Si
potrebbe dire che “Tra cinque minuti in scena” è un film sulla vecchiaia e
sulla malattia, su un rapporto di “vero amore” tra una figlia e la propria
madre divenuta anziana e da accudire, “sull’inversione di ruolo madre-figlia
che l’allungamento dell’età media della vita impone sulla società
contemporanea”, o ancora sulla difficoltà di fare teatro oggi in Italia e sullo
stato di profonda crisi del mondo dell’arte in generale. Un “esordio coraggioso”
di una giovane regista tra le opere prime del cinema italiano che “sfida” ogni
tentativo di classificazione intrecciando linguaggi diversi e che qualcuno ha
detto sembra richiamare per “l’inevitabile cupezza dell’esperienza l’Haneke più
digeribile”.
Si
potrebbe dire questo e ancora di più, si potrebbero sfoggiare ulteriori rimandi
arditi e dotti o giudizi estetici, morali e ideologici indossando gli occhiali
sedicenti e sentenziosi di certi critici cinematografici che spesso riducono
l’opera a un oggetto da sezionare e valutare, uno strumento per parlare di sé,
delle proprie emozioni e delle proprie competenze cinefile. E dopo aver consultato
una recensione potremmo forse avere l’impressione di aver definitivamente
compreso il film, di averne carpito il segreto e abbandoneremmo in fretta il
buio della sala per proclamare luminose e saccenti interpretazioni, per
inondare le immagini con le nostre impressioni e reazioni immediate senza aver
dato la possibilità all’opera di mostrarsi, di aprire una breccia nel nostro
ego borioso e incrollabile e di provocare una qualche trasformazione.
Si
potrebbe, ma non basta. Potremmo provare ad accostarci alle opere cinematografiche
con uno sguardo altro, umile e
rispettoso, accogliente e stupito, sensibile e simbolico che prova a mettere
tra parentesi e a sospendere momentaneamente il nostro io tracotante e
strabordante per lasciare che le immagini ci parlino, si manifestino affinché possano
irradiare il loro potenziale conoscitivo e trasformativo.
Come
suggerisce Jean Espstein, è il cinema stesso che, attraverso la sua capacità di
rappresentare la realtà in immagini si fa “strumento di una nuova conoscenza non
più basata su presupposti cartesiani e kantiani, bensì su una logica «affettiva
e onirica» fondata appunto sul principio di analogia”. Pensare per immagini e
pensare con le immagini permette di allentare il criterio razionale che è alla
base della logica verbale per affidarsi alla facoltà immaginativa e alle sue
potenzialità cognitive e trasformative.
E
allora accostandoci di soppiatto al film e lasciandoci impregnare dalla
sostanza delle immagini vediamo emergere dallo sfondo di una Milano marginale,
a parte, separata, una figura femminile che racconta e si lascia raccontare da
vicoli oscuri, da tunnel deserti laddove le vie stesse si fanno meditabonde e
conducono lontano dai movimenti convulsi e anonimi della folla. Una figura androgina
che si muove determinata e irrisolta tra finzione e realtà, vita e morte, tra
il ruolo di figlia, attrice, amante. Figura che ogni giorno cammina attraverso
la città per recarsi in un teatro, su un palcoscenico. Un teatro che è separato
non solo dalla città, ma anche dal produttivismo, dall’utilitarismo che ci
assedia, un teatro inutile la cui inattività lo condanna a tenersi ai margini
della società.
Il
teatro è uno spazio liminale, sulla soglia, un cerchio magico che trasfigura la
realtà in un bianco e nero patinato, il teatro, suggerisce Antonacci, “è
graffiante, provoca ferite che poi faticano a rimarginarsi”. Sul palcoscenico
viene rappresentata la vita, viene presentificata in forma di commedia
l’esperienza di cura della madre anziana che Gianna, la protagonista, sta
vivendo fuori dallo spazio speciale del teatro. E per un attimo la vita reale
sembra non riuscire a rimanere fuori, reclama una rappresentazione,
un’attribuzione di senso e tracima in una identificazione tra persona e
personaggio. Come hanno ben mostrato gli studi di Turner, il teatro non è una
semplice ripetizione della vita, ma è una azione performativa (da parfournir, «completare» o «portare
completamente a termine») che permette di attribuire un significato alla vita
stessa, è la “conclusione adeguata di un’esperienza”. Il corpo di Gianna si
farà allora medium e messaggio che consentirà a se stessa e a noi spettatori di
dare ordine alla vita e dare senso allo scorrere del tempo, contro o verso
l’ineluttabilità della morte. Nell’intreccio tra teatro e vita, rimaniamo graffiati,
feriti e al contempo trasformati dalle immagini di vita e morte, vecchiaia e infanzia,
dolore e gioco tra madre e figlia.
Il
teatro è anche un luogo di incontri tra molteplici figure femminili che condividono
le loro solitudini e i loro sogni dietro le quinte, nello spazio segreto e sacro
del camerino. È un femminile che seduce,
turba, disorienta e mette a disagio un maschile intrappolato nella rete del
produttivismo, un femminile che sa rimanere in contatto e sostare nell’oscurità
della vita, un femminile indomito e indomabile che ha vissuto nell’assenza del
maschile, un femminile sfuggente che si muove nella notte e si ferma sui
crocicchi.
Un
femminile che saprà riportare in vita il teatro e la vita nel teatro.
E
le immagini potrebbero continuare a dire.