mercoledì 2 gennaio 2013


Quando il corpo viene “obbligato” a muoversi. Pratiche corporee e dimensione immaginale nel tempo concentrato e prezioso di un laboratorio.
 

«Ho vissuto il corpo come limite, confine, cambiamento, protezione, separazione e connessione tra me, gli altri ed il mondo. É stato un po’ come riappropriarsi del proprio corpo, prestare attenzione a quanto di solito è invece dato per scontato e normale, tanto da non ascoltarlo più (respiro, battito cardiaco, vibrazione tra addome e colonna vertebrale determinata dall’emissione sonora, per esempio), per riprenderne coscienza come parte che mi appartiene o su cui posso agire, che posso anche attivare in modo “nuovo”, “diverso” dall’abituale e inconsapevole».

Così una studentessa del terzo anno di Scienze dell’Educazione restituisce il percorso di due giornate laboratoriali  in cui viene chiesto di mettere in gioco il corpo, le emozioni, di lasciare la mente “navigare come le nuvole” per provare ad avviare una riflessione rispetto alla dimensione corporea in educazione, al proprio esserci come corpi sulla scena formativa. Giunti quasi al termine del loro percorso universitario gli studenti sono “obbligati” (i Laboratori di Didattica delle Attività motorie prevedono una frequenza obbligatoria) ad indossare un abbigliamento comodo e a recarsi nell’unico e trascurato laboratorio motorio dell’università o in un’ampia sala di una scuola teatrale. E lo spazio vuoto, senza banchi inchiodati ai pavimenti e una cattedra dietro la quale si esibisce e si nasconde il docente li imbarazza, li disorienta, entrano timorosi, incerti se togliersi le scarpe e quando seduti in cerchio condividono le loro aspettative rispetto a ciò che sta per succedere si rassicurano vicendevolmente, certi che la maggior parte di loro vorrebbe non assistere a una lezione frontale e al contempo non vorrebbe esibirsi, giocare, danzare, fare teatro, mettere in gioco il corpo. Dopo aver riposto letteralmente e metaforicamente in una valigia le aspettative, i pre-giudizi, le pre-comprensioni  i corpi iniziano a muoversi  in un tempo e in uno spazio speciali, inconsueti, intensi e preziosi. Uno spazio di quiete che lascia ad ognuno il tempo di incontrarsi, mostrarsi, ascoltare e ascoltarsi, agire e lasciarsi agire. Un tempo di riposo in cui ci si ferma per godere senza fretta il piacere di auscultarsi, di percepire il proprio respiro, il battito del cuore, le emozioni che provengono da un gesto, da un contatto, da uno sguardo. Un tempo di riflessività in cui, in gruppo, si lasciano fluire, condensare e poi di nuovo fluire le molteplici significazioni possibili che l’ambiguità e l’ambivalenza del corpo lasciano emergere. Si condivide il sentire del corpo, non con un obiettivo intimistico e psicologizzante, ma per comprendere il suo esserci e stare nella relazione educativa, per percepire quella “qualità di presenza particolare, viva e autentica” sulla scena formativa. Per questo vengono proposti dei giochi e degli esercizi che provengono dall’ambito teatrale, che non hanno alcuno scopo di carattere performativo, ma provano ad avviare una riflessione rispetto ad alcune dinamiche educative a partire dal vissuto del corpo in un intreccio inestricabile e proficuo tra prassi e teoria. Senza la pretesa e la supponenza di scoprire un’unica e prescrittiva modalità di “esserci”, per ognuno si apre la possibilità di interrogarsi rispetto alla propria ed unica presenza corporea, a come ogni corpo si presenta, si mostra e si nasconde al mondo, come guarda e si lascia guardare, come i gesti degli altri agiscono su se stessi, “espressivi tanto quanto la parola, modulabili in ampiezza al pari del timbro della voce, capaci di accogliere ed includere, come pure di rifiutare ed allontanare”.
E al termine del primo incontro si lascia parlare il corpo che restituisce attraverso diverse modalità espressive la propria idea di educazione per provare ad acquisire consapevolezza delle immagini, dei saperi, delle emozioni, dei vissuti che orientano e determinano la propria presenza di educatori, per non lasciarsi agire inconsapevolmente da esse ma per agirle criticamente. Dopo questa prima parte che può essere considerata come una “pars destruens” viene proposta ai ragazzi una “parte costruttiva” per provare ad arricchire il loro sguardo sul corpo in educazione. Gli studenti vengono invitati e accompagnati ad entrare in contatto con il corpo di alcune immagini pittoriche particolarmente significative rispetto alla presenza del corpo nei contesti educativi. Dopo un momento di visione, meditazione e circolazione delle molteplici vie di significazione che le opere indicano i ragazzi provano a restituire una visione rinnovata e approfondita dell’opera d’arte lasciandosi parlare dal corpo. Alcune volte si limitano a una drammatizzazione o a una narrazione dei significati incontrati nel contatto con l’opera, ma capita anche che la restituzione corporea, attraverso un gesto, un suono, un urlo o un silenzio  riesca a condensare e a far risuonare il mondo immaginale dell’opera. E questo richiede un continuo, paziente e arduo esercizio di movimento, di spoliazione, di pulizia, di poetica del gesto e del corpo per ritrovare, come suggerisce Francesca Antonacci, “le risorse e le potenzialità simboliche e materiali del suo linguaggio cinestesico”. Per questo è necessario continuare ad “obbligare” il corpo a muoversi in un tempo dilatato e prezioso che non si limiti ad un breve laboratorio.