venerdì 23 dicembre 2011

Mario Perniola: l'intellettuale organico al sex-appeal di Berlusconi


L’ho visto ridacchiare, compiaciuto, ospite dell’Infedele di Gad Lerner, mentre un servizio compiacente mandava in onda immagini di guerriglia del ’68 e sequenze tratte dai set “telecratici” (Virilio) di Mediaset. Se la rideva, il “grande filosofo”, come recita la quarta di copertina dell’agilissimo volumetto da poco dato alle stampe, davvero poche pagine, dallo spettacolarissimo titolo “Berlusconi o il ’68 realizzato”. Chissà di cosa rideva, forse del pubblico, difficilmente di sé stesso, non c’è traccia di autoironia nelle deflagranti affermazioni del “filosofo”, sicuramente se la rideva di tutti coloro che hanno abboccato alle tragicomiche tesi sostenute appunto nel minipamhlet, che, per farla breve, fa del ’68 la premessa politica e culturale del regime berlusconiano.
Che non sono pochi, quelli che hanno abboccato intendo, a cominciare dallo stesso Lerner evidentemente, che non dice una parola sulla questione, limitandosi a promuoverla acriticamente, alla Repubblica e ad altre autorevoli testate che ne parlano con insolita curiosità e non senza un'esplicita condivisione. E certo, ahimè, questo nuovo sport, praticato a destra come a sinistra ormai (mentre per molto tempo è stato un’attività esclusiva della destra), come si potrebbe definirlo? “scoreggiare sopra il ‘68”? no, troppo volgare, diciamo fare del ’68 un’abbreviazione per qualcosa che deve essere rimosso e obliato quanto prima proprio attraverso il suo logoramento e imbrattamento sistematico (per tradurlo in una di quelle espressioni linguistiche di sapore ormai usuale, come “è successo un ‘48”, per dire di un conflitto sociale, con riferimento ai moti del 1848, ma senza più neppure il bisogno di saperlo, o “è una Russia”, per indicare genericamente uno stato di disordine, con riferimento alla rivoluzione russa. Da qui in avanti si potrà dire infatti: “che fai, un ‘68”?, con riferimento al 1968 ma intendendo: “te le godi” da giovane irriducibile e inconcludente, parassitando i tuoi genitori e in barba ad ogni rispetto per la cultura e il dovere).
Perché è questo che sta accadendo, nel mio più completo sconcerto, e parlo per me perché non avverto in giro gran scalpore o scandalo per questa evidente manifestazione di demenza più o meno senile. E da tempo. Perché Perniola non è davvero stato il primo a formulare una tesi del genere. No, da tempo è strombazzata dagli intellettuali lacaniani per esempio, il simpatico e geniale Zizek in testa, il vero clown della filosofia, capace di infarcire i suoi volumi anche densi con gustosi ammiccamenti sessuali, aneddoti sulla vita di Stalin e Lenin e soprattutto con il suo gusto un po’ grossolano, a dire il vero, per il cinema, specie per il filone pop-fantasy, Matrix insomma per intenderci. Lui è stato tra i più incisivi a scatenarsi contro il ’68, vero male del ‘900, induttore di quella coazione al godimento, secondo le sacre scritture del padre-dio Lacan, il “soggetto supposto sapere”, che già aveva profetizzato la trasformazione del super-io normativo freudiano in un super-io trasgressivo il cui unico imperativo avrebbe suonato, per i seguaci della setta: “godi!”. Di qui il passo è breve, quindi. E’ il ’68 ad avere prescritto il godimento generalizzato, è dunque lui ad avere promosso la società dei consumi e dello spettacolo, è lui ad aver alienato il nostro desiderio, è lui ad aver generato nuovi padroni, non più patriarcali ma buffi e cialtroni, insomma Berlusconi.
Teorema dotato certo di un astruso fascino, non c’è che dire, perché ha una sua intonazione seduttiva. A recitarlo qui da noi ci sono vari personaggi, più o meno noti, da Recalcati a Magrelli, da Perniola a Beppe Sebaste e via discorrendo.
A me la cosa suscita un moto di violenta indignazione, non tanto per la diagnosi della società contemporanea, forse vittima di quello “sgravio” di cui parla con ben più dotta prosa Peter Sloterdijk ma non per questo certo esentata dall’imperativo del sacrificio e dall’alienazione del proprio surplus di valore, checché se ne dica. Società dove certo non vige una liberazione generalizzata, come avrebbe voluto il cosiddetto ’68, ma una approssimazione al godimento (ma quale esattamente, quello della pornografia televisiva e delle escort?) in ogni caso che ha pochi, se non pochissimi autentici fruitori. Semmai vi sono moltissimi eccitati a mete di piacere di cui al massimo possono godere i simulacri, le immagini, le riproduzioni. Ma il ’68 non celebrava certo la società dello spettacolo, la cui analisi per altro lo precede di qualche anno, ad opera di quel Debord che tra l’altro Perniola conosceva bene, essendo stato, a suo tempo, un situazionista. E certo è curioso che un partecipante al ’68, in una delle sue manifestazioni più interessanti e singolari, oggi ne sia il detrattore tanto scatenato. Ma è un fenomeno vecchio anche questo, quello del “pentitismo”, quello della svalutazione di una giovinezza che non c’è più e che ha lasciato dietro di sé solo disperazione e fallimento.
