lunedì 4 luglio 2011

Accademici letterali


I loro libri li riconosci al primo colpo d’occhio. Massicci, lineari come incroci nel deserto, dal colore indefinito e sudicio, senza immagine alcuna chè sono ispirati dalla peggiore iconoclastìa, scritti a carattere piccolo e normotipo. Grigi, salmodianti e tetri. Accumulano prove e citano all’impazzata, allineando riferimenti come i galloni di un’uniforme. Piatti e deduttivi, ogni concetto bonificato da qualsiasi traccia emozionale, poiché son patofobici all’inverosimile. Per loro ogni concessione all’apparenza è colpevole, ogni sospetto di seduzione, di ammiccamento, di sofisticazione è passibile di immediata scomunica, le armi solo quelle della verbosa retorica e del rigorismo ascetico. Parole scorticate e prosaicizzate affinchè nulla di troppo ambiguo vi sfugga, dittatura della denotazione e della asciuttezza, imperativi pragmatici ad ogni più sospinto, timore di esondare in spasmi di entusiasmo o, peggio, di slanci poetici e affabulatori. Il loro dio è l’utile, il loro strumento il pragma, la loro motivazione è l’eroismo punitivo, il loro proposito l’uniformazione alla legge.
I bigi chierici della parola ben finalizzata, temperata sul fuoco della prova di efficacia concettuale ma irrimediabilmente destinata a produrre noia e ripugnanza, dilagano ancora nella provincia del ben pensare. Specie nelle fucine accademiche, dove il loro credo si puntella spesso con le presunte buone ragioni del contrapporre le concrete pratiche e solerti all’aulicismo presunto della fucina filosofica o agli eroici furori considerati fatui delle passioni sensibili.
Contrari, per irrigidimento della colonna –propria- e della costola –libraria-, al “demone dell’analogia”, seminano l’aere già costipato dal nulla, di nuove macchinose elucubrazioni sedicentemente parate sotto il vessillo dell’utile e del maneggevole ma in verità (ma qui alligna il vero occulto appagamento narcisico) annegate in una complessità che richiede protratta e anchilosata applicazione affinchè se ne deduca anche il più piccolo ( e spesso piccolissimo), ritorno di senso. Sia detto per inciso, alcuni sono animati dalle migliori intenzioni, fuori e dentro la provincia accademica, ma il problema da porsi è come sciogliere il grano duro delle loro prose forbite e aristocratiche per alimentare il gusto del sapere, il piacere di conoscere, come appassionare menti e cuori ai nocciòli più celati della cultura ma anche alla polpa sugosa.
Per evitare le paludi romantiche delle grandi idee dalla tribolata applicabilità (pèrò adatte a scuotere e risvegliare nel nome di un sapere sapido e succolento), si arenano nella sabbia ustoria ma talvolta anche mobile delle dissertazioni complicate e interminabili, spesso accompagnate da rendiconti empirici e controprove fattuali (dio scampi che essi non siano portatori dell’ausilio della verità riscontrata in atto), la cui compulsazione risulta indigesta anche al più daimonico dei lettori. I loro titoli sono brevi e anonimi, le loro copertine disseccate come cadaveri preistorici, i loro contenuti raffermi e improbi. Ma essi menan vanto proprio di questo: del non aver indulto agli eccessi di spettacolarizzazione (sommo peccato della cultura contemporanea), del non drogare i loro messaggi con ornamenti e cosmesi non richiesta ma soprattutto ( e qui ne emerge il volto irrimediabilmente compromesso di catecumeni penitenti) di aver del tutto espunto e diserbato il territorio di ogni traccia di libido che non sia quella pia e conserta delle cose concrete e “utili”, o dell’astrazione assoluta. Con una perversione maligna che è anche quella per la quale ha senso imparare solo se è arduo e ancor più arduo: nessun alleggerimento, anzi, se possibile aguzzare il male, scrivere piccolo, ingombrare di inutili e verbose citazioni, arzigogolare, azzerare le immagini, divinità infide e seduttrici, solo deve restare la scabra pagina bianca caricata di segni dall’improba comprensione, pagina iniziatica, selettiva, implacabile.
