“Siccome
venivano in discesa – che non richiede una seria fatica, ma soltanto un allegro
frenare e puntare le ginocchia per evitare di correre e inciampare, e in
sostanza non è altro che un lasciarsi cadere – la loro andatura aveva un che di
alato e leggero che si comunicava al loro volto, a tutto il loro aspetto, e
poteva far nascere il desiderio di essere dei loro”.
T.
Mann, La montagna incantata
La Roccia viva
non ha l’andatura di una discesa leggiadra e alata, come descrive il grande
narratore tedesco amato dalla protagonista e presente nel momento cruciale
degli incontri con gli altri due personaggi del romanzo.
La Roccia viva
è una discesa impervia e tormentata che tiene fatalmente legati al filo della
corda di una trama coinvolgente e intrecciata. E fa nascere il “desiderio di
essere dei loro”, di essere spettatori e attori di una storia che ci riguarda,
mettendoci, magari, nei panni di Livia, Ermanno o Edoardo, gli amici che meglio
di chiunque altro conoscono i tre protagonisti.
È
una discesa verso la meta di ognuno dei tre, un percorso di deflazione lungo le
pareti rocciose di una montagna dove l’uomo, più che tentare di conquistarla ed
ergersi con il suo ego borioso e sfruttatore, non può che affidarsi alla sua
stabilità e imprevedibilità. La montagna accoglie, ammalia, è il bacio, come un
grazie, quando i piedi toccano la vetta. La montagna decide, inganna, è
sostanza, è materia, è roccia.
E
quella roccia è punto di partenza e approdo del cammino di Chiara, Michele e
Rudi, tre ragazzi quarantenni della Milano da bere che l’occhio discreto
dell’autore ci fa conoscere di soppiatto, la cinepresa del suo sguardo ci fa
entrare lentamente e con discrezione nelle loro vite e nelle loro case. Li
incontriamo quasi per caso mentre, per esempio, una domenica mattina percorriamo
in bicicletta una silente e ghiacciata via Palestro. Ma non per caso si impongono
alla nostra attenzione, stagliandosi sullo sfondo di Milano e delle Alpi, perché
le parole di Matteo Sartori disegnano appassionatamente e amichevolmente quei
tre ragazzi, dipingono l’animo umano sempre connesso all’anima dei luoghi,
della storia e del nostro tempo presente. L’autore cammina insieme ai suoi
personaggi, costruisce la strada mentre la percorrere, li guarda e si lascia
guardare da loro. Il suo è un punto di vista in movimento, ha la capacità di
“salire sul dorso della tartaruga” che, secondo la famosa teoria indiana della
molteplicità dei punti di vista, permette di vedere l’universo attraverso gli
occhi di chiunque venga messo sopra la tartaruga. Un narratore dai molteplici
volti che ogni volta riesce a rendere ogni storia e ogni sguardo interessante
grazie allo “shifting viewpoint”, al
suo sguardo mobile.
E
c’è una musica che accompagna il cammino di Chiara, Michele e Rudi, canzoni che
non fanno solo da piacevole e cullante sottofondo alla lettura ma creano un’atmosfera
unica e singolare, donano tempo all’immaginazione come lo spazio bianco tra le
parole.
E
alla fine, credo sia la discesa ciò che conta, la caduta sulla roccia che
impone una sosta alle vite sfrenate che corrono impazzite verso il vuoto
accecante del nostro tempo. Una caduta che può portare alla distruzione, alla
scoperta della propria essenza e ciascunità o ad una nuova rinascita.
“Allora la fine diventa ancora una volta un inizio e
l’ultima parola spetta alla vita”.
P. Brook