mercoledì 10 novembre 2010

Il sapere come dono e l'esame come restituzione

L’esame scolastico, istituzionale, è figlio di una cultura della misura e del controllo. Una cultura dell’educazione che ritiene che la procedura dell’insegnamento sia realizzata quando il sapere, considerato come qualcosa che preesiste al momento dell’istruzione stessa, possa essere poi in qualche modo verificato dopo che è stato veicolato. Operazione meccanica, anche se espressa in innumeri maniere, che vede l’insegnamento come un travaso, come una trasmissione, informaticamente, come un transito, e non, per esempio, nel senso serio e più intrigante che ha dato a questa nozione Mario Perniola, quando parla di transito da sé a sé, dallo stesso allo stesso.
Anche laddove vi è consapevolezza della processualità dell’opera educativa, laddove se ne predica la metaforica platonica della maieutica o dello svelamento, della generazione o dello scatenamento, l’esame resta confinato nella sua struttura di procedura di controllo, a volte rivestito dell’abito della ricerca o dell’ascolto, ma pur sempre finalizzato a vedere ciò che è stato prodotto, a misurare e a comprendere l’effetto. Questo sistema a me pare legato ad una logica produttivistica, efficientistica e fisicalista della cultura pedagogica, che nell’epoca contemporanea poi si tecnicalizza in procedure sempre più sofisticate e modulate variamente, sul piano strumentale, ma non meno univoche su quello strutturale.
A questa logica voglio contrapporre l’idea di formazione come dono, di apertura del sapere e di condivisione della conoscenza. Un’idea partecipativa che mira all’attrazione appassionata e alla coltivazione di una ricettività diffusa e fluida, curiosa e non giudicante. L’azione dell’insegnamento come potlacht o come dissipazione, come debordamento e come dispersione, come deriva e come prassi simbolica, fa cadere ogni esigenza di controllo. Anche perché non c’è più nulla da controllare. Il campo del sapere, non più presupposto come dominabile e segmentabile, è sempre aperto e fluido. Il contributo che offre chi insegna, presenta implicitamente falle e punti di pescaggio da dove chiunque vi partecipi può derivare imprevedibili direzioni di sviluppo, trasformando continuamente, non tanto il modo in cui l’insegnante propone la sua forma, quanto la configurazione in fieri che ne trae come discente. Da questo punto di vista nessuna esigenza di controllo e di misura e neppure l’esigenza del tutto autoriferita di verificare se qualcosa è successo. Il gesto compensatore di una pratica di formazione come dono e condivisione è invece quella della restituzione, come ritorno di qualcosa di non predefinito (al dono si corrisponde con il dono) e della riconoscenza/riconoscimento, nella forma del ringraziamento e dell’accoglimento. Per chi insegna è il fatto stesso dell’ascolto, della partecipazione e della ri-conoscenza che si fa atto di conferma, e che costituisce di per sé indizio di un’auspicabile moltiplicazione esperienziale. In tal senso restituzione e riconoscimento possono essere espressi in modi diversi e imprevedibili che possono non avere affatto a che vedere con il sapere trasmesso, ma semmai con la configurazione che l’esperienza ha assunto. La restituzione può essere un oggetto fisico o un gesto, una danza o un canto, uno scritto o un’immagine. L’esperienza formativa non ha nessuna intrinseca necessità di essere misurata, essa si dà quando si dà, come perfettamente compiuta all’atto della sua effettuazione. L’atto del controllo e della misurazione è solo un gesto disciplinare che la inscrive in una finalizzazione estrinseca di tipo ideologico o istituzionale. Intrinsecamente ogni esperienza di insegnamento è invece semmai tramata da gesti di interrogazione e di intesa, di confronto e, laddove ve ne sia necessità, di prova, di gioco e di simulazione. Ma questo modo di cercare non è mai ordinato nella forma del controllo esterno, semmai della conferma interna, del bisogno di percepire la reciprocità della comprensione. Si conclude all’interno dell’esperienza di insegnamento e non chiede supplementi, a meno che questi non siano indotti dal desiderio di ripetere e andare più a fondo.

lunedì 1 novembre 2010

Pensare l'anima

E' una figura femminile dal volto antico e dallo sguardo assorto l'angelo che attende alla soglia di questo libro di Donfrancesco. E' lei, la padrona di casa, la "domina" della villa dei Misteri di Pompei che, rivolgendo lo sguardo verso il luogo in cui si celebra il rituale di iniziazione ai misteri dionisiaci, sembra invitarci a partecipare alla vita di quello straordinario affresco miracolosamente sopravvissuto al tempo e al fuoco di cui anch'ella fa parte. E' proprio una personificazione dell'anima a mediare, fin dalla copertina, il nostro accesso a un libro che la ri-guarda con passione e meraviglia riconoscendone la presenza nelle immagini del mondo sensibile trasfigurato dall'arte, in quelle della sofferenza, della morte e dell'esilio intensamente vissute e ri-cordate dalla memoria, nell'esperienza della trasformazione e della bellezza. E forse è proprio attraverso lo sguardo incantato di quella donna, intenta a contemplare un mistero indicibile ed eterno che si manifesta in un momento preciso, nel qui e ora delle immagini di un dramma teatrale, che l'anima pensa se stessa e che il pensiero immaginale – quello del cuore, quella "diversa conoscenza" inseguita da Donfrancesco fin dall'inizio della sua ricerca – si genera e ha modo di dispiegarsi ed esprimersi nella forma che più si addice alla sua natura. Una forma "mitologica e drammatizzante", come sosteneva Jung, non soltanto più espressiva e adeguata a rivelare il tessuto invisibile e archetipico del mondo e dell'esperienza, ma addirittura più accurata e precisa di qualsiasi astratta terminologia scientifica. Una forma metaforica che scaturisce dalla sensibilità "estetica", di chi non si preoccupa di dominare il mondo prendendo le distanze dalla materia viva e ribollente dell'esperienza, di interpretarla letteralmente e riduttivamente imprigionandola in rassicuranti categorie concettuali o imprimendo il marchio esclusivo della propria soggettività su tutto ciò che si presenta al suo cospetto, ma piuttosto di comprenderlo e abitarlo poeticamente riconoscendone le presenze animate e rilegando in immagini di scintillante "bellezza" tutto ciò che quello stile di conoscenza eroico, disincantato e antropocentrico ha rimosso o separato. Restituire luogo, voce e immagine alle dimensioni vulnerabili, fragili e inquietanti dell'esperienza, ricostituire il legame tra materia e spirito, tra soggetto e oggetto, tra concetto e fatto, tra perituro ed eterno è tra le principali preoccupazioni della posizione conoscitiva immaginativa che ben si esprime nella pittura di Cézanne, Music, Bonnard, Morandi, nella poesia di Pessoa, di Garcia Lorca e nell'opera di molti altri invisibili artisti ospitati con estremo riguardo nelle pagine di questo libro.
In una simile posizione conoscitiva, affettiva e partecipativa, e di improbabile validazione "scientifica", sembra essersi consapevolmente e serenamente collocato anche l'autore di Pensare l'anima che con questo volume ci offre il frutto più maturo della sua opera: un affresco delicato e appassionato di testi dedicati all'anima, a lungo meditati nell'alambicco della memoria e ripetutamente rielaborati nel tempo, che ci mostrano il divenire della sua elaborazione teorica scaturita dall'esperienza viva della pratica psicoanalitica e dagli incontri ravvicinati con quella affascinante Signora nei luoghi della memoria, del sogno, dell'arte figurativa e della cultura immaginale. Territori in cui Donfrancesco si è inoltrato con rispetto, cautela e stupore crescente, mai con lo sguardo del medico, dello psichiatra o del critico d'arte, ma piuttosto con quello dell'ospite, dell'apprendista o dell'amante desideroso di contemplare il volto dell'amata, di comprendere e imparare.
Più che costituire il tema di queste pagine, l'anima sembra esserne la musa ispiratrice, la silenziosa presenza che presiede al farsi e al ri-farsi di una elaborazione teorica che assomiglia a ciò che gli alchimisti chiamavano una visione (visio e theoria), che non abbandona mai le immagini a favore dei concetti e non ha mai la pretesa di imporsi come unica o definitiva. Una riflessione dell'anima, mai scissa dall'esperienza vissuta dell'anima, che si dispiega in una trama narrativa immaginosa e appassionata che, senza soluzione di continuità, connette le parole dell'autore con le pagine più intense di Jung, Hillman, Corbin, María Zambrano e di tutti gli artisti, scrittori, pensatori disseminati nel tempo che egli ha incrociato anche soltanto per un breve ma significativo istante, che ha incontrato e amato, e ha riconosciuto come maestri, mèntori e compagni di viaggio.
Un libro pensato immaginativamente, che adegua la sua struttura, il suo stile espositivo, il suo linguaggio e il ritmo della narrazione alle esigenze immaginative dell'anima, che non infligge tagli netti al corpo della materia trattata e non impone all'opera un ordine gerarchico e razionalizzante, ma evoca per noi tre luoghi simbolici entro cui, per tre volte, ci invita a sostare per coltivare l'immaginazione, ospitare gli invisibili e custodire la bellezza, e ci induce ad immaginare.
Un libro raro che riesce a "fare anima" anche nella teoresi, che ri-anima il pensiero e ben corrisponde alla fisionomia e alle intenzioni di quella "psicologia estetica" delineata in queste pagine. Una psicologia poetica che affida il suo sapere all'immaginazione creatrice e si rivolge con rinnovato interesse e rispetto al mondo immaginale dell'arte, per apprendere i modi conoscitivi e assimilare un linguaggio che, come sostiene l'autore, è "sostanzialmente omogeneo a quello dell'anima". Su questo particolare aspetto il contributo di Donfrancesco mi pare estremamente prezioso per il mondo della conoscenza ed anche per quello dell'educazione dove trova accoglienza e corrispondenze nell'ambito della "pedagogia immaginale" che, con simili presupposti ed intenzioni, si è rivolta al mondo immaginale dell'arte, del cinema e della poesia per restituire anima al pensiero pedagogico ed educare alla cognizione immaginativa.

