domenica 21 luglio 2013

“Tra cinque minuti in scena”. La vita che sta nel teatro che sta nel cinema.


Si potrebbe dire che “Tra cinque minuti in scena” è un film sulla vecchiaia e sulla malattia, su un rapporto di “vero amore” tra una figlia e la propria madre divenuta anziana e da accudire, “sull’inversione di ruolo madre-figlia che l’allungamento dell’età media della vita impone sulla società contemporanea”, o ancora sulla difficoltà di fare teatro oggi in Italia e sullo stato di profonda crisi del mondo dell’arte in generale. Un “esordio coraggioso” di una giovane regista tra le opere prime del cinema italiano che “sfida” ogni tentativo di classificazione intrecciando linguaggi diversi e che qualcuno ha detto sembra richiamare per “l’inevitabile cupezza dell’esperienza l’Haneke più digeribile”.
Si potrebbe dire questo e ancora di più, si potrebbero sfoggiare ulteriori rimandi arditi e dotti o giudizi estetici, morali e ideologici indossando gli occhiali sedicenti e sentenziosi di certi critici cinematografici che spesso riducono l’opera a un oggetto da sezionare e valutare, uno strumento per parlare di sé, delle proprie emozioni e delle proprie competenze cinefile. E dopo aver consultato una recensione potremmo forse avere l’impressione di aver definitivamente compreso il film, di averne carpito il segreto e abbandoneremmo in fretta il buio della sala per proclamare luminose e saccenti interpretazioni, per inondare le immagini con le nostre impressioni e reazioni immediate senza aver dato la possibilità all’opera di mostrarsi, di aprire una breccia nel nostro ego borioso e incrollabile e di provocare una qualche trasformazione.
Si potrebbe, ma non basta. Potremmo provare ad accostarci alle opere cinematografiche con uno sguardo altro, umile e rispettoso, accogliente e stupito, sensibile e simbolico che prova a mettere tra parentesi e a sospendere momentaneamente il nostro io tracotante e strabordante per lasciare che le immagini ci parlino, si manifestino affinché possano irradiare il loro potenziale conoscitivo e trasformativo.
Come suggerisce Jean Espstein, è il cinema stesso che, attraverso la sua capacità di rappresentare la realtà in immagini si fa “strumento di una nuova conoscenza non più basata su presupposti cartesiani e kantiani, bensì su una logica «affettiva e onirica» fondata appunto sul principio di analogia”. Pensare per immagini e pensare con le immagini permette di allentare il criterio razionale che è alla base della logica verbale per affidarsi alla facoltà immaginativa e alle sue potenzialità cognitive e trasformative.
E allora accostandoci di soppiatto al film e lasciandoci impregnare dalla sostanza delle immagini vediamo emergere dallo sfondo di una Milano marginale, a parte, separata, una figura femminile che racconta e si lascia raccontare da vicoli oscuri, da tunnel deserti laddove le vie stesse si fanno meditabonde e conducono lontano dai movimenti convulsi e anonimi della folla. Una figura androgina che si muove determinata e irrisolta tra finzione e realtà, vita e morte, tra il ruolo di figlia, attrice, amante. Figura che ogni giorno cammina attraverso la città per recarsi in un teatro, su un palcoscenico. Un teatro che è separato non solo dalla città, ma anche dal produttivismo, dall’utilitarismo che ci assedia, un teatro inutile la cui inattività lo condanna a tenersi ai margini della società.
Il teatro è uno spazio liminale, sulla soglia, un cerchio magico che trasfigura la realtà in un bianco e nero patinato, il teatro, suggerisce Antonacci, “è graffiante, provoca ferite che poi faticano a rimarginarsi”. Sul palcoscenico viene rappresentata la vita, viene presentificata in forma di commedia l’esperienza di cura della madre anziana che Gianna, la protagonista, sta vivendo fuori dallo spazio speciale del teatro. E per un attimo la vita reale sembra non riuscire a rimanere fuori, reclama una rappresentazione, un’attribuzione di senso e tracima in una identificazione tra persona e personaggio. Come hanno ben mostrato gli studi di Turner, il teatro non è una semplice ripetizione della vita, ma è una azione performativa (da parfournir, «completare» o «portare completamente a termine») che permette di attribuire un significato alla vita stessa, è la “conclusione adeguata di un’esperienza”. Il corpo di Gianna si farà allora medium e messaggio che consentirà a se stessa e a noi spettatori di dare ordine alla vita e dare senso allo scorrere del tempo, contro o verso l’ineluttabilità della morte. Nell’intreccio tra teatro e vita, rimaniamo graffiati, feriti e al contempo trasformati dalle immagini di vita e morte, vecchiaia e infanzia, dolore e gioco tra madre e figlia.
Il teatro è anche un luogo di incontri tra molteplici figure femminili che condividono le loro solitudini e i loro sogni dietro le quinte, nello spazio segreto e sacro del camerino.  È un femminile che seduce, turba, disorienta e mette a disagio un maschile intrappolato nella rete del produttivismo, un femminile che sa rimanere in contatto e sostare nell’oscurità della vita, un femminile indomito e indomabile che ha vissuto nell’assenza del maschile, un femminile sfuggente che si muove nella notte e si ferma sui crocicchi.
Un femminile che saprà riportare in vita il teatro e la vita nel teatro.

E le immagini potrebbero continuare a dire.