venerdì 3 ottobre 2014

"La roccia viva". Scalando verso la caduta.

“Siccome venivano in discesa – che non richiede una seria fatica, ma soltanto un allegro frenare e puntare le ginocchia per evitare di correre e inciampare, e in sostanza non è altro che un lasciarsi cadere – la loro andatura aveva un che di alato e leggero che si comunicava al loro volto, a tutto il loro aspetto, e poteva far nascere il desiderio di essere dei loro”.
T. Mann, La montagna incantata


 La Roccia viva non ha l’andatura di una discesa leggiadra e alata, come descrive il grande narratore tedesco amato dalla protagonista e presente nel momento cruciale degli incontri con gli altri due personaggi del romanzo.
La Roccia viva è una discesa impervia e tormentata che tiene fatalmente legati al filo della corda di una trama coinvolgente e intrecciata. E fa nascere il “desiderio di essere dei loro”, di essere spettatori e attori di una storia che ci riguarda, mettendoci, magari, nei panni di Livia, Ermanno o Edoardo, gli amici che meglio di chiunque altro conoscono i tre protagonisti.
È una discesa verso la meta di ognuno dei tre, un percorso di deflazione lungo le pareti rocciose di una montagna dove l’uomo, più che tentare di conquistarla ed ergersi con il suo ego borioso e sfruttatore, non può che affidarsi alla sua stabilità e imprevedibilità. La montagna accoglie, ammalia, è il bacio, come un grazie, quando i piedi toccano la vetta. La montagna decide, inganna, è sostanza, è materia, è roccia.
E quella roccia è punto di partenza e approdo del cammino di Chiara, Michele e Rudi, tre ragazzi quarantenni della Milano da bere che l’occhio discreto dell’autore ci fa conoscere di soppiatto, la cinepresa del suo sguardo ci fa entrare lentamente e con discrezione nelle loro vite e nelle loro case. Li incontriamo quasi per caso mentre, per esempio, una domenica mattina percorriamo in bicicletta una silente e ghiacciata via Palestro. Ma non per caso si impongono alla nostra attenzione, stagliandosi sullo sfondo di Milano e delle Alpi, perché le parole di Matteo Sartori disegnano appassionatamente e amichevolmente quei tre ragazzi, dipingono l’animo umano sempre connesso all’anima dei luoghi, della storia e del nostro tempo presente. L’autore cammina insieme ai suoi personaggi, costruisce la strada mentre la percorrere, li guarda e si lascia guardare da loro. Il suo è un punto di vista in movimento, ha la capacità di “salire sul dorso della tartaruga” che, secondo la famosa teoria indiana della molteplicità dei punti di vista, permette di vedere l’universo attraverso gli occhi di chiunque venga messo sopra la tartaruga. Un narratore dai molteplici volti che ogni volta riesce a rendere ogni storia e ogni sguardo interessante grazie allo “shifting viewpoint”, al suo sguardo mobile.
E c’è una musica che accompagna il cammino di Chiara, Michele e Rudi, canzoni che non fanno solo da piacevole e cullante sottofondo alla lettura ma creano un’atmosfera unica e singolare, donano tempo all’immaginazione come lo spazio bianco tra le parole.
E alla fine, credo sia la discesa ciò che conta, la caduta sulla roccia che impone una sosta alle vite sfrenate che corrono impazzite verso il vuoto accecante del nostro tempo. Una caduta che può portare alla distruzione, alla scoperta della propria essenza e ciascunità o ad una nuova rinascita.

“Allora la fine diventa ancora una volta un inizio e l’ultima parola spetta alla vita”.
P. Brook