Marina Barioglio







domenica 17 ottobre 2010


Zenone, l’alchimista dell’anima

Una delle intuizioni più feconde e originali dell’opera di James Hillman è quella che si riferisce all’originaria e profonda mutilazione che, già in tempi remoti, la cultura occidentale si è più o meno consapevolmente autoinferta. In molte delle sue opere, Hillman ha richiamato l’attenzione su come all’origine dell’angusto dualismo occidentale corpo/spirito – che è alla base di tutti i principali atteggiamenti schizofrenici della nostra cultura – vi sia il preciso intento, da parte della tradizione teologica dominante imposta inizialmente dalla Chiesa bizantina, di sbarazzarsi della “terza dimensione”, del “terzo genere di essere” che pertiene all’uomo: l’anima. La sede principale dell’immaginazione, ossia del luogo interiore in cui si lasciano ascoltare le “voci degli Dei”, i simboli mitologici degli archetipi della psiche.

Cercando di verificare ulteriormente le illuminanti intuizioni hillmaniane sopra esposte, proverò a prendere in esame il romanzo L’Opera al Nero di Marguerite Yourcenar (1903-87). Il libro, pubblicato a Parigi nel 1968 offre come forse nessun altro, a un lettore non esperto dell’epoca rinascimentale, l’occasione di una affascinante introduzione alla vita quotidiana dell’età di Paracelso e di Giordano Bruno. Nel saggio che fa seguire al suo romanzo, la scrittrice ci tiene a dichiarare la natura soltanto “immaginaria” e “letterararia” di Zenone (il medico-filosofo-alchimista che le cui vicissitudini sono al centro del romanzo). Viene al tempo stesso sottolineato come la figura del pensatore errante le sia stata, fin dalla giovinezza, ispirata dall’esempio delle vite e dall’opera di alcuni dei principali protagonisti del pensiero e della magia rinascimentali: da Paracelso a Leonardo da Vinci, da Cornelio Agrippa a Tommaso Campanella.

Zenone ci si presenta come una sintesi letteraria pressoché completa del filosofo rinascimentale, con i suoi incontenibili slanci scientifici e le profonde incursioni alchemiche (che lo mettono in cattiva luce agli occhi sempre sospettosi del Sant’Uffizio dell’Inquisizione), il suo inquieto vagare per le principali corti europee, i suoi dubbi teologici e la sua spontanea adesione alla religione hermesiana dell’Anima Mundi.

È possibile riconoscere senza troppe forzature interpretative nell’opera e negli amplissimi interessi conoscitivi di Zenone il ritorno in grande stile, in piena epoca rinascimentale, della “terza componente” antropologica: quella dimensione immaginale dell’anima che non si è mai rassegnata a restare in secondo piano nella vita dell’uomo occidentale.

Fin dalle prime battute, quando avviene l’incontro tra il giovane Enrico-Massimiliano Ligre, rampollo di una delle più ricche famiglie belghe, e l’altrettanto giovane Zenone, già intento a inseguire per tutto il mondo allora conosciuto non si sa quale arcana verità, si delinea quella che sarà poi la principale opposizione che informa L’Opera al Nero. Enrico-Massimiliano – al pari del cugino Zenone – è una figura archetipica, che condensa in sé i profondi impulsi corporei dell’uomo occidentale di ogni tempo e nazionalità. Dopo essersi casualmente reincontrati, i due giovani s’intrattengono reciprocamente, raccontandosi impressioni sulla vita e le avventure che erano loro fino a quel momento capitate. Enrico-Massimiliano, che già a sedici anni provava l’irrefrenabile esigenza di affermarsi nell’àmbito degli onori politici e militari, può così dichiarare che scopo della propria vita sarebbe stato quello di “essere uomo”. Il cugino Zenone, al contrario, già a vent’anni aveva ben chiaro l’intento di voler “esser più che un uomo”.

Per chi ancora non avesso compreso come l’età rinascimentale, specie dopo l’intrasingente spaccatura confessionale e politica provocata dalla Riforma teologica luterana, fosse un’epoca tra le più travagliate e dolorose, sotto il profilo politico e sociale, dell’intera storia europea, L’Opera al Nero della Yourcenar offre un’eloquente quadro della cupa ferocia che funestava quei tempi. Dietro le più accanite manifestazioni di zelo e di intolleranza religiosa, si poteva vedere messa in atto la cupidigia e la ferocia degli arroganti potentati di turno, che si dimostravano pronti a mandare al macello le classi popolari a essi sottomesse pur di non rinunciare ai loro privilegi personali.

Messo di fronte alle opposte efferatezze di cattolici e di riformati, facenti entrambi ricorso al “metodico abominio di un supplizio ordinato in nome di un Dio di bontà”, Zenone, fin dalla più giovane età, si sente spinto a prendere le debite distanze da ogni confessione cristiana, sollevando intorno a sé il sospetto, volta per volta, di ateismo o di eresia. Per guadagnarsi da vivere, Zenone esercita l’attività di medico, decidendo così di portare un po’ di conforto ai corpi sofferenti delle persone di più differente estrazione, esuli come lui, bambini perseguitati per il loro credo religioso, nobili moribondi, appestati:

“Qualunque cosa facesse, la meditazione lo riconduceva sempre al corpo, suo principale oggeto di studio”.

