giovedì 30 settembre 2010

il prezzo della cultura (simbolica)

Fra le tante inversioni che sta patendo da gran tempo il nostro senso delle cose, si staglia la deprimente controversia sulla redditività della “cultura” (quella dell’arte naturalmente visto che quella dell’impresa invece dilaga proprio per la sua capacità di produrre profitto). Anche grazie alla brillante resurrezione che il nostro governo e il corpo morto dei suoi elettori a rimorchio ne ha prodotto, la polemica antiintellettuale e anticulturale è arrivata a vertici quasi surreali. Senza citare i brillanti e indimenticabili protagonisti di tale polemica, talvolta gridata e muggita come è nell’indole dei suoi più prestigiosi sostenitori, non si può tuttavia tacere sull’insopportabile senso di colpa che sembra assediare coloro che la cultura la curano, la sostengono e l’accudiscono con le loro opere, di fronte alla vergognosa accusa. Quella, appunto, di non essere “produttivi” o “redditizi”.
Ben al di là di ogni ormai evidentemente sterile (per quanto legittima) polemica contro l’impero dell’astrazione-scambio (del denaro cioè) a stabilire ogni orizzonte di senso, diciamo pure di ogni legittimazione all’esistenza per checchessia, forse vale la pena di dire che, in un contesto in cui la cultura, in tutte le sue forme, è avvilita sul piano del suo potenziale di arricchimento e di sviluppo umano, a livelli probabilmente mai verificatisi prima, è una sorta di provocazione paradossale quella prodotta appunto dai fautori della cultura che fa profitto.
La cultura non può fare profitto semplicemente perché tutta l’organizzazione di questa società emargina il valore della cultura. Si dice che essa sia consumata da pochi. Ma d’altra parte che cosa ci si aspetta da una società che progressivamente la cancella ( con la sua storia), tanto per fare un esempio, dalla scuola, dalla strada e dalle piazze, come dalla comunicazione pubblica? La cultura è qualcosa che va coltivato sin dall'infanzia, il valore di un romanzo, di un dipinto o di un’opera musicale, diffilmente aumenterà in assenza di un’educazione a percepirne il potenziale di arricchimento personale e collettivo.
E’ su questo allora che occorre semmai organizzare una battaglia tenace e non certo sulla necessità che le opere della cultura siano fruibili ai più. Occorre semmai che i più possano fruire delle opere della cultura. E questo in virtù di uno straordinario e massiccio intervento, non solo ma certo anche di natura economica, che favorisca, sin da piccoli, e reticolarmente, l’accesso e la sperimentazione delle più varie fonti culturali, dal cinema alla musica alle arti plastiche alla fotografia alla letteratura alla danza e così via. Con la precisa e credo difficilmente contestabile evidenza che questo non produce immediatamente un guadagno economico, ma un arricchimento, inestimabile, dell’esperienza umana. Senza voler calcolare le ricadute in termini di approfondimento conoscitivo del reale (il che non significa però automaticamente di buone condotte morali, perché la cultura è libera e ne esiste anche una versioone trasgressiva e libertina, edonistica e provocatoria) e di apertura all’alterità.
Perché cultura significa soprattutto questo: esplorazione e approfondimento di ciò che è altro da sé, avventura, scoperta sensuosa e sensuale del mondo, acquisizione di una visione simbolica e aumentata della materia e della sua interiorità, del radicamento profondo di ogni cosa come della sua risonanza in un organismo vivente cui tutti apparteniamo.
Perché il valore della cultura sia riconosciuto, occorre smettere di emarginare la possibilità di entrare in contatto con esso, per esempio con sommarie e pragmatiche riforme di scuola e università (che eliminano manco a dirlo proprio la cultura dell’arte e delle fonti simboliche dai suoi programmi) o con l’azzeramento progressivo della presenza di arte e musica dalla televisione e dai mezzi di comunicazione di massa. Con un orientamento radicalmente diverso, di cui v’è sentore e testimonianza in molti altri paesi europei, forse vi sarà più gente a frequentare teatri, mostre e concerti di musica (anche contemporanea!) e qualche investitore sarà meno restìo a finanziarli.
La responsabilità comunque resta anche nostra, quando ci facciamo assalire da un senso di colpevolezza nella incapacità di rendere immediatamente redditizia l’opera culturale. O peggio ancora quando acconsentiamo alla necessità di renderla più addomesticata, più fruibile (orribil termine), più “commerciale” (aiuto!). Nessuna colpevolezza di fronte ad un mondo che vede di buon occhio la scomparsa di ogni fonte critica e di ogni profondità del significato, per poter finalmente disporre a a proprio piacimento di una collettività ridotta a pubblico inebetito e confuso, pronto a tutto per raggiungere mete prescritte e totalmente prosciugato della possibilità di sperimentare la multiforme inesauribilità dell’esistenza. Ancora una volta occorre una “trasmutazione dei valori”, per restituire alla cultura il giusto prezzo, che, come è evidente, non è proprio facilmente stimabile.

