Si è trascinati in
un vortice di scene, o meglio quadri in miniatura da contemplare per pochi
istanti che, dal buio in cui siamo immersi, appaiono illuminati dalla fievole
luce di una lampadina: l’ombra di un veliero, la corda che si strappa, la lotta
con l’animale, il temporale…
Uno spettacolo per adulti che incanta anche i bambini.
venerdì 30 marzo 2012
Voci da una scuola disseccata e degradata
Condivido con i lettori del blog il progetto di due insegnanti della scuola secondaria di secondo grado per rovesciare e ripensare la scuola sotto il segno della qualità, del pubblico, della passione, della vitalità e della bellezza dell'apprendimento-insegnamento.
L'articolo è apparso su MicroMega il 26 marzo 2012.
Per una rivoluzione della scuola superiore
di Elena Fabrizio e Carla Fabiani (Docenti scuola media superiore di II grado)
Il tema della scuola, in tempo di crisi, viene affrontato per lo più da un punto di vista quantitativo. Quante risorse disponibili spese e da spendere in previsione. Quanti tagli. Quanti esuberi fra gli insegnanti. Quanti precari da immettere in ruolo. Quanti pensionamenti. Consapevoli che queste politiche delle quantità rientrano in una più generale attività dei governi finalizzata a comprimere i costi dello Stato sociale, in estremo spregio, da destra e da sinistra, del fondamentale diritto all’istruzione, intendiamo denunciare in che misura esse vadano invece a incidere sulla qualità della didattica.Noi vogliamo, infatti, parlare di qualità. E precisamente della qualità dell’insegnamento-apprendimento così come si presenta nell’ambito della scuola pubblica superiore e nei licei in particolare.Il livello di preparazione dei docenti si è notevolmente abbassato negli ultimi dieci anni per ragioni che riguardano innanzitutto il diploma universitario cosiddetto 3+2, che ha fortemente dequalificato la formazione globale dello studente, il sistema delle abilitazione SSIS, ma anche perché spesso, con il cosiddetto passaggio di ruolo o di cattedra, insegnanti, che per anni si sono dedicati a una disciplina, passano improvvisamente ad insegnarne un’altra. Non ultima per gravità è la mancanza di seri corsi di aggiornamento in itinere, improntati sia alla sperimentazione didattica sia all’approfondimento disciplinare. Al di là delle responsabilità dei singoli docenti, la qualità dell’insegnamento si realizza oggi, con la riforma Gelmini, in classi pollaio nelle quali risulta impossibile, da parte del docente, dedicarsi all’approfondimento dei contenuti disciplinari e a un apprendimento differenziato, finalizzato al recupero degli alunni più deboli.Il rischio di un ulteriore calo della formazione viene poi da una politica scolastica che si vede costretta a gonfiare i voti finali degli alunni, per non creare esuberi fra il corpo docente. Perdi alunni, perdi cattedre, perdi insegnamenti; e il merito non ha più ragion d’essere. Più in generale, il corpo docente è legato mani e piedi a una vita scolastica organizzata sempre più verticisticamente, fatta di carte e cartacce burocratico-amministrative nelle quali il confronto dialogico docente-studente e docente-docente tramonta miseramente.La didattica sperimentale, laboratoriale, creativa e non-manualistica è di fatto impedita da un sistema tutto teso a premiare competenze-conoscenze-abilità, cioè parametri oggettivo-quantitativi valutati con il sistema dei quiz. Quello che conta sono le tabelle da compilare a fine anno con i relativi crediti-debiti. Non conta cioè come effettivamente quel corso di studi sia stato condotto. Il processo e la qualità scompaiono nel risultato finale.La diffusione e l’imporsi – fuori della scuola beninteso – delle nuove tecnologie informatiche ha determinato un salto antropologico che, in termini cognitivi, determina la sostituzione da parte del computer della capacità tutta umana di memorizzare, calcolare, leggere, creare, comunicare, pensare. Tutto ciò porta con sé l’abbassamento del livello minimo di attenzione prestato dagli studenti a una lezione di media difficoltà; la difficoltà che manifestano nel leggere e capire allo stesso tempo – parliamo di ragazzi quasi maggiorenni – oltre che, evidentemente, la difficoltà che mostrano nella scrittura - non sanno dove mettere la virgola, il punto, ecc. - e nell’articolazione concettuale dei diversi contenuti disciplinari.Ciò che ancora di più risulta depresso e impedito, da tutto quanto detto sopra, è l’obiettivo “minimo” che una scuola pubblica dovrebbe raggiungere: l’acquisizione da parte dello studente di un metodo di studio autonomo, originale, proprio.I docenti che vivono questa crisi dell’istruzione sono indotti dalle condizioni oggettive nelle quali lavorano ogni giorno a elaborare alternative più razionali, più giuste, più funzionali di quelle che una classe dirigente politica, troppo incurante del valore-scuola, ha fino ad oggi imposto. Ne segnaliamo di seguito solo quelle essenziali.
