Quando il corpo viene “obbligato”
a muoversi. Pratiche corporee e dimensione immaginale nel tempo concentrato e
prezioso di un laboratorio.
«Ho
vissuto il corpo come limite, confine, cambiamento, protezione, separazione e
connessione tra me, gli altri ed il mondo. É stato un po’ come riappropriarsi
del proprio corpo, prestare attenzione a quanto di solito è invece dato per
scontato e normale, tanto da non ascoltarlo più (respiro, battito cardiaco,
vibrazione tra addome e colonna vertebrale determinata dall’emissione sonora,
per esempio), per riprenderne coscienza come parte che mi appartiene o su cui
posso agire, che posso anche attivare in modo “nuovo”, “diverso” dall’abituale
e inconsapevole».
Così una
studentessa del terzo anno di Scienze dell’Educazione restituisce il percorso
di due giornate laboratoriali in cui viene
chiesto di mettere in gioco il corpo, le emozioni, di lasciare la mente
“navigare come le nuvole” per provare ad avviare una riflessione rispetto alla
dimensione corporea in educazione, al proprio esserci come corpi sulla scena formativa.
Giunti quasi al termine del loro percorso universitario gli studenti sono
“obbligati” (i Laboratori di Didattica delle Attività motorie prevedono una
frequenza obbligatoria) ad indossare un abbigliamento comodo e a recarsi nell’unico
e trascurato laboratorio motorio dell’università o in un’ampia sala di una scuola
teatrale. E lo spazio vuoto, senza banchi inchiodati ai pavimenti e una
cattedra dietro la quale si esibisce e si nasconde il docente li imbarazza, li
disorienta, entrano timorosi, incerti se togliersi le scarpe e quando seduti in
cerchio condividono le loro aspettative rispetto a ciò che sta per succedere si
rassicurano vicendevolmente, certi che la maggior parte di loro vorrebbe non
assistere a una lezione frontale e al contempo non vorrebbe esibirsi, giocare,
danzare, fare teatro, mettere in gioco il corpo. Dopo aver riposto letteralmente
e metaforicamente in una valigia le aspettative, i pre-giudizi, le
pre-comprensioni i corpi iniziano a muoversi in un tempo e in uno spazio speciali, inconsueti,
intensi e preziosi. Uno spazio di quiete che lascia ad ognuno il tempo di
incontrarsi, mostrarsi, ascoltare e ascoltarsi, agire e lasciarsi agire. Un
tempo di riposo in cui ci si ferma per godere senza fretta il piacere di auscultarsi,
di percepire il proprio respiro, il battito del cuore, le emozioni che
provengono da un gesto, da un contatto, da uno sguardo. Un tempo di
riflessività in cui, in gruppo, si lasciano fluire, condensare e poi di nuovo
fluire le molteplici significazioni possibili che l’ambiguità e l’ambivalenza
del corpo lasciano emergere. Si condivide il sentire del corpo, non con un
obiettivo intimistico e psicologizzante, ma per comprendere il suo esserci e
stare nella relazione educativa, per percepire quella “qualità di presenza
particolare, viva e autentica” sulla scena formativa. Per questo vengono
proposti dei giochi e degli esercizi che provengono dall’ambito teatrale, che
non hanno alcuno scopo di carattere performativo, ma provano ad avviare una
riflessione rispetto ad alcune dinamiche educative a partire dal vissuto del
corpo in un intreccio inestricabile e proficuo tra prassi e teoria. Senza la
pretesa e la supponenza di scoprire un’unica e prescrittiva modalità di
“esserci”, per ognuno si apre la possibilità di interrogarsi rispetto alla
propria ed unica presenza corporea, a come ogni corpo si presenta, si mostra e
si nasconde al mondo, come guarda e si lascia guardare, come i gesti degli
altri agiscono su se stessi, “espressivi
tanto quanto la parola, modulabili in ampiezza al pari del timbro della voce,
capaci di accogliere ed includere, come pure di rifiutare ed allontanare”.
E al termine del
primo incontro si lascia parlare il corpo che restituisce attraverso diverse
modalità espressive la propria idea di educazione per provare ad acquisire
consapevolezza delle immagini, dei saperi, delle emozioni, dei vissuti che
orientano e determinano la propria presenza di educatori, per non lasciarsi
agire inconsapevolmente da esse ma per agirle criticamente. Dopo questa prima
parte che può essere considerata come una “pars destruens” viene proposta ai
ragazzi una “parte costruttiva” per provare ad arricchire il loro sguardo sul
corpo in educazione. Gli studenti vengono invitati e accompagnati ad entrare in
contatto con il corpo di alcune immagini pittoriche particolarmente
significative rispetto alla presenza del corpo nei contesti educativi. Dopo un
momento di visione, meditazione e circolazione delle molteplici vie di
significazione che le opere indicano i ragazzi provano a restituire una visione
rinnovata e approfondita dell’opera d’arte lasciandosi parlare dal corpo.
Alcune volte si limitano a una drammatizzazione o a una narrazione dei
significati incontrati nel contatto con l’opera, ma capita anche che la
restituzione corporea, attraverso un gesto, un suono, un urlo o un silenzio riesca a condensare e a far risuonare il mondo
immaginale dell’opera. E questo richiede
un continuo, paziente e arduo esercizio di movimento, di spoliazione, di
pulizia, di poetica del gesto e del corpo per ritrovare, come suggerisce
Francesca Antonacci, “le risorse e le potenzialità simboliche e materiali del
suo linguaggio cinestesico”. Per questo è necessario continuare ad “obbligare”
il corpo a muoversi in un tempo dilatato e prezioso che non si limiti ad un
breve laboratorio.