Se c’è una diagnosi seria del ’68 e dei suoi sviluppi, è solo quella che ne ha, da tempo, decretato la sconfitta, proprio nella cultura degli anni ’80 e ’90, falsamente e classisticamente permissiva. La cultura di un capitalismo che sta facendo a pezzi il mondo, letteralmente, quando il ‘ 68 era anche e soprattutto caratterizzato dalla sensibilità critica per le derive internazionali dell’imperialismo (allora lo si chiamava così, prima della globalizzazione), per esempio con il sostegno al Vietnam. Il ’68 traeva la sua linfa da un’infinità di punti di pescaggio, da una cultura che mescolava la Teoria critica di Francoforte con gli orgoni di Reich, l’antipsichiatria e il teatro della crudeltà, Cooper e Vaneigem, Freire e Fanon, Artaud con Benjamin, Sartre, Levi-Strauss e Fourier (appena dato alle stampe in quel periodo) con Marcuse e il giovane Marx. Ma come si può confondere, anche solo sul piano culturale ( e senza parlare dell’arte, dell’economia, della letteratura, della sociologia, della politica), quelle radici, di così grande dignità culturale, con il ciarpame neopopulista e neofascista del ventennio berlusconiano, con il suo nulla (neppure lo spiritualismo o il futurismo che sostennero il fascismo)? Con una subcultura pop-mafiosa?
Giovanilismo, rifiuto della scuola, della cultura, dell’università, liberazione sessuale e del desiderio, dell’immaginazione, queste le colpe poste in equazione al “progetto” berlusconiano di cui delira Perniola. Ma di cosa stiamo parlando? Certo, il ’68 fu una rivoluzione, forse giova ricordarlo, che mise in discussione tutto (“Vogliamo tutto” recitava un testo famoso di Nanni Balestrini) ma nel senso che tutto doveva essere sovvertito, la cultura ingessata e autoritaria, la scuola di classe, l’università elitaria, la famiglia cattolica e repressiva, la sessualità gerarchizzata, interdetta e ibernata (forse occorrerebbe ricordare l’immensa rivoluzione di cui furono protagoniste le donne, in quell’epoca, a favore anche di un ripensamento maschile? Il che spiega probabilmente anche perché tra i tanti detrattori odierni del ’68 ci siano pochissime donne, che io sappia).
Ma come si fa a non cogliere l’elemento vitale, collettivo, emancipatorio di quella progettualità, buona e giusta, e soprattutto a non vederne la macroscopica incompatibilità con il “deserto del reale”, così come ha definito in uno dei suoi migliori libri, proprio Zizek, l’attuale stato delle cose? E’ stato il ’68 a muovere tutto e a scatenare come una valanga di neve ciò che ha poi deflagrato nel nulla odierno? Tesi davvero improponibile e balorda. Forse si dimentica la saldatura che vi fu tra movimento studentesco e movimento operaio, la portata collettiva e partecipativa di quel grande movimento, che non è stato il detonatore di una alquanto supposta civiltà del piacere (purtroppo!!!) ma semmai che è stato lentamente e duramente sconfitto da un capitalismo canceroso che ne ha sfruttato alcuni elementi scorporati per asservirli ad un nuovo, pervasivo e più potente sistema di dominio. Cui evidentemente non sfuggono né Perniola né Zizek, se hanno bisogno di sfruttare a loro modo tesi così “spettacolari”, così evidentemente paradossali da sconfinare nella “butade” dell’attore consumato, nel birignao, nell’ossimoro utile solo a scatenare tempeste mediatiche inutili e distruttive. Che utilizzano proprio ciò che fa del capitalismo attuale un terribile avvelenatore, la legge assoluta dell’equivalenza, così ben sottolineata da Sloterdijk in uno dei suoi testi. La legge che ha fatto di tutte le cose pezzi interscambiabili, che possono essere sostituiti l’uno con l’altro senza che nulla cambi, la legge dell’equivalenze generalizzata, artificio peggiore di una reazione atomica, che rende impossibile produrre una qualsivoglia sporgenza sopra il deserto del reale. Per il quale dunque il ’68 può essere uguale a Berlusconi e viceversa, o la destra può essere sinistra e così via, come aveva già lucidamente cantato Giorgio Gaber. E’ però una tristezza constatare che tanta (supposta) intelligenza si presti a questo disegno sterminatore, con un sottile godimento, tra l’altro, proprio il godimento che imputano alle “masse” (un chiaro gaudente di questo genere è l’inossidabile Cacciari!). E qui emerge la loro vera identità. Si tratta di intellettuali iperaristocratici, proprio loro, che hanno tifato per il pop e per il rovesciamento delle categorie tradizionali dell’estetica o della morale, gli immoralisti, gli ermeneuti della Coca-Cola e dei blue-jeans. In realtà sono quelli che odiano la “gente” e che pur di continuare a sembrare diversi, pur di sentirsi delle star, anche sul pianeta dei Berlusconi, giocano il gioco osceno, il gioco mortifero, il gioco pornografico del fare di tutto l’eguale del tutto, del ’68 quindi –incredibile – la stessa cosa di Berlusconi.
Questo è l’intellettuale organico al sex-appeal di Berlusconi, l’intellettuale elitario di cui mi vergogno e per il quale invoco e spero un nuovo ’68, magari proprio da parte di quegli indignati di cui “gente” come Perniola ironizzava tutto goduto l’altra sera da Gad Lerner.