L’attenzione del medico-alchimista per i bisogni del corpo, nell’intreccio narrativo va di pari passo con la minuta descrizione del peso dell’esistenza “soltanto corporea” dell’uomo. Il mondo dominato dai più bassi istinti, nel quale lo stretto vincolo tra la sete di potere e di guadagno e quella di un materiale e “meccanico” godimento dei sensi, viene reso attraverso un’eloquente metafora, con la quale la Yourcenar traccia un memorabile ritratto dell’ambiente domestico della famiglia tedesca dei Fugger, i più potenti banchieri dell’epoca:

“Ad altri gli scampanii o lo scoppio delle bombarde, i cavalli scalpitanti, le donne nude o ammantate di broccato, ad essi [i Fugger] la materia vergonosa e sublime, disprezzata pubblicamente, adorata o covata in segreto, che somiglia alle parti nascoste in quanto se ne parla poco ma vi si pensa continuamente”.

Allo sguardo sempre attento e profondo del filosofo ermetico Zenone, le interminabili dispute teologiche che infiammavano la sua epoca – e che rimandavano, sempre mettendo a frutto l’intuizione di Hillman, alla dimensione simbolica dello spirito – apparivano sempre più come il lato d’ombra delle efferatezze che colpivano il corpo abbandonato a se stesso, a queste ultime perfettamente complementari. Lo si comprende in modo particolarmente convincente dalle discussioni che il medico Sebastiano Theus (il nome di fantasia sotto cui si nascondeva prudentemente lo stesso Zenone, allorquando decise di arrischiarsi a tornare a Bruges, il suo luogo natale) intavolava con il priore dei Cordiglieri, l’unica persona che Zenone-Sebastiano reputava degna della propria amicizia e delle proprie confidenze.

giovedì 30 settembre 2010

il prezzo della cultura (simbolica)

Fra le tante inversioni che sta patendo da gran tempo il nostro senso delle cose, si staglia la deprimente controversia sulla redditività della “cultura” (quella dell’arte naturalmente visto che quella dell’impresa invece dilaga proprio per la sua capacità di produrre profitto). Anche grazie alla brillante resurrezione che il nostro governo e il corpo morto dei suoi elettori a rimorchio ne ha prodotto, la polemica antiintellettuale e anticulturale è arrivata a vertici quasi surreali. Senza citare i brillanti e indimenticabili protagonisti di tale polemica, talvolta gridata e muggita come è nell’indole dei suoi più prestigiosi sostenitori, non si può tuttavia tacere sull’insopportabile senso di colpa che sembra assediare coloro che la cultura la curano, la sostengono e l’accudiscono con le loro opere, di fronte alla vergognosa accusa. Quella, appunto, di non essere “produttivi” o “redditizi”.
Ben al di là di ogni ormai evidentemente sterile (per quanto legittima) polemica contro l’impero dell’astrazione-scambio (del denaro cioè) a stabilire ogni orizzonte di senso, diciamo pure di ogni legittimazione all’esistenza per checchessia, forse vale la pena di dire che, in un contesto in cui la cultura, in tutte le sue forme, è avvilita sul piano del suo potenziale di arricchimento e di sviluppo umano, a livelli probabilmente mai verificatisi prima, è una sorta di provocazione paradossale quella prodotta appunto dai fautori della cultura che fa profitto.
La cultura non può fare profitto semplicemente perché tutta l’organizzazione di questa società emargina il valore della cultura. Si dice che essa sia consumata da pochi. Ma d’altra parte che cosa ci si aspetta da una società che progressivamente la cancella ( con la sua storia), tanto per fare un esempio, dalla scuola, dalla strada e dalle piazze, come dalla comunicazione pubblica? La cultura è qualcosa che va coltivato sin dall'infanzia, il valore di un romanzo, di un dipinto o di un’opera musicale, diffilmente aumenterà in assenza di un’educazione a percepirne il potenziale di arricchimento personale e collettivo.
E’ su questo allora che occorre semmai organizzare una battaglia tenace e non certo sulla necessità che le opere della cultura siano fruibili ai più. Occorre semmai che i più possano fruire delle opere della cultura. E questo in virtù di uno straordinario e massiccio intervento, non solo ma certo anche di natura economica, che favorisca, sin da piccoli, e reticolarmente, l’accesso e la sperimentazione delle più varie fonti culturali, dal cinema alla musica alle arti plastiche alla fotografia alla letteratura alla danza e così via. Con la precisa e credo difficilmente contestabile evidenza che questo non produce immediatamente un guadagno economico, ma un arricchimento, inestimabile, dell’esperienza umana. Senza voler calcolare le ricadute in termini di approfondimento conoscitivo del reale (il che non significa però automaticamente di buone condotte morali, perché la cultura è libera e ne esiste anche una versioone trasgressiva e libertina, edonistica e provocatoria) e di apertura all’alterità.
Perché cultura significa soprattutto questo: esplorazione e approfondimento di ciò che è altro da sé, avventura, scoperta sensuosa e sensuale del mondo, acquisizione di una visione simbolica e aumentata della materia e della sua interiorità, del radicamento profondo di ogni cosa come della sua risonanza in un organismo vivente cui tutti apparteniamo.
Perché il valore della cultura sia riconosciuto, occorre smettere di emarginare la possibilità di entrare in contatto con esso, per esempio con sommarie e pragmatiche riforme di scuola e università (che eliminano manco a dirlo proprio la cultura dell’arte e delle fonti simboliche dai suoi programmi) o con l’azzeramento progressivo della presenza di arte e musica dalla televisione e dai mezzi di comunicazione di massa. Con un orientamento radicalmente diverso, di cui v’è sentore e testimonianza in molti altri paesi europei, forse vi sarà più gente a frequentare teatri, mostre e concerti di musica (anche contemporanea!) e qualche investitore sarà meno restìo a finanziarli.
La responsabilità comunque resta anche nostra, quando ci facciamo assalire da un senso di colpevolezza nella incapacità di rendere immediatamente redditizia l’opera culturale. O peggio ancora quando acconsentiamo alla necessità di renderla più addomesticata, più fruibile (orribil termine), più “commerciale” (aiuto!). Nessuna colpevolezza di fronte ad un mondo che vede di buon occhio la scomparsa di ogni fonte critica e di ogni profondità del significato, per poter finalmente disporre a a proprio piacimento di una collettività ridotta a pubblico inebetito e confuso, pronto a tutto per raggiungere mete prescritte e totalmente prosciugato della possibilità di sperimentare la multiforme inesauribilità dell’esistenza. Ancora una volta occorre una “trasmutazione dei valori”, per restituire alla cultura il giusto prezzo, che, come è evidente, non è proprio facilmente stimabile.