giovedì 9 settembre 2010

Paralytic Child Walking on All Fours

"Se dovessi rinascere non farei figli. Un figlio è solo dolore, sofferenza e fatica".
Parole giunte inattese in un istante, senza avviso. Spinte nell'aria grevi e precise da una voce femminile, pronunciate come una semplice e dimostrata verità scolpita, tatuata e vissuta su un corpo materno. Parole scoppiate sulla pelle con l'abbaglio di un sole implacabile, con il riverbero di una luce folgorante che ha innescato e placato, avanzato e arretrato, confuso e rischiarato un vortice di pensieri, emozioni e corpi. Ha dissolto nel suo biancore accecante e improvviso una marea di corpi sofferenti, storpi, claudicanti, rannicchiati, accartocciati, urlanti, inerti e agitati affiorati durante una settimana di vacanza con un gruppo di bambini disabili e i loro genitori.
Corpi paralitici come il bambino deforme, informe, spogliato che cammina carponi nel dipinto di Francis Bacon. Immagine che ci chiede di fermarci, di sostare. Ci urta, ci paralizza, disorienta il nostro sguardo, si aggrappa al nostro corpo e lo coinvolge in uno sforzo arduo, tenace, apparentemente insostenibile di andare al di là della letteralità della realtà, al di là dell'illustrazione e della narrazione della fatica, della sofferenza e del dolore di questo corpo trasmutato dall'opera "alchemica e sciamanica" del pittore britannico, da sempre appassionato e ossessionato dal corpo e dalla sua ombra, la sua carne e che si è dato con il suo corpo per farci vedere, toccare, ascoltare, percepire la materia corporea nella sua inscindibilità di orrore e bellezza.
Un corpo solo, nudo, liscio, essenziale colto nel suo arresto e bloccato dal nero piatto, denso e uniforme che si arrotola lungo i suoi contorni e scava, rosicchia la carne delle braccia rendendo precaria la stabilità e la presenza della figura, ma anche mosso e sospinto dalle sfumature e dai tratti rapidi e scompigliati del verde del tappeto, nel quale sembra circolare una forza invisibile che dà vita e respiro agli organi. Corpo sospeso tra infermità e movimento, in cammino sulla corda tesa della vita tra la nascita e la morte, in equilibrio su una linea sottile che sembra obbligarlo a movimenti sinuosi, eleganti, ammalianti che mettono in risalto la rotondità delle natiche. Un corpo felino con un volto pulito, spazzolato, disorganizzato nei tratti animali della testa da cui ricade un ciuffo fluente e liscio, come una sorta di criniera e da cui emergono due labbra enormi, sproporzionate che circondano l'ingresso della caverna della bocca. Un cucciolo, una fiera che urla, o sussurra, in silenzio e avanza di soppiatto cercando, forse, di travalicare proprio quel confine stabilito dalle separazioni nette tra uomini e animali, normalità ed estraneità che allontanano, tengono a dovuta distanza l'umanità animale, urlante, sbavante, aberrante, in ritardo, incapace e impossibilitata ad alzarsi e correre al ritmo serrato di ogni crescita e progresso. Ma la figura, nel suo appoggiare le mani oltre la sottile linea gialla, devia, forse, un ulteriore confine: quello delle categorizzazioni e dei modelli di comprensione offerti dal predominio del sapere medico-psicologico-sanitario, delle diagnosi, delle patologie, delle sindromi, dei disturbi non altrimenti specificati che spesso rinchiudono e ingabbiano le irriducibili diversità e potenzialità di questi corpi e forniscono rassicuranti e univoci quadri di riferimento e strategie operative e normative a operatori, educatori, genitori, a chiunque capiti o decida di prendere contatto con la pelle di questi corpi.
Un corpo ambiguo e ambivalente, perturbante e inquietante che forse vorremmo sparisse e uscisse al più presto di scena. Ma la porta a vetri lascia aperta la possibilità di una nuova visione di un corpo visibile e sensibile che sembra venirci incontro e che mi è venuto incontro orientando, disorientando e abbassando lo sguardo su un corpo che cammina a quattro zampe sullo sfondo del mistero del male, del dolore, della sofferenza, dell'estraneità, dell'oscurità.
L'immagine offerta da Bacon ci interroga, ci chiede di osare oltre la soglia, di lasciare fuori dalla stanza vissuti, emozioni, giudizi personali e collettivi che possono occultare la vista, ci chiede di abbandonare la nostra postura eretta, dominatrice e calcolatrice per assumere una posizione animale e partecipare con tutto il nostro corpo, la nostra carne, i nostri sensi al corpo dell'immagine e del mondo. Ci obbliga ad indugiare avvolti nel nero, a muoverci leggeri, in punta di piedi, devoti, concentrati in una continua e inarrestabile ricerca di bilanciamento, come funamboli lungo la linea fine e tesa dove si incontrano le antitesi, dove si intrecciano gli opposti e dove si irradia una costellazione di significati che possono arricchire l'orizzonte simbolico-immaginativo di ognuno, e della riflessione pedagogica, e dilatare i modelli di comprensione attraverso cui guardare, percepire, ascoltare tale complessa, oscura e perturbante esperienza, ancor prima di nominarla, di agire, di sovrastarla e allontanarla.
Nell'attesa, possibile, di una rinascita.