1) Sulla formazione dei docenti. Il concorso pubblico, opportunamente rivisto, è sempre meglio del corso a pagamento. Dopo la laurea chi voglia insegnare dovrebbe intraprendere un breve percorso formativo di tipo universitario (gratuito), nel quale acquisire i fondamentali strumenti della ricerca che gli consentano di imparare ad aggiornare autonomamente il proprio sapere.
2) Sulla scelta della scuola. Bisognerebbe riqualificare le scuole tecnico-professionali e indirizzare sin da subito gli alunni che si iscrivono nei licei, ma che non sono portati per lo studio liceale, verso queste scuole; i ragazzi dovrebbero essere sottoposti subito a test selettivi, magari prima di iscriversi.
3) Sulle classi. Non dovrebbero essere composte da più di 15-18 studenti, così da seguirli tutti, proporre apprendimenti e saperi differenziati, elaborare percorsi disciplinari.
4) Sulla valutazione. Eliminazione del sistema interrogazione/voto, la valutazione in itinere è miope perché finalizzata al particolare momento del sapere e non all'intero processo. Solo la valutazione finale su tutto il programma. È più importante esercitare il dialogo ogni giorno, improntando una didattica altamente collaborativa tra docenti e alunni.
5) Sui corsi di recupero. Eliminazione dei corsi di recupero, la percentuale di quelli che recuperano è molto bassa. La scuola è diventata la sede per eccellenza del recupero, è il luogo dove si recupera e dunque si è sempre in affanno; ma con il recupero non si impara, almeno finché l’obiettivo del recupero rimane il voto.
6) Sul sistema competenze/conoscenze/abilità. Abolire questo sistema e sostituirlo con l’obiettivo di un metodo di studio autonomo, in cui il ragazzo impari a imparare.
7) Spazi e tempi della scuola. Far stare gli alunni più tempo a scuola, iniziare le lezioni non prima delle 9:00, con lezioni, per es., di 60 minuti e pause di 15 tra una lezione e l’altra; farli convivere nella scuola, farli studiare a scuola, attrezzare la scuola di biblioteche e videoteche, palestre, campi di calcio, di tennis, giardini, alberi, fiori, orti botanici, cucine.
8) Sull’eguaglianza di opportunità. Per soddisfarla oggi si è affermata la logica del merito, più meriti più opportunità. Noi crediamo che incentivare il merito dovrebbe significare offrire anche “a chi non merita” (alunni poco volenterosi o cognitivamente più deboli) altre opportunità e stimoli culturali. A tal fine occorre incentivare il pensiero divergente, non condannando gli alunni deboli alla loro debolezza, ma offrendo loro stimoli culturali con i quali riprendersi dalla loro apatia. Invece la scuola crede oggi di soddisfare questo diritto all'opportunità regalando il sei.
9) Sulla dirigenza. I dirigenti scolastici dovrebbero limitarsi a gestire le risorse economiche della scuola, e cioè preoccuparsi di manutenere i locali della scuola (in termini di ordine, decoro, pulizia, bellezza); di creare un clima cordiale tra i docenti; di intervenire il meno possibile nella valutazione e nell’autonomia didattica, ma molto di più sui fenomeni di assenteismo e lassismo; dovrebbero essere più professionali e meno protettivi con gli alunni, che già godono dell’eccessiva protezione dei genitori
10) Sui genitori. Ai genitori non deve essere permesso di scegliere le sezioni, di entrare nel merito di valutazioni e comportamenti dei docenti, di far pesare la propria condizione sociale (a cui spesso, insieme ai figli, si appellano per presumere di avere diritto ad una scuola più qualificata). A tal fine occorre scrivere un codice di comportamento anche per i genitori.
Questo progetto per la scuola, che noi consideriamo minimo per il suo riscatto, ha bisogno di una nuova rivoluzione antropologica, che sproni la classe politica a dirottare le risorse economiche nella risorsa scuola. Ma finché le riforme scolastiche le fanno i politici, che per lo più mandano i loro figli nelle scuole private, noi, che di privato abbiamo solo i libri sui quali ci formiamo per il pubblico, siamo destinati alla sola amara denuncia.
venerdì 23 dicembre 2011
Mario Perniola: l'intellettuale organico al sex-appeal di Berlusconi

L’ho visto ridacchiare, compiaciuto, ospite dell’Infedele di Gad Lerner, mentre un servizio compiacente mandava in onda immagini di guerriglia del ’68 e sequenze tratte dai set “telecratici” (Virilio) di Mediaset. Se la rideva, il “grande filosofo”, come recita la quarta di copertina dell’agilissimo volumetto da poco dato alle stampe, davvero poche pagine, dallo spettacolarissimo titolo “Berlusconi o il ’68 realizzato”. Chissà di cosa rideva, forse del pubblico, difficilmente di sé stesso, non c’è traccia di autoironia nelle deflagranti affermazioni del “filosofo”, sicuramente se la rideva di tutti coloro che hanno abboccato alle tragicomiche tesi sostenute appunto nel minipamhlet, che, per farla breve, fa del ’68 la premessa politica e culturale del regime berlusconiano.