giovedì 9 settembre 2010

Paralytic Child Walking on All Fours

"Se dovessi rinascere non farei figli. Un figlio è solo dolore, sofferenza e fatica".
Parole giunte inattese in un istante, senza avviso. Spinte nell'aria grevi e precise da una voce femminile, pronunciate come una semplice e dimostrata verità scolpita, tatuata e vissuta su un corpo materno. Parole scoppiate sulla pelle con l'abbaglio di un sole implacabile, con il riverbero di una luce folgorante che ha innescato e placato, avanzato e arretrato, confuso e rischiarato un vortice di pensieri, emozioni e corpi. Ha dissolto nel suo biancore accecante e improvviso una marea di corpi sofferenti, storpi, claudicanti, rannicchiati, accartocciati, urlanti, inerti e agitati affiorati durante una settimana di vacanza con un gruppo di bambini disabili e i loro genitori.
Corpi paralitici come il bambino deforme, informe, spogliato che cammina carponi nel dipinto di Francis Bacon. Immagine che ci chiede di fermarci, di sostare. Ci urta, ci paralizza, disorienta il nostro sguardo, si aggrappa al nostro corpo e lo coinvolge in uno sforzo arduo, tenace, apparentemente insostenibile di andare al di là della letteralità della realtà, al di là dell'illustrazione e della narrazione della fatica, della sofferenza e del dolore di questo corpo trasmutato dall'opera "alchemica e sciamanica" del pittore britannico, da sempre appassionato e ossessionato dal corpo e dalla sua ombra, la sua carne e che si è dato con il suo corpo per farci vedere, toccare, ascoltare, percepire la materia corporea nella sua inscindibilità di orrore e bellezza.
Un corpo solo, nudo, liscio, essenziale colto nel suo arresto e bloccato dal nero piatto, denso e uniforme che si arrotola lungo i suoi contorni e scava, rosicchia la carne delle braccia rendendo precaria la stabilità e la presenza della figura, ma anche mosso e sospinto dalle sfumature e dai tratti rapidi e scompigliati del verde del tappeto, nel quale sembra circolare una forza invisibile che dà vita e respiro agli organi. Corpo sospeso tra infermità e movimento, in cammino sulla corda tesa della vita tra la nascita e la morte, in equilibrio su una linea sottile che sembra obbligarlo a movimenti sinuosi, eleganti, ammalianti che mettono in risalto la rotondità delle natiche. Un corpo felino con un volto pulito, spazzolato, disorganizzato nei tratti animali della testa da cui ricade un ciuffo fluente e liscio, come una sorta di criniera e da cui emergono due labbra enormi, sproporzionate che circondano l'ingresso della caverna della bocca. Un cucciolo, una fiera che urla, o sussurra, in silenzio e avanza di soppiatto cercando, forse, di travalicare proprio quel confine stabilito dalle separazioni nette tra uomini e animali, normalità ed estraneità che allontanano, tengono a dovuta distanza l'umanità animale, urlante, sbavante, aberrante, in ritardo, incapace e impossibilitata ad alzarsi e correre al ritmo serrato di ogni crescita e progresso. Ma la figura, nel suo appoggiare le mani oltre la sottile linea gialla, devia, forse, un ulteriore confine: quello delle categorizzazioni e dei modelli di comprensione offerti dal predominio del sapere medico-psicologico-sanitario, delle diagnosi, delle patologie, delle sindromi, dei disturbi non altrimenti specificati che spesso rinchiudono e ingabbiano le irriducibili diversità e potenzialità di questi corpi e forniscono rassicuranti e univoci quadri di riferimento e strategie operative e normative a operatori, educatori, genitori, a chiunque capiti o decida di prendere contatto con la pelle di questi corpi.
Un corpo ambiguo e ambivalente, perturbante e inquietante che forse vorremmo sparisse e uscisse al più presto di scena. Ma la porta a vetri lascia aperta la possibilità di una nuova visione di un corpo visibile e sensibile che sembra venirci incontro e che mi è venuto incontro orientando, disorientando e abbassando lo sguardo su un corpo che cammina a quattro zampe sullo sfondo del mistero del male, del dolore, della sofferenza, dell'estraneità, dell'oscurità.
L'immagine offerta da Bacon ci interroga, ci chiede di osare oltre la soglia, di lasciare fuori dalla stanza vissuti, emozioni, giudizi personali e collettivi che possono occultare la vista, ci chiede di abbandonare la nostra postura eretta, dominatrice e calcolatrice per assumere una posizione animale e partecipare con tutto il nostro corpo, la nostra carne, i nostri sensi al corpo dell'immagine e del mondo. Ci obbliga ad indugiare avvolti nel nero, a muoverci leggeri, in punta di piedi, devoti, concentrati in una continua e inarrestabile ricerca di bilanciamento, come funamboli lungo la linea fine e tesa dove si incontrano le antitesi, dove si intrecciano gli opposti e dove si irradia una costellazione di significati che possono arricchire l'orizzonte simbolico-immaginativo di ognuno, e della riflessione pedagogica, e dilatare i modelli di comprensione attraverso cui guardare, percepire, ascoltare tale complessa, oscura e perturbante esperienza, ancor prima di nominarla, di agire, di sovrastarla e allontanarla.
Nell'attesa, possibile, di una rinascita.

sabato 14 agosto 2010

Nel merito del merito (2)