Ed è allora facile anche riconoscerli nelle loro diafane epifanìe: trascurati e sciatti, malvestiti e inodori, asettici, dai sorrisi fossili e senza bersaglio (tipico dell’amor agapico dei bravi cattolici: amar tutti per non amar nessuno), apparentemente gentili e in realtà feroci e invidiosi di ogni bellezza, specie se umana, specie se agghindata, specie se apprezzata. Brutti e indesiderabili, infestano i luoghi dell’istruzione, dove hanno eretto da secoli la loro fortezza e imperversano senza timore sulla specie umana ai suoi albori e, purtroppo, assai anche in seguito. Finché ne han destro, diciamo. Ché l’estro invece, di quello, son manchi.
D’essi una controeducazione nel piacere fondata e piena si vuol emancipare in tutti i modi, rifornendo il mondo dei precetti di Afrodite sull’aspetto, sulla seduzione, sul gusto d’immagine e sui suoi monili. Scatenando ovunque le frecce velenose e guaritrici di Eros, che perforino pelli e le lacerino fino a che urla e godimento faccian tutt’uno. Serpenti e mandragore affollino gli spazi incolti e spigolosi dove gli adunchi diffusori della noia generalizzata e del vaccino contro il desiderio imperversano, e ne concimino la dura sterpaglia. Affinchè cresca foresta fitta e stillante d’acqua di mimosa.
Si vogliono maestri attraenti e ben coltivati, dalle vesti preziose e dal profumo intenso, dai volti sapienti ma non indigenti di appassionamenti, cari a se stessi e disposti ad amare anche l’altro, con occhi accesi e parole fluenti. Si voglion libri veri, intarsiati dal sudore del tempo oppure anche nuovi ma colorati e piccanti, scritti con desiderio e di desiderio infusi, accattivanti e avventurosi, saporosi e fondi, come pozzi dove risuona il sottosuolo tiepido e umido o come il firmamento, dove le costellazioni vibrano la loro nota mercuriale e luminosa. Libri con immagini, con figure, libri sonori, libri come pasta di terra, che mentre li maneggi palpitano e traspirano, ti afferrano e ti trattengono, ti guardano e ti sorprendono.
Libri che i nostri adunchi nemici getterebbero nella Geenna, offesi dal vilipendio all’ascesi di un’ipostatica cultura tutta ossari e ritiri nel deserto. Libri che li facciano inorridire perché capaci di irretire al primo sguardo, tentacolari e mobili, irrorati dalla rugiada del desiderio, non più neppure libri ma corpi intarsiati e dionisiaci, danzanti e ammiccanti come baiadere.
Libri che nessun accademico di vaglia citerebbe mai, che mai questi dementi inserirebbero in bibliografia o proporrebbero ai propri studenti da esaminare, libri che li terrorizzerebbero perché capaci persino di appassionare e di emozionare. Giammai! Il libro come cilicio, l’esame come sanzione, lo studio come castigo, il sapere come vessazione. Questo il vangelo dei catecumeni della vera scienza, ora in coda per essere ammessi alla prova dell’impact factor ma comunque pronti a escogitare pomici di conoscenza ispida e ingrata a test e a tesi.
Orrido sciame di cavallette devastatrici, come liberarsi di questa infausta genìa, come sgombrare la radura dell’imparare dalle loro zampe ungulate e feroci? Come scacciare la peste di questi sgobboni del nulla, di questi cimeli dell’autolesionismo crudele e reiterato?
Forse davvero con l’apprender dolce e conviviale, con la lussuria della conversazione e della contemplazione felice, con libri sapidi e voluttuosi, con maestri del cuore e dell’eloquenza, con l’hammam fluente e nuovo di una radura, di un dare e di un ricevere nel segno della gratuità, della meraviglia, dell’avventura e della festa. Tramite il ludico, tramite il teatro, tramite l’immaginazione attiva e la musica, tramite il calore di corpi in mutua sintonìa, nel ritmo di una temporalità densa senza essere melensa, languida ma non spossata, febbrile senza isterie, allietata dal cibo, dal riposo, dall’espansione corporea e dal coito dei pensieri liberi e imprevidenti.