Che non sono pochi, quelli che hanno abboccato intendo, a cominciare dallo stesso Lerner evidentemente, che non dice una parola sulla questione, limitandosi a promuoverla acriticamente, alla Repubblica e ad altre autorevoli testate che ne parlano con insolita curiosità e non senza un'esplicita condivisione. E certo, ahimè, questo nuovo sport, praticato a destra come a sinistra ormai (mentre per molto tempo è stato un’attività esclusiva della destra), come si potrebbe definirlo? “scoreggiare sopra il ‘68”? no, troppo volgare, diciamo fare del ’68 un’abbreviazione per qualcosa che deve essere rimosso e obliato quanto prima proprio attraverso il suo logoramento e imbrattamento sistematico (per tradurlo in una di quelle espressioni linguistiche di sapore ormai usuale, come “è successo un ‘48”, per dire di un conflitto sociale, con riferimento ai moti del 1848, ma senza più neppure il bisogno di saperlo, o “è una Russia”, per indicare genericamente uno stato di disordine, con riferimento alla rivoluzione russa. Da qui in avanti si potrà dire infatti: “che fai, un ‘68”?, con riferimento al 1968 ma intendendo: “te le godi” da giovane irriducibile e inconcludente, parassitando i tuoi genitori e in barba ad ogni rispetto per la cultura e il dovere).
Perché è questo che sta accadendo, nel mio più completo sconcerto, e parlo per me perché non avverto in giro gran scalpore o scandalo per questa evidente manifestazione di demenza più o meno senile. E da tempo. Perché Perniola non è davvero stato il primo a formulare una tesi del genere. No, da tempo è strombazzata dagli intellettuali lacaniani per esempio, il simpatico e geniale Zizek in testa, il vero clown della filosofia, capace di infarcire i suoi volumi anche densi con gustosi ammiccamenti sessuali, aneddoti sulla vita di Stalin e Lenin e soprattutto con il suo gusto un po’ grossolano, a dire il vero, per il cinema, specie per il filone pop-fantasy, Matrix insomma per intenderci. Lui è stato tra i più incisivi a scatenarsi contro il ’68, vero male del ‘900, induttore di quella coazione al godimento, secondo le sacre scritture del padre-dio Lacan, il “soggetto supposto sapere”, che già aveva profetizzato la trasformazione del super-io normativo freudiano in un super-io trasgressivo il cui unico imperativo avrebbe suonato, per i seguaci della setta: “godi!”. Di qui il passo è breve, quindi. E’ il ’68 ad avere prescritto il godimento generalizzato, è dunque lui ad avere promosso la società dei consumi e dello spettacolo, è lui ad aver alienato il nostro desiderio, è lui ad aver generato nuovi padroni, non più patriarcali ma buffi e cialtroni, insomma Berlusconi.
Teorema dotato certo di un astruso fascino, non c’è che dire, perché ha una sua intonazione seduttiva. A recitarlo qui da noi ci sono vari personaggi, più o meno noti, da Recalcati a Magrelli, da Perniola a Beppe Sebaste e via discorrendo.
A me la cosa suscita un moto di violenta indignazione, non tanto per la diagnosi della società contemporanea, forse vittima di quello “sgravio” di cui parla con ben più dotta prosa Peter Sloterdijk ma non per questo certo esentata dall’imperativo del sacrificio e dall’alienazione del proprio surplus di valore, checché se ne dica. Società dove certo non vige una liberazione generalizzata, come avrebbe voluto il cosiddetto ’68, ma una approssimazione al godimento (ma quale esattamente, quello della pornografia televisiva e delle escort?) in ogni caso che ha pochi, se non pochissimi autentici fruitori. Semmai vi sono moltissimi eccitati a mete di piacere di cui al massimo possono godere i simulacri, le immagini, le riproduzioni. Ma il ’68 non celebrava certo la società dello spettacolo, la cui analisi per altro lo precede di qualche anno, ad opera di quel Debord che tra l’altro Perniola conosceva bene, essendo stato, a suo tempo, un situazionista. E certo è curioso che un partecipante al ’68, in una delle sue manifestazioni più interessanti e singolari, oggi ne sia il detrattore tanto scatenato. Ma è un fenomeno vecchio anche questo, quello del “pentitismo”, quello della svalutazione di una giovinezza che non c’è più e che ha lasciato dietro di sé solo disperazione e fallimento.
Se c’è una diagnosi seria del ’68 e dei suoi sviluppi, è solo quella che ne ha, da tempo, decretato la sconfitta, proprio nella cultura degli anni ’80 e ’90, falsamente e classisticamente permissiva. La cultura di un capitalismo che sta facendo a pezzi il mondo, letteralmente, quando il ‘ 68 era anche e soprattutto caratterizzato dalla sensibilità critica per le derive internazionali dell’imperialismo (allora lo si chiamava così, prima della globalizzazione), per esempio con il sostegno al Vietnam. Il ’68 traeva la sua linfa da un’infinità di punti di pescaggio, da una cultura che mescolava la Teoria critica di Francoforte con gli orgoni di Reich, l’antipsichiatria e il teatro della crudeltà, Cooper e Vaneigem, Freire e Fanon, Artaud con Benjamin, Sartre, Levi-Strauss e Fourier (appena dato alle stampe in quel periodo) con Marcuse e il giovane Marx. Ma come si può confondere, anche solo sul piano culturale ( e senza parlare dell’arte, dell’economia, della letteratura, della sociologia, della politica), quelle radici, di così grande dignità culturale, con il ciarpame neopopulista e neofascista del ventennio berlusconiano, con il suo nulla (neppure lo spiritualismo o il futurismo che sostennero il fascismo)? Con una subcultura pop-mafiosa?
Giovanilismo, rifiuto della scuola, della cultura, dell’università, liberazione sessuale e del desiderio, dell’immaginazione, queste le colpe poste in equazione al “progetto” berlusconiano di cui delira Perniola. Ma di cosa stiamo parlando? Certo, il ’68 fu una rivoluzione, forse giova ricordarlo, che mise in discussione tutto (“Vogliamo tutto” recitava un testo famoso di Nanni Balestrini) ma nel senso che tutto doveva essere sovvertito, la cultura ingessata e autoritaria, la scuola di classe, l’università elitaria, la famiglia cattolica e repressiva, la sessualità gerarchizzata, interdetta e ibernata (forse occorrerebbe ricordare l’immensa rivoluzione di cui furono protagoniste le donne, in quell’epoca, a favore anche di un ripensamento maschile? Il che spiega probabilmente anche perché tra i tanti detrattori odierni del ’68 ci siano pochissime donne, che io sappia).
Ma come si fa a non cogliere l’elemento vitale, collettivo, emancipatorio di quella progettualità, buona e giusta, e soprattutto a non vederne la macroscopica incompatibilità con il “deserto del reale”, così come ha definito in uno dei suoi migliori libri, proprio Zizek, l’attuale stato delle cose? E’ stato il ’68 a muovere tutto e a scatenare come una valanga di neve ciò che ha poi deflagrato nel nulla odierno? Tesi davvero improponibile e balorda. Forse si dimentica la saldatura che vi fu tra movimento studentesco e movimento operaio, la portata collettiva e partecipativa di quel grande movimento, che non è stato il detonatore di una alquanto supposta civiltà del piacere (purtroppo!!!) ma semmai che è stato lentamente e duramente sconfitto da un capitalismo canceroso che ne ha sfruttato alcuni elementi scorporati per asservirli ad un nuovo, pervasivo e più potente sistema di dominio. Cui evidentemente non sfuggono né Perniola né Zizek, se hanno bisogno di sfruttare a loro modo tesi così “spettacolari”, così evidentemente paradossali da sconfinare nella “butade” dell’attore consumato, nel birignao, nell’ossimoro utile solo a scatenare tempeste mediatiche inutili e distruttive. Che utilizzano proprio ciò che fa del capitalismo attuale un terribile avvelenatore, la legge assoluta dell’equivalenza, così ben sottolineata da Sloterdijk in uno dei suoi testi. La legge che ha fatto di tutte le cose pezzi interscambiabili, che possono essere sostituiti l’uno con l’altro senza che nulla cambi, la legge dell’equivalenze generalizzata, artificio peggiore di una reazione atomica, che rende impossibile produrre una qualsivoglia sporgenza sopra il deserto del reale. Per il quale dunque il ’68 può essere uguale a Berlusconi e viceversa, o la destra può essere sinistra e così via, come aveva già lucidamente cantato Giorgio Gaber. E’ però una tristezza constatare che tanta (supposta) intelligenza si presti a questo disegno sterminatore, con un sottile godimento, tra l’altro, proprio il godimento che imputano alle “masse” (un chiaro gaudente di questo genere è l’inossidabile Cacciari!). E qui emerge la loro vera identità. Si tratta di intellettuali iperaristocratici, proprio loro, che hanno tifato per il pop e per il rovesciamento delle categorie tradizionali dell’estetica o della morale, gli immoralisti, gli ermeneuti della Coca-Cola e dei blue-jeans. In realtà sono quelli che odiano la “gente” e che pur di continuare a sembrare diversi, pur di sentirsi delle star, anche sul pianeta dei Berlusconi, giocano il gioco osceno, il gioco mortifero, il gioco pornografico del fare di tutto l’eguale del tutto, del ’68 quindi –incredibile – la stessa cosa di Berlusconi.
Questo è l’intellettuale organico al sex-appeal di Berlusconi, l’intellettuale elitario di cui mi vergogno e per il quale invoco e spero un nuovo ’68, magari proprio da parte di quegli indignati di cui “gente” come Perniola ironizzava tutto goduto l’altra sera da Gad Lerner.
Etichette:
68,
berlusconi,
lerner,
perniola,
zizek
domenica 30 ottobre 2011
Laboratori immaginali d'infanzia
C’è silenzio in aula, un silenzio colmo di attenzione, concentrazione, contemplazione. Sta parlando un’immagine e i bambini la stanno ascoltando con la partecipazione di tutti i sensi, la sfiorano, fanno scorrere lentamente le loro dita lungo i contorni del quadro e tra le linee nere che disegnano forme inconsuete, si muovono tra le sfumature di colore e ne percepiscono la corposità e il diradarsi. Avvicinano il loro viso al quadro oppure lo allontanano per vederlo da un’altra distanza, lo capovolgono o lo mettono in posizione orizzontale per osservarlo da diverse prospettive.
E’ il primo passaggio di un esercizio immaginale proposto ad alcune classi della scuola primaria all’interno di un progetto di sensibilizzazione alla diversità e alla disabilità promosso dall’associazione L’Abilità. E’ il momento della visione a cui i bambini sono introdotti e predisposti dall’ascolto di un brano musicale e dall’invito a concentrarsi sull’opera, che ognuno di loro ha sul proprio banco, con rispetto e accuratezza. Dopo la visione chiedo ai bambini di girare il quadro e lo spazio bianco del foglio apre e favorisce una fase di meditazione silenziosa in cui cominciano a disegnarsi appassionate e precise descrizioni, riproduzioni del quadro attraverso le parole, e accenni di interpretazioni. Dopo una prima scrittura, i bambini alternano nuove visioni con altri affioramenti di particolari e dettagli che condividono durante la circolazione. Ognuno legge quello che ha scritto, ciò che ha visto, in un’atmosfera protetta e depurata da qualsiasi frenesia di prestazione e di giudizio che impedirebbe il fluttuare e lo scambio di timide emergenze di senso e bloccherebbe il dialogo che i bambini intraprendono tra di loro e con il quadro. Un dialogo attraverso cui emergono nuovi particolari, si approfondiscono i dettagli e si cercano insieme possibili risposte e significazioni della diversità e della disabilità con l’opera del pittore francese Georges Rouault “Il pagliaccio ferito”. Opera ambigua e ambivalente dai colori opachi e accessi situata tra la luce e il buio, l’alba e il tramonto e che situa in uno spazio di dubbi e contraddizioni, in cui spesso i bambini faticano a sostare e mi chiedono di svelargli il senso dell’opera, il suo segreto. Un’ immagine che parla di tristezza, malinconia, dolore, ferita, morte, di quelle dimensioni legate visibilmente e indissolubilmente alla disabilità, ad ogni condizione di minorazione. I tre personaggi, marionette o figure umane, sono segnati dalla ferita, portano su di sé il segno del danno, per natura o per determinazioni esterne. Hanno uno sguardo basso, vuoto, «uno solo vede veramente la luna, gli altri la vedono immaginandola», descrive un bambino, ma anche «la luna li guarda» aggiunge un altro. La loro postura instabile e claudicante esprime un momento di debolezza e sofferenza di cui si fa spettatore e custode il personaggio più basso, una figura mercuriale e bricconesca che sembra offrire agli altri due un dono prezioso per una possibile guarigione o forse vuole giocare un tiro scherzoso e maligno. E ancora l’immagine parla ai bambini nascondendo e svelando un volto, in alto, nella cornice interna del quadro. Una figura enigmatica, indefinibile nel genere e nell’età, uno stregone con un pappagallo sulla spalla, una figura diabolica che sembra essere indifferente alla tristezza dei personaggi, ma anche una figura numinosa che plasma e forse dipinge il quadro, una sfinge che pone l’enigma della presenza misteriosa del male o un burattinaio che anima e manovra le sue marionette, che è chiamato a integrare il dire e il muoversi frantumato e parziale di coloro che si trovano ad affrontare il mondo in condizioni di particolare minorità, “ponendo le condizioni perché una soggettività compromessa e deficitaria possa ambire a una sua riconoscibilità”.
Questi sono i primi e provvisori significati di un’esperienza in corso e appena iniziata ma che cominciano ad offrire una prima rinnovata e approfondita visione dell’oggetto, una visione che fa emergere la complessità e la molteplicità dei volti della disabilità, oltre la sua medicalizzazione e al di là dell’atteggiamento compassionevole o di sottile scherno che esprimono anche i bambini, già condizionati dai pregiudizi e stereotipi della nostra società che emargina e allontana ciò che è differente, che può spaventare, che è minorato, in ritardo, incapace e impossibilitato ad alzarsi e a correre al ritmo serrato di ogni crescita e progresso. Per questo ci sembra necessario continuare a pensare e istituire un laboratorio immaginale per i bambini, uno spazio e un tempo prezioso e concentrato dove venire in contatto con l’inconsueto e il misterioso nell’incontro particolarissimo con l’opera d’arte per esplorare, perdersi e sostare nella ricchezza inesauribile dei suoi significati, per arricchire l’immagine e l’immaginazione del volto misterioso e profondo della minorità e della differenza.
Concludo questo post, e ogni incontro, con i titoli attraverso cui i bambini “ribattezzano” l’opera, gli offrono in dono un nuovo e rinnovato nome.
«Una grande disperazione. Il personaggio ammalato e ferito. L’alba triste e grigia. Era notte…Le persone che si aiutano l’un l’altro. Aiutarsi a vicenda. Bisogna affrontare… La differenza umana. Un dono non accettato. Anche se burattino ferito».
E’ il primo passaggio di un esercizio immaginale proposto ad alcune classi della scuola primaria all’interno di un progetto di sensibilizzazione alla diversità e alla disabilità promosso dall’associazione L’Abilità. E’ il momento della visione a cui i bambini sono introdotti e predisposti dall’ascolto di un brano musicale e dall’invito a concentrarsi sull’opera, che ognuno di loro ha sul proprio banco, con rispetto e accuratezza. Dopo la visione chiedo ai bambini di girare il quadro e lo spazio bianco del foglio apre e favorisce una fase di meditazione silenziosa in cui cominciano a disegnarsi appassionate e precise descrizioni, riproduzioni del quadro attraverso le parole, e accenni di interpretazioni. Dopo una prima scrittura, i bambini alternano nuove visioni con altri affioramenti di particolari e dettagli che condividono durante la circolazione. Ognuno legge quello che ha scritto, ciò che ha visto, in un’atmosfera protetta e depurata da qualsiasi frenesia di prestazione e di giudizio che impedirebbe il fluttuare e lo scambio di timide emergenze di senso e bloccherebbe il dialogo che i bambini intraprendono tra di loro e con il quadro. Un dialogo attraverso cui emergono nuovi particolari, si approfondiscono i dettagli e si cercano insieme possibili risposte e significazioni della diversità e della disabilità con l’opera del pittore francese Georges Rouault “Il pagliaccio ferito”. Opera ambigua e ambivalente dai colori opachi e accessi situata tra la luce e il buio, l’alba e il tramonto e che situa in uno spazio di dubbi e contraddizioni, in cui spesso i bambini faticano a sostare e mi chiedono di svelargli il senso dell’opera, il suo segreto. Un’ immagine che parla di tristezza, malinconia, dolore, ferita, morte, di quelle dimensioni legate visibilmente e indissolubilmente alla disabilità, ad ogni condizione di minorazione. I tre personaggi, marionette o figure umane, sono segnati dalla ferita, portano su di sé il segno del danno, per natura o per determinazioni esterne. Hanno uno sguardo basso, vuoto, «uno solo vede veramente la luna, gli altri la vedono immaginandola», descrive un bambino, ma anche «la luna li guarda» aggiunge un altro. La loro postura instabile e claudicante esprime un momento di debolezza e sofferenza di cui si fa spettatore e custode il personaggio più basso, una figura mercuriale e bricconesca che sembra offrire agli altri due un dono prezioso per una possibile guarigione o forse vuole giocare un tiro scherzoso e maligno. E ancora l’immagine parla ai bambini nascondendo e svelando un volto, in alto, nella cornice interna del quadro. Una figura enigmatica, indefinibile nel genere e nell’età, uno stregone con un pappagallo sulla spalla, una figura diabolica che sembra essere indifferente alla tristezza dei personaggi, ma anche una figura numinosa che plasma e forse dipinge il quadro, una sfinge che pone l’enigma della presenza misteriosa del male o un burattinaio che anima e manovra le sue marionette, che è chiamato a integrare il dire e il muoversi frantumato e parziale di coloro che si trovano ad affrontare il mondo in condizioni di particolare minorità, “ponendo le condizioni perché una soggettività compromessa e deficitaria possa ambire a una sua riconoscibilità”.
Questi sono i primi e provvisori significati di un’esperienza in corso e appena iniziata ma che cominciano ad offrire una prima rinnovata e approfondita visione dell’oggetto, una visione che fa emergere la complessità e la molteplicità dei volti della disabilità, oltre la sua medicalizzazione e al di là dell’atteggiamento compassionevole o di sottile scherno che esprimono anche i bambini, già condizionati dai pregiudizi e stereotipi della nostra società che emargina e allontana ciò che è differente, che può spaventare, che è minorato, in ritardo, incapace e impossibilitato ad alzarsi e a correre al ritmo serrato di ogni crescita e progresso. Per questo ci sembra necessario continuare a pensare e istituire un laboratorio immaginale per i bambini, uno spazio e un tempo prezioso e concentrato dove venire in contatto con l’inconsueto e il misterioso nell’incontro particolarissimo con l’opera d’arte per esplorare, perdersi e sostare nella ricchezza inesauribile dei suoi significati, per arricchire l’immagine e l’immaginazione del volto misterioso e profondo della minorità e della differenza.
Concludo questo post, e ogni incontro, con i titoli attraverso cui i bambini “ribattezzano” l’opera, gli offrono in dono un nuovo e rinnovato nome.
«Una grande disperazione. Il personaggio ammalato e ferito. L’alba triste e grigia. Era notte…Le persone che si aiutano l’un l’altro. Aiutarsi a vicenda. Bisogna affrontare… La differenza umana. Un dono non accettato. Anche se burattino ferito».
lunedì 4 luglio 2011
Accademici letterali

I loro libri li riconosci al primo colpo d’occhio. Massicci, lineari come incroci nel deserto, dal colore indefinito e sudicio, senza immagine alcuna chè sono ispirati dalla peggiore iconoclastìa, scritti a carattere piccolo e normotipo. Grigi, salmodianti e tetri. Accumulano prove e citano all’impazzata, allineando riferimenti come i galloni di un’uniforme. Piatti e deduttivi, ogni concetto bonificato da qualsiasi traccia emozionale, poiché son patofobici all’inverosimile. Per loro ogni concessione all’apparenza è colpevole, ogni sospetto di seduzione, di ammiccamento, di sofisticazione è passibile di immediata scomunica, le armi solo quelle della verbosa retorica e del rigorismo ascetico. Parole scorticate e prosaicizzate affinchè nulla di troppo ambiguo vi sfugga, dittatura della denotazione e della asciuttezza, imperativi pragmatici ad ogni più sospinto, timore di esondare in spasmi di entusiasmo o, peggio, di slanci poetici e affabulatori. Il loro dio è l’utile, il loro strumento il pragma, la loro motivazione è l’eroismo punitivo, il loro proposito l’uniformazione alla legge.
I bigi chierici della parola ben finalizzata, temperata sul fuoco della prova di efficacia concettuale ma irrimediabilmente destinata a produrre noia e ripugnanza, dilagano ancora nella provincia del ben pensare. Specie nelle fucine accademiche, dove il loro credo si puntella spesso con le presunte buone ragioni del contrapporre le concrete pratiche e solerti all’aulicismo presunto della fucina filosofica o agli eroici furori considerati fatui delle passioni sensibili.
Contrari, per irrigidimento della colonna –propria- e della costola –libraria-, al “demone dell’analogia”, seminano l’aere già costipato dal nulla, di nuove macchinose elucubrazioni sedicentemente parate sotto il vessillo dell’utile e del maneggevole ma in verità (ma qui alligna il vero occulto appagamento narcisico) annegate in una complessità che richiede protratta e anchilosata applicazione affinchè se ne deduca anche il più piccolo ( e spesso piccolissimo), ritorno di senso. Sia detto per inciso, alcuni sono animati dalle migliori intenzioni, fuori e dentro la provincia accademica, ma il problema da porsi è come sciogliere il grano duro delle loro prose forbite e aristocratiche per alimentare il gusto del sapere, il piacere di conoscere, come appassionare menti e cuori ai nocciòli più celati della cultura ma anche alla polpa sugosa.
Per evitare le paludi romantiche delle grandi idee dalla tribolata applicabilità (pèrò adatte a scuotere e risvegliare nel nome di un sapere sapido e succolento), si arenano nella sabbia ustoria ma talvolta anche mobile delle dissertazioni complicate e interminabili, spesso accompagnate da rendiconti empirici e controprove fattuali (dio scampi che essi non siano portatori dell’ausilio della verità riscontrata in atto), la cui compulsazione risulta indigesta anche al più daimonico dei lettori. I loro titoli sono brevi e anonimi, le loro copertine disseccate come cadaveri preistorici, i loro contenuti raffermi e improbi. Ma essi menan vanto proprio di questo: del non aver indulto agli eccessi di spettacolarizzazione (sommo peccato della cultura contemporanea), del non drogare i loro messaggi con ornamenti e cosmesi non richiesta ma soprattutto ( e qui ne emerge il volto irrimediabilmente compromesso di catecumeni penitenti) di aver del tutto espunto e diserbato il territorio di ogni traccia di libido che non sia quella pia e conserta delle cose concrete e “utili”, o dell’astrazione assoluta. Con una perversione maligna che è anche quella per la quale ha senso imparare solo se è arduo e ancor più arduo: nessun alleggerimento, anzi, se possibile aguzzare il male, scrivere piccolo, ingombrare di inutili e verbose citazioni, arzigogolare, azzerare le immagini, divinità infide e seduttrici, solo deve restare la scabra pagina bianca caricata di segni dall’improba comprensione, pagina iniziatica, selettiva, implacabile.
Ed è allora facile anche riconoscerli nelle loro diafane epifanìe: trascurati e sciatti, malvestiti e inodori, asettici, dai sorrisi fossili e senza bersaglio (tipico dell’amor agapico dei bravi cattolici: amar tutti per non amar nessuno), apparentemente gentili e in realtà feroci e invidiosi di ogni bellezza, specie se umana, specie se agghindata, specie se apprezzata. Brutti e indesiderabili, infestano i luoghi dell’istruzione, dove hanno eretto da secoli la loro fortezza e imperversano senza timore sulla specie umana ai suoi albori e, purtroppo, assai anche in seguito. Finché ne han destro, diciamo. Ché l’estro invece, di quello, son manchi.
D’essi una controeducazione nel piacere fondata e piena si vuol emancipare in tutti i modi, rifornendo il mondo dei precetti di Afrodite sull’aspetto, sulla seduzione, sul gusto d’immagine e sui suoi monili. Scatenando ovunque le frecce velenose e guaritrici di Eros, che perforino pelli e le lacerino fino a che urla e godimento faccian tutt’uno. Serpenti e mandragore affollino gli spazi incolti e spigolosi dove gli adunchi diffusori della noia generalizzata e del vaccino contro il desiderio imperversano, e ne concimino la dura sterpaglia. Affinchè cresca foresta fitta e stillante d’acqua di mimosa.
Si vogliono maestri attraenti e ben coltivati, dalle vesti preziose e dal profumo intenso, dai volti sapienti ma non indigenti di appassionamenti, cari a se stessi e disposti ad amare anche l’altro, con occhi accesi e parole fluenti. Si voglion libri veri, intarsiati dal sudore del tempo oppure anche nuovi ma colorati e piccanti, scritti con desiderio e di desiderio infusi, accattivanti e avventurosi, saporosi e fondi, come pozzi dove risuona il sottosuolo tiepido e umido o come il firmamento, dove le costellazioni vibrano la loro nota mercuriale e luminosa. Libri con immagini, con figure, libri sonori, libri come pasta di terra, che mentre li maneggi palpitano e traspirano, ti afferrano e ti trattengono, ti guardano e ti sorprendono.
Libri che i nostri adunchi nemici getterebbero nella Geenna, offesi dal vilipendio all’ascesi di un’ipostatica cultura tutta ossari e ritiri nel deserto. Libri che li facciano inorridire perché capaci di irretire al primo sguardo, tentacolari e mobili, irrorati dalla rugiada del desiderio, non più neppure libri ma corpi intarsiati e dionisiaci, danzanti e ammiccanti come baiadere.
Libri che nessun accademico di vaglia citerebbe mai, che mai questi dementi inserirebbero in bibliografia o proporrebbero ai propri studenti da esaminare, libri che li terrorizzerebbero perché capaci persino di appassionare e di emozionare. Giammai! Il libro come cilicio, l’esame come sanzione, lo studio come castigo, il sapere come vessazione. Questo il vangelo dei catecumeni della vera scienza, ora in coda per essere ammessi alla prova dell’impact factor ma comunque pronti a escogitare pomici di conoscenza ispida e ingrata a test e a tesi.
Orrido sciame di cavallette devastatrici, come liberarsi di questa infausta genìa, come sgombrare la radura dell’imparare dalle loro zampe ungulate e feroci? Come scacciare la peste di questi sgobboni del nulla, di questi cimeli dell’autolesionismo crudele e reiterato?
Forse davvero con l’apprender dolce e conviviale, con la lussuria della conversazione e della contemplazione felice, con libri sapidi e voluttuosi, con maestri del cuore e dell’eloquenza, con l’hammam fluente e nuovo di una radura, di un dare e di un ricevere nel segno della gratuità, della meraviglia, dell’avventura e della festa. Tramite il ludico, tramite il teatro, tramite l’immaginazione attiva e la musica, tramite il calore di corpi in mutua sintonìa, nel ritmo di una temporalità densa senza essere melensa, languida ma non spossata, febbrile senza isterie, allietata dal cibo, dal riposo, dall’espansione corporea e dal coito dei pensieri liberi e imprevidenti.
Etichette:
accademici,
controeducazione,
libri,
radura,
università
Iscriviti a:
Post (Atom)