Entriamo allora ancora un poco nel merito del merito. Non senza prima aver avanzato, o prefigurato, per meglio dire, il mondo agognato dai suoi più o meno fanatici sostenitori. Immaginiamolo:
ahi, che orrore! Personalmente non riesce che a pararmisi davanti la più temuta delle tecnocrazie. Falangi di professionisti ad alta competenza in tutti i rami del vivere sociale, efficienti, modellati perfettamente in ordine alle attese del sistema, disciplinati. Un mondo di automi, non molto lontano dalle peggiori predizioni apocalittiche della fantascienza sociologica.
Del resto, ogni selezionato, secondo presunti criteri di oggettività, dovrà o non dovrà corrispondere a un qualche modello di comportamento sociale? E chi stabilirà quel modello, forse la confindustria, come appare oggi nei mitomani del merito?
Non è così ovunque? Chi è il meritevole? Di solito è chi risponde meglio alle consegne tecniche, cognitive, strumentali del sistema di potere cui appartiene, chi è più disciplinato verso i valori, le visioni, le epistemologie e naturalmente gli interessi economici che sostengono un determinato settore operativo, o di ricerca.
A me pare francamente molto complesso designare i migliori in senso meramente tecnico, o di competenze strumentali, come vorrebbe un certo approccio tecnocratico. E poi, se si decidesse davvero in tal senso, si immagina che mondo ne deriverebbe? Molte volte i molto competenti sono persone anaffettive, ferocemente competitive, con scarse doti relazionali, persone che si concedono poco, che conoscono solo il valore del lavoro e della produttività ecc.
Chi è il modello dei meritevoli, del resto? Forse il vecchio primo della classe? Certamente no. Sappiamo bene che di solito quello o quella erano solo i più abili a intercettare le preferenze del professore (o capo) di turno. I più veloci a intercettarne le attese, a compiacerne i gusti. Persone dotate di quella che oggi, al pari del merito e sulla stessa falsariga ideologica, va sotto il nome di “intelligenza emotiva”, e cioè la capacità di realizzarsi manipolando gli altri con la capacità di controllo delle proprie emozioni e di lettura di quelle altrui. Dunque non loro possono essere i veri meritevoli. E allora chi?
Molti vagheggiano test oggettivi, per stabilire il merito. Ma forse fingono di non sapere che non esiste, in nessun campo del sapere, nessuna certezza. Ovvio, qualcuno può rispondere meglio di altri a una batteria di test. Ma possiamo ritenere che un test, per quanto sofisticato sia, non risenta comunque di un sistema di categorie preconcette, di idee, di visioni, di gerarchie, in ordine alla configurazione di valore di un certo ambito di sapere?
Sfido chiunque a definire le regole in base alle quali sceglie i propri collaboratori e a parametrarle su una scala oggettiva di efficacia puramente operativa. Il merito è qualcosa di assolutamente relativo, ed è normale che sia così. Se così non fosse ci troveremmo di fronte a una società da incubo, una società orwelliana.
Personalmente, quando seleziono i miei allievi, di certo non mi limito a vagliarne le competenze tecniche o cognitive nella “disciplina” ma molto mi interessano, e spesso maggiormente, variabili di tenore umano come la comunicazione, la comprensione (anche come “pietas”), la disponibilità, la sensibilità, la complicità, la responsabilità, insomma la stoffa della persona. Per inciso debbo anche dire che, nella mia carriera, ho conosciuto raramente campioni d’eccellenza tecnica (competenti o “geniali”), dotati anche di stoffa umana. Il più delle volte erano violentemente ambiziosi e incapaci di vedere al di là del proprio specifico professionale. Inoltre occorre sempre confrontarsi con il rapporto che i nostri allievi intrattengono con il sapere, che può essere meccanico e passivo, sperimentale e creativo, trasgressivo, pragmatico e strumentale, idolatrico e feticista e così via. E ciascuna di tali modalità individua profili di studioso (e di professore) molto molto diversi.
Forse che per un esame o una prova le cose vanno diversamente? Solo i tecnocrati possono pensarlo, con falsa coscienza, visto che anch’essi sono i portatori più o meno consapevoli di un’epistemologia, di una scala di valori scientifici del tutto relativa e di una specifica e ben determinata filosofia del sapere.
Ad un’esame, per esempio, sono moltissimi i fattori che concorrono alla valutazione di una prestazione, anche di una prestazione scritta, fatti salvi i meri esercizi appunto “tecnici”, che non sono però il fattore determinante di una prestazione di ricerca nella maggior parte delle discipline. Io lavoro nel settore umano e, pur essendo convinto che non sia molto diverso anche nel settore scientifico, specie oggi, so bene che nel mio settore una valutazione è tutt’altro che oggettiva. Forse che in uno scritto, oltre alla precisione, alla correttezza concettuale, non si guarda anche alle capacità dialettiche, alla comunicativa, all’invenzione? Non parliamo poi degli esami orali, dove entrano in gioco un’infinità di variabili estremamente delicate. Sicuramente vi è, per esempio, chi preferisce la disciplina e chi la creatività, con argomenti peraltro difficilmente componibili.
Il merito, così come lo si intende oggi, è una parola d’ordine, una categoria ideologica che copre con un alone di apparente giustizia, un progetto-in sé irrealizzabile- di ottimizzazione efficientista. La sua irrealizzabilità effettiva non gli impedisce tuttavia di diffondere un’atmosfera di inquietudine, di minaccia e di colpa in tutti coloro che non si identificano nel modello che soggiace alla sua diffusione.
Mi auguro che il fattore umano, che scompagina significativamente ogni fantasia tecnicista, sia preservato il più possibile, sia nel pubblico che nel privato. E’ vero, il fattore umano è poco prevedibile, non sempre viene incontro ai migliori secondo i criteri della misura tecnica, ma chissà che nel suo manifestarsi irrazionale, non “funzioni” meglio dei test e delle misurazioni scientifiche? Chissà che la variabile umana non consenta di discernere chi in un certo contesto porterebbe solo conflitto e arroganza, con la sua presupposta sapienza, da chi invece saprebbe creare un clima di collaborazione fattivo e un senso generale di benessere, magari senza prestazioni eccezionali? Io sono stato in molti ospedali, alcuni anche molto efficienti, ma dove sono stato meglio è stato dove ho incontrato persone che amavano fare quel lavoro, a prescindere dalle “eccellenze”.
Si misura, nei test meritocratici, l’amore per ciò che si fa? E’ possibile misurarlo? Purtroppo i dotati in un certo ambito, quello strettamente tecnico, tanto per non ripetermi, non necessariamente lo sono anche nella dimensione umana. E’ utopistico ritenere di potere migliorare insieme prestazioni sotto il profilo efficientistico e sotto quello della relazione (così come è utopistico pensare di premiare i più dotati e, insieme, di proteggere i meno dotati: l’una cosa esclude l’altra). Certo le prestazioni possono migliorare, ovunque, ma da quale punto di vista? Secondo tabelle numeriche di comportamenti accettabili, o secondo i livelli di benessere che si respirano in un’organizzazione, secondo la produttività o secondo la complessità e profondità di un contesto operativo o conoscitivo? Alcuni immaginano, seguendo una tipica fantasia illuministica, che quando un fattore migliora, gli altri vanno di conserva. Lo si vede bene con l’introduzione forzata della democrazia nel mondo arabo o con l’igienizzazione imposta dei comportamenti umani nel nostro occidente. Io risponderei a queste forme di ideologia cieca con la famosa contrapposizione civiltà/cultura. Vi sono luoghi dove la civiltà è massima, con il suo progresso, l’igiene, la bonifica delle malattie e dei costumi, la produttività e l’efficienza ma dove il linguaggio è povero, sono spariti miti e simboli e le persone hanno relazioni puramente funzionali. Vi sono poi società dove la malattia e il degrado sono apparentemente pervasivi, dove ci sono fame e povertà, per quanto la loro percezione sia molto attutita rispetto al modo in cui le consideriamo noi, ma dove esistono migliaia di simboli, di riti, di culture, di forme di religiosità e dove la dimensione umana è ricca e molteplice. Forse al mito del merito occorrerebbe contrapporre quello della dimensione umana, delle emozioni e degli elementi deboli del comportamento umano, che andrebbero maggiormente premiati, anche in assenza di una loro oggettiva misurazione. Quando ci sono, quelli, si avvertono subito. E così pure si avverte subito quando mancano. Di questo sono certo.
L’alternativa dunque? Un’organizzazione (quella universitaria in special modo) meno meritocratica e più democratica, più attenta alle debolezze e alle differenze, siano esse nell’ambito dei saperi o delle persone. Più devota alla pluralità e alla molteplicità, alla tutela e alla manutenzione di ciò che è minore e marginalizzato dalle aspettative del sistema economico. Capace di riequilibrare il peso delle capacità emotive, immaginative e intuitive rispetto alla sopravvalutazione di quelle pratiche e intellettuali. Attenta alla qualità e all’intensità piuttosto che alla quantità e alla rapidità. Capace di riequilibrare il rapporto tra prestazioni e comportamenti. Meno agganciata alle esigenze del mercato e più a quelle intrinseche della specificità culturale. Più ricettiva e meno produttiva, più ospitale e meno efficientista.
Un’organizzazione abitabile, in cui gli spazi siano luoghi e i tempi esperienze, e dove il soggiornare sia animato e vissuto e non espropriato e misurato. Dove parole come “spendibilità”, “applicabilità”, “trasferibilità” ( e anche “merito”), siano usate con cautela e, al loro posto, si faccia largo un vocabolario più ampio, in cui anche l’inutilità apparente, specie quella economica, la libertà e la sperimentazione, la profondità e complessità culturale intrinseca, non siano visti come minacce da eliminare. Un luogo di vita, in tutta la sua ricchissima complessità insomma, e non un luogo sottoposto alla legge mortifera della redditività, della funzionalità e dell’efficienza.

