giovedì 20 maggio 2010

E se i barbari fossero anche una medicina?

L'intellighenzia riformista del nostro paese, dai Galimberti agli Scalfari ai Tranfaglia e ai molti altri, sembra assai preoccupata dell'avvento della nuova barbarie, individuata perlopiù nell'orda nichilista che insidia il primato dei valori della modernità, dall'individuo partorito dal cogito cartesiano e dalla morale kantiana, alla storicità e allo storicismo, alla formazione imperniata sulla parola e sulla scrittura. Il volto nomade e tribale delle giovani generazioni, la disseminazione e la pluralità delle forme di comunicazione, la degerarchizzazione dei saperi sconvolge i nostri peraltro rispettabili custodi della civiltà illuministica.
E tuttavia...
E se, al di là di fenomeni certo inquietanