venerdì 11 marzo 2011

L'opera di "distillazione" di Peter Brook

Poche e lievi note spinte nell'aria da un pianoforte si distendono, avvolgono e abbracciano gli spettatori nello spazio vuoto del teatro, alcune canne di bambù, che dalla terra si innalzano verso l'alto invocando la presenza di un cielo necessario, riempiono un palcoscenico spoglio, un uomo lo attraversa: ha inizio la rappresentazione.
Così è incominciato Un flauto magico, l'ultimo spettacolo di Peter Brook, così il regista britannico ha dato un senso alla sua necessità di fare teatro: un'opera di "distillazione" che toglie, elimina, purifica per arrivare a restituirci un'opera essenziale, simbolica, un microcosmo che si ricostituisce ogni volta all'interno di uno spazio vuoto, a cui il teatro trasmette "il gusto fuggevole e bruciante di un altro mondo in cui quello della quotidianità si integra e si trasforma". E Brook sembra farsi custode di questo spazio elettivo, ispiratore e tutore di un'operatività alchemica che cuoce nell'alambicco del teatro la materia prima dello spazio, degli attori e degli spettatori per creare, attraverso una progressiva eliminazione, il vuoto.
Il vuoto dello spazio è una radura, un cerchio magico che consente un rapporto diretto tra gli attori e il mondo, un luogo propizio illuminato e circondato dall'oscurità che favorisce la concentrazione dell'attore e dello spettatore, è un tappeto che Brook utilizza per tutte le improvvisazioni fuori dal teatro, in mezzo alla natura, che condensa e delimita lo spazio di rappresentazione designando quella rottura ontologica indispensabile perchè il teatro si manifesti. E' il teatro parigino de Les Bouffes du Nord: un edificio e un rifugio, vitale e funzionale, situato ai margini della città che attrae Brook per la sua bellezza di rughe, per la bellezza delle rovine: "bruciacchiato, macchiato dalla pioggia, tappezzato di buchi e tuttavia nobile, umano, rosso, incandescente". Un luogo impuro, doppio, sorprendente e ambiguo che diviene simbolo di un luogo ritrovato e rianimato. Uno spazio che Brook prepara ogni volta coltivando quell'intimità tra sala e scena che vieta l'ampiezza degli effetti e facilita il riavvicinamento dei corpi, che permette di percepire ogni minima sfumatura di rumore, la pesantezza e la leggerezza dei passi nudi degli attori. La distanza intima fa percepire la luce degli occhi, il pallore di un volto, il placarsi e il soffrire, vediamo gli attori e gli attori ci vedono.
Il vuoto dell'attore è il processo di spossessamento dell'io verso quella qualità di presenza "speciale" che spazza via l'individualità umana e ricolloca il corpo in una dimensione pre-espressiva, transculturale. Attraverso un momento iniziale di dissoluzione, di eliminazione di tutto ciò che non è necessario, dei condizionamenti delle abitudini, l'affollarsi delle emozioni e le resistenze della ragione, il corpo dell'attore si fa intermediario: un organismo vivo da cui scaturisce l'energia vitale che si configura in molteplici immagini sottili che prendono forma e si irradiano nello spazio mediatore della scena, della spazialità teatrale. Come il corpo di Yoshi Oida, attore giapponese del gruppo internazionale di Brook, che durante un esercizio di improvvisazione si fa aria, acqua, terra e fuoco concentrando la sua energia nel momento di sospensione in cui l'intenzione dell'attore è decisa e sta per fare, nella miniaturizzazione del movimento, nell'immobilità in moto del corpo e del pensiero. L'attore giapponese riesce ad evocare, al di là della forma esteriore, una realtà più vasta, a riconnettersi all'universo rimanendo, come lui stesso racconta, tranquillamente fermo, "solo in mezzo all'agitarsi di corpi che si contorcevano in tutte le direzioni, strisciavano per terra, emettevano suoni da alta voce".
E nel vuoto del teatro, da cui proviene e in cui si raccoglie l'evento che sta per germogliare, lo spettatore è condotto e coinvolto dal desiderio dell'attore nel momento presente della rappresentazione, nell'immediatezza di un teatro che riallaccia legami perduti, in un atto di comunione che lo fa partecipare a un'esperienza collettiva, diffusa e avvolgente, a una percettività corporea, a una visione e a una comprensione trasformata e rinnovata.
Se il teatro, come afferma Brook, esiste solo quando accade, scrivendo di teatro ci si dedica forse a un atto assurdo, contro natura, se non addirittura impossibile. Ma proprio perchè impossibile, così come tradurre, si prova ogni volta a raccogliere la sfida con l'aiuto delle parole. Parole che, come suggerisce Eugenio Barba, non vogliono fissare e rinchiudere l'esperienza in teorie e concetti, ma volando come farfalle dalle ali leggere, tra luci e ombre, ci vengono incontro per evocare l'esperienza, per divenire presenza, per testimoniare un bagliore, un soffio, la vita di una scena di teatro.