martedì 3 agosto 2010

Confidare nell'arte...ancora


Essere immaginali, ad onta di ciò che taluni –tra coloro, e son ben pochi, che frequentano questo diseredato lemma del vocabolario- ne pensano, non significa idealizzare un’arte del passato, tutta bellezza e pretenziosità evocativa, romantica e crociana, quanto perseguire i volti in perenne trasformazione di una facoltà che si giudica intranseunte nell’operosità umana, quella dell’espressività simbolica. Senza ora entrare nel trito e inglorioso dibattito su cosa significhi l’espressione “simbolico”, dopo che sul termine si è scaricata la grandine della filosofia analitica prima e dello strutturalismo poi, basti evocare il profumo di cosa che poco ha a che spartire con la storia, che fa sì, semplicemente, che un artifizio, secondo le più disparate forme di corrispondenza, ne evochi altri e, nel caso più fausto molteplici altri, fino all’estenuazione archetipica, nell’ambito delle produzioni umane. L’arte, che pure ha patito le più diverse vicissitudini, asservendo la sua forma di volta in volta alle consegne del divino, del bello ideale o del bruttissimo, persiste in questa inesausta fatica. Ma perorarne la causa, specie nell’epoca di post, degli alter e dei sur, diventa sempre più un fardello ingrato.
Da un lato quelli che hanno, a colpi di mazza (non certo di quel martello che meglio forgerebbe il nostro senso di una storia molto più inattuale e inattuata che effettiva) dissolto semplicemente la differenza tra l’operare simbolico e l’operare e basta, dall’altro quelli che, nel celebrare il funerale della storia, vedono di seppellire anche l’arte, data già per morta al tempo dell’idealismo tedesco, poi resuscitata dall’esistenzialismo e poi di nuovo da affossare nell’epoca dei simulacri e del reale che più reale non si può. Se il simbolico, insomma la legge che sorreggeva tutta l’impalcatura del nostro codice d’onore sociale, è “collassato”, tipica espressione di questi vulcanici post e sur, allora l’immaginario, e dunque anche l’arte, sprofondano nella latrina della manipolazione universale. Ogni immagine, quale che sia la sua natura, la sua origine e la sua funzione, in quanto tale, è già risucchiata nel destino ahimè dissolutorio e tragico per cui si fa epica del niente, strumento di forgia del desiderio coatto, ripetizione delle ripetizioni. L’immagine è “obversa”, cioè non rimanda da alcuna parte, essendo tutt’attorno il vuoto pneumatico, o non è. Ragioni da far accapponare la pelle e che, accostando arte e moda, arte e design, arte e pubblicità e così via, con la scusa di un mercato che tutto domina e tutto controlla, vedasi “sistema dell’arte” e caravanserraglio di consorterie di curatori, grandi musei e critici prezzolati, silura la possibilità stessa di un’arte che non stia nell’assoluta ma ahimè impossibile eccedenza di tutto questo.
Va da sé che molte ragioni addotte dai secondi appaiono persuasive, più della falsa democratizzazione dei primi, dacché questi, i grandi demolitori del simbolico in arte, son stati quasi sempre poi felici mietitori del successo che è comunque derivato ai “loro” trasgressivi lavori, anche quando di essi è rimasto poco più che una fumosa traccia, una documentazione spiegazzata, una foto o un video di fortuna.
E tuttavia, E tuttavia.
Pare che quei secondi, invece, i dialettici impenitenti, attribuiscano, al mio modestissimo giudizio, forse troppo potere al procedere della storia. Pare che, pur essendo studiosi acerrimi di storici devianti e non prevedibili, da Benjamin a Warburg, si facciano poi tutti discepoli di Hegel, quando si tratta di rilegare idee che facciano rumore. Forse però la storia non procede così serrata, specie quando le carte si mescolano con tanta virulenza come nel tempo nostro, carte, culture, popoli e storie, appunto. Forse non tutte le opere e non tutti i gesti possono essere coniugati secondo lo stesso modo linguistico e grammaticale. Forse l’operar simbolico non ha più gli stessi tratti che in passato e non è detto che vi sia una legge assoluta, magari kantiana, per trarne tutti gli effetti a riva. Così, tra un’arte compromessa e corrotta, dai suoi stessi curatori, fatto non troppo nuovo per altro ahimè, e un’arte che persegue ancora, magari silenziosa e appartata, o magari anche chiassosa e esposta, re-visioni della realtà, di quel reale che non è detto sia solo l’Ur-trauma , il negletto abisso su cui pende l’esistenza umana nel deserto di dio, ma anche e più semplicemente ancora la trama certo sfilacciata ma inevitabile, nella sua già veduta epifania, dell’accadere del tutto, sempre uguale e diverso, forse, dico, tra queste due forme dell’esprimersi in figure, vi è ancora uno iato, una differenza.
Questo si ostina a pensare, nel deserto del reale, di un reale tuttavia ancora ricco di vortici e sfasature, di attriti e di lacerazioni, di immagini "aperte" e che bruciano, l’immaginale errante. E ancora trova alimento per la sua inesausta sete, sete di trasmutazioni per via del simbolo, misterioso tramite nella direzione dell’impensato e del saputo ma ancora incognito, nel reticolo delle sue interminabili terminazioni e corrispondenze, simbolo che non è più quello dei romantici e nemmeno quello di Peirce e compagni, un simbolo che a volte risale dalle turbolenza estatiche del medio evo e a volte ancora più da lontano, dagli echi misteriosi di epoche solo intraviste e perdute, in opere ancora e sempre misteriose e inattuali ,anche se magari prese nel magma caotico del “sistema dell’arte”, che tutto può fare di esse, tranne che azzerarne il potenziale trasformatore, che, certo, potrà darsi solo in chi, per converso procedere, non avrà annullato in sé, attraverso dialettiche censure o anestesìe mediali, ogni sensibilità e apertura all’eccezione del suo apparire.
Ancora si resta fulminati e interpellati fino al midollo, infatti, se si sa sostare aperti e obliqui, come ci vuole un inattuale ascolto poetico, a certe stratificazioni alchemiche di Kiefer, alle creature immense di Kapoor, alle immagini dalla vertigine ieratica di Viola, alle catastrofi informi di Paul Mccarthy, alle metamorfosi fuggevoli e intarsiate di Pipilotti Rist, alle “cadute” strazianti di Velikovic. E nessuna confusione con la moda, il design, la pubblicità o la politica del quotidiano, riesce a distrarci da quelle “visioni”.
Certo, poi c’è l’effetto a distanza: vi è chi le deve “sfruttare”, rendendole modello per moda e pubblicità, oppure per disossarle pontificando, e poi vi è chi le incontra, ne fa esperienza e, magari, racconta. E poi vi è chi le vede e, muto, le trattiene in sé, senza bisogno di reagire. E poi ancora e ancora, come sempre.

martedì 15 giugno 2010

Eugenio Barba a milano

Il 5 giugno 2010 Eugenio Barba, uno dei più grandi maestri del teatro contemporaneo, fondatore e regista dell'Odin Teatret (http://www.odinteatret.dk/) ha tenuto una Lectio Magistralis alla Casa della Carità di Milano.


“Ora io mi sento come un bambino e finché sarò in grado di saltellare, saltellerò.”


Con rigore e umorismo ci ha ammaliati e incantati. Ha descritto il suo teatro come un teatro di fissati e disadattati, e i grandi maestri del '900 (Stanislavskij, Artaud, Beck, Brecht, Grotowski) come dei folli. Persone che non sono state ragionevoli, che non hanno saputo accettare la realtà e per questo si sono “spostate”, e sono diventate “spostate” perché hanno saputo creare qualcosa che per gli altri era considerato impossibile. Meglio, perché hanno creduto che l'impossibile è qualcosa di possibile, che richiede solo più tempo e fatica.

Il teatro per Barba è la continuazione della politica con altri mezzi e deve cambiare registro e categorie espressive per lottare contro la realtà che rifiuta. Deve cambiare linguaggio, ma sopratutto deve cambiare immagini.

Interrogato su come hanno origine le immagini presentate nei suoi spettacoli, ha parlato di un linguaggio archetipico, che fa risuonare in noi esperienze primordiali, storiche o animali. Barba lo ha chiamato “il linguaggio degli Angeli”, e lo ha indicato come suo obiettivo, nel lavoro con gli attori: far parlare loro il linguaggio degli Angeli.

Personalmente, per convivere con il sangue nero che sente ribollire dentro di sé, Barba dice di aver imparato a parlare con delle donne e ne ha presentate tre: una sedicenne greca insensata: Antigone, una piccola e magra albanese Anjeza Gonxhe Bojaxhiu e la sua “aliena” nipotina di sette anni (aliena perché donna, bionda e perché parla in una lingua che lui non conosce).

Tre donne con cui Barba discute, litiga, dialoga, si confronta. E sono immagini di donne, non fantasmi, oggetti proiettivi, ma vere compagne di vita, con cui dialogare e confrontarsi, con cui litigare e azzuffarsi in una lingua sconosciuta, con gli strumenti dell'immaginazione.

Antigone, che Barba ama e odia, è una ragazzina che compie un gesto simbolico definito come inefficace, come spargere un pugno di polvere sul corpo del fratello morto. Sarebbe molto più efficace secondo le logiche maschili agire per prendere il potere dello zio Creonte, ma Antigone ha insegnato a Barba, nel tempo, le categorie femminili di un ethos profondo e lontano dalla sua sensibilità, lo ha dislocato in un altro linguaggio, in altre categorie e di fronte ad altre immagini.

Anjeza Gonxhe Bojaxhiu, nota come Madre Teresa di Calcutta, con il suo temperamento caparbio, con i suoi gesti efficaci, con il suo comportamento deciso a donare una morte dignitosa anche all'ultimo degli ultimi, lo aiuta a cercare un senso all'anonimato dei gesti della quotidianità, alla necessità politica di essere una “soluzione” per situazioni apparentemente impossibili e lo scuote alla ricerca di una strategia artistica per rendere visibile un tale esempio, tenendo conto che la problematica dell'Odin Teatret è sempre stata quella dell'individuo di fronte alla storia.

A sua nipote Barba racconta che il teatro è un tempio che è stato distrutto e nascosto, ormai scomparso sott'acqua, un tempio che può essere riportato in superficie con la massima cura e attenzione, con pazienza e dedizione, ma senza mappe, né istruzioni, per tentativi.

Per queste e altre cose, per il suo sguardo infante, per la sua leggerezza e per l'eleganza di una estroflessione, di una noncuranza declinata in umiltà, ne scrivo oggi.

martedì 1 giugno 2010

la chitarra spudorata di Balthus


Disvelamento dello strato profondo in cui si radica ogni vera lezione, messa a nudo della fantasia che anima il corpo a corpo dell'insegnare e apprendere, vortice in cui si accordano i desideri occulti e impossibili con l’inatteso dischiudersi in piena luce del loro soddisfarsi, la “lezione di chitarra” di Balthus, è certo un quadro che fu, resta e rimarrà pietra di scandalo e insieme nutrimento inesauribile di ogni sguardo educativo appassionato d’eros e d’ambiguità.
In esso, nella sua evidenza sfolgorante -in cui il ventre chiarissimo dell’adolescente, marcato su quella gonna scura che pende come una bandiera ammainata sotto il sesso scoperto, appare offerto alla piccola e delicata mano di una maestra esigente e sapiente-, nulla è celato, eppure tutto è indecidibile. Sulla consueta linearità geometrica che taglia il dipinto sul fondo, al modo delle misteriose scacchiere che spesso giacciono a lato dei soggetti preferiti di Balthus, sulle strisce della tappezzeria verdi e rosa, contro il lato rigido e diritto del pianoforte austero a sinistra della scena principale, il motivo dai morbidi e vorticosi intrecci al centro, appare esibito senza mezze misure e vi risuona ancor più visceralmente per contrasto.
Lo spettacolo erotico della maestra che suona la sua allieva, come se fosse la chitarra che doveva separarle e intimare loro la condotta di una relazione disciplinata, è gridato dalla luce, ancor prima che dai gesti. Esplode nella chiarezza delle carni, il bianco latteo del sesso glabro dell’adolescente e la luminosità di quel seno che letteralmente erompe dalla scollatura della maestra, un seno soltanto, che evoca l’immagine dell’ “Alice nello specchio” tanto amato da Jouve ma forse ancora di più quello della “Toilette di Cathy”, tondo e compatto ma allo stesso appuntito e provocante come un’interrogazione (è forse il seno della mestra che ora si tratta di imparare a suonare? E’ forse questa l’ “interrogazione” cui si tratta di prepararsi?).
L’adulta, il cui volto, a giudizio di alcuni evoca le fattezze della madre di Balthus, la seducente Baladine amica e amante di Rilke, ha fatto immaginare una bizzarra iniziazione edipica, con lo stesso Balthus nei panni dell’adolescente, di quel Narciso cui spesso amavano ricondurlo da ragazzo gli amici artisti della cerchia familiare. Ma, a prescindere da ogni capziosa ipotesi psicoanalitica, salta all’occhio la veemenza del quadro, la crudeltà, che fece tanto amare Balthus ad Artaud quanto al mondo affascinato da Sade che si radunava intorno alla rivista “Minotaure” negli anni ’30, la calma decisione che figura nell’atteggiamento dell’adulta mentre maneggia il corpo della ragazzina. Lo stesso Balthus rivendicò a questo quadro la sua forza erotica e provocatoria. “Morte agli ipocriti!” scrisse al proposito a Antoinette de Wattewille, “io voglio declamare alla luce del sole, con sincerità e partecipazione, tutta la tragedia e l’emozione di un dramma della carne, proclamare a gran voce le incrollabili leggi dell’istinto”. Come dargli torto? Vi è riuscito pienamente, sfidando ogni ipocrisia, rivelando d’un colpo i moventi segreti che spesso radunano corpi di adulti e adolescenti ben al di là degli scopi meritori che dovrebbero ordinarne la prossimità.
Se non risuona propriamente l’educazione libertina di Eugénie della sadiana “filosofia del boudoir”, certo sempre di educazione sembra necessario parlare. Un’antieducazione forse, in cui lo strumento differenziatore giace ammutolito sul pavimento e la musica viene suonata dai corpi, in un’armonia certo ambigua ma non meno rivelatrice. Di primo acchito sembra trattarsi di una violenza, la presa ferrea dei capelli della ragazza appare inequivocabile ma poi alcuni dettagli perturbano l’immagine crudele. L’abbandono totale dell’adolescente (imputato anche all’iconografia sacra di una Pietà di Quarton del millequattrocento) è l’effetto di una sorta di deliquio o raffigura piuttosto un’estrema accettazione? Gli occhi socchiusi sono il frutto della sofferenza o del piacere? La mano che si solleva verso il seno denudato della maestra è un ultimo tentativo di aggrapparsi e di difendersi o è il segno della premura di restituire il godimento?
Dipinto emblematico, che ancora, come mi ha dimostrato una recente esibizione con giovani allievi universitari, suscita sconcerto, forse proprio perché dice senza giri di parole quell’indicibile che serpeggia dietro le pie intenzioni del bravo educatore, quell’indicibile però qui così affermativo e vitale da far semmai apparire sconcertanti quei gesti di ritrosia e di scandalo che ancora sfuggono al tempo del grande disincanto.
Anche quel pianoforte silenzioso, dai tasti neri e bianchi improbabilmente alternati, resta una presenza misteriosa e inquietante, traccia di un’estetica del difforme e della dissonanza che forse potrebbe maggiormente alimentare una sensibilità immaginativa e immaginale intorno ai dilemmi dell’educazione.

Ahi la meritocrazia...

Il termine “merito” è gorgogliato oggi da tutte le voci del coro che starnazza intorno al feretro universitario, con ugual gaudio. Da sinistra si strepita al merito e da destra risponde uno schiamazzo di gioia. Tutti uniti finalmente all’insegna di una delle categorie del pensiero liberale più gravide di storia (quella del self made man, quella della legge del più forte, quella della “selezione” o, in breve, del darwinismo sociale) che, tutt’a un tratto, diventa, al pari di molte altre, innocente, non ideologica, consensualmente plaudita.
All’idea, evidentemente del tutto obsoleta e tramontata, che un sistema educativo pubblico debba favorire l’accesso di tutti alle molteplici opportunità del sapere e debba sostenere in specie i più deboli in tale percorso, si è finalmente sostituita, o forse è semplicemente ritornata, con festosa unanimità, la legge dell’eccellenza, dei migliori (oi aristoi), dei campioni.
E che diamine! Non vorremo continuare a correre dietro a tutti i pesi morti di questo infernale carrozzone che si pretende di pubblico interesse! O meglio, il pubblico interesse è spianare la via ai già talentuosi e buttare a mare le zavorre.
Finalmente, magari con il reintegro di valutazioni numeriche (anche solo su una scala a tre livelli: forti, mezze tacche, deboli), fuori i fannulloni, i demotivati, i potenziali scarsi e avanti la nuova falange degli HP (High Potential), dei grossi cervelli (prima che facciano le valige per lidi migliori dove regna come è noto la legge del privato anche detta della giungla), degli iperdotati. Tutti d’accordo, una delle categorie più classiche dell’individualismo capitalista ha finalmente risolto ogni controversia: corsie preferenziali ed alti investimenti per i super Q. I. e corsie di decelerazione o diretta espulsione per i bradipi e gli ipodotati. Evviva!
Ma non basta.
Accanto alla meritocrazia indirizzata verso i discenti e verso gli aspiranti docenti, nella quale un po’ da sempre sperano con la bile infiammata tutti i trombati di questa terra (che dio li abbia in gloria, è venuta anche la loro ora), vi è poi una più velenosa forma di meritocrazia (e della tecnocrazia che prefigura), che avanza e ben presto spavaldeggerà. Quella dei saperi. Qui, dove si può far valere l’elemento monetario con maggiore spregiudicatezza, già si avvertono i giannizzeri delle società per azioni pronti a bandire tutti quei giacimenti di cultura che fanno poca rendita. Pochi iscritti, poca produzione, poca audience, dunque sgomberare. Vedo molti indirizzi del sapere umano e dunque corsi di laurea, certo forse un po’ inabili nell’animare l’acclamazione delle folle, forse un po’ di nicchia, persino talora poco spendibili sul mercato del lavoro, e tra i saperi non applicativi ce ne sono molti, sparire letteralmente.
Alla finalità sacroesanta che l’istituzione pubblica dovrebbe incarnare, di custodire e trasmettere anche i saperi meno redditizi e frequentati, ben presto si sostituirà, con tutta evidenza, la logica dei saperi con merito, altamente quotati, fortemente spendibili, significativamente competitivi.
E allora, intoniamo anche noi in coro: evviva la meritocrazia!
C’è però una consolazione: se ciò dovesse veramente avvenire, molti dei fuffologi che oggi decantano i meriti della meritocrazia, scomparirebbero insieme al trionfo delle loro idee!
Una battuta per finire sul grande argomento dei meritocratofilici: il nepotismo, specie quello baronale delle gerarchie accademiche, autentica peste della libera concorrenza applicata alla ricerca. Ma qualcuno ha provato a fare qualche illuminata ricerca sul nepotismo degli imprenditori (non me ne viene in mente quasi nessuno che abbia aperto un equo concorso per il suo successore alla gran poltrona), quello dei giornalisti (non si capisce mai chi scrive, della famiglia), degli attori, (han sempre gli stessi cognomi), dei politici (non infieriamo per carità), e poi di tutti gli aziendali statali e non che hanno lasciato il proprio posto al figlio andandosene in pensione, e non parliamo degli artigiani, dei commercianti, dei pizzaioli e dei carrozzieri, dei prestinai e dei linotipisti…
Non sarà, confesso un sospetto, che qualcuno ce l’ha particolarmente a morte con il mondo degli accademici?

giovedì 20 maggio 2010

E se i barbari fossero anche una medicina?

L'intellighenzia riformista del nostro paese, dai Galimberti agli Scalfari ai Tranfaglia e ai molti altri, sembra assai preoccupata dell'avvento della nuova barbarie, individuata perlopiù nell'orda nichilista che insidia il primato dei valori della modernità, dall'individuo partorito dal cogito cartesiano e dalla morale kantiana, alla storicità e allo storicismo, alla formazione imperniata sulla parola e sulla scrittura. Il volto nomade e tribale delle giovani generazioni, la disseminazione e la pluralità delle forme di comunicazione, la degerarchizzazione dei saperi sconvolge i nostri peraltro rispettabili custodi della civiltà illuministica.
E tuttavia...
E se, al di là di fenomeni certo inquietanti di nuova anomia, di insubordinazione confusa e di evidente caduta di rispetto per l'etica pubblica e per gli ideali d'antan, se accanto alla dispersione della memoria, al narcisismo e ad un appiattimento del desiderio sulla merce, peraltro prodotti proprio dall'evoluzione di quella civiltà di cui si patisce tanta nostalgìa, vi fossero anche segnali interessanti, trasformativi, e non necessariamente in peggio, da raccogliere?
Se, per esempio, qualcosa da sempre ostracizzato e emarginato nella nostra idea di cultura, assecondando forse anche un necessario moto di compensazione, ritornasse alla ribalta? Se, ad una cultura che è stata per secoli iconoclasta, somatofobica, sessuofobica, misogina e certo allergica ai linguaggi non deduttivi, astratti e fortemente gerarchizzati, si contrapponesse finalmente la necessità di un forte ribaltamento della concezione del sapere, dell'educazione, della comunicazione, in cui l'immaginazione, il corpo, la musica ritornassero ad avere un ruolo di rispetto? Se allo scientismo e al geometrismo della conoscenza, anche in virtù delle progressive trasformazioni e ritrovate connessioni tra filosofia e ricerca, tra arte e vita, si potesse sostituire una visione più plurale e policentrica dell'episteme e dell'esperienza? Se, per esempio, a scuola, si immaginasse che l'epistemologia della musica contemporanea, o quella del teatro povero e della drammatizzazione, o quella del cinema, o quella della danza, o quella dell'immaginazione artistica potessero affiancarsi in maniera non subalterna all'apprendimento fondato sulla parola e la scrittura, se la scienza ritrovasse una dimensione estetica e non solo funzionale, se la filosofia fosse finalmente emancipata dalla tirannia storicistica? Se l'informatica fosse uno spazio di sperimentazione espressiva e non solo una tecnologia finalizzata alla produzione? Insomma, se al monoteismo del Logos e della sua morale si avvicendasse il politeismo meticcio dei linguaggi e delle forme, sarebbe davvero l'apocalisse temuta dai nostri moderni Catoni?

martedì 11 maggio 2010

Strofa VII

"Una melodia al di là di noi come siamo,
senza che nulla sia mutato della chitarra blu;

noi stessi nella melodia come nello spazio,
senza che nulla sia mutato, se non il luogo

della cosa come fu e solo il luogo
mentre la suoni, sulla chitarra blu,

posta, così, oltre l'ambito del mutamento,
percepita in un'atmosfera finale;

per un momento finale, nel modo in cui
il pensare l'arte sembra finale quando

il pensare dio è rugiada fumosa.
La melodia è spazio. La chitarra

diviene il luogo della cosa come fu,
un comporre i sensi della chitarra blu."

(da Wallace Stevens L'uomo con la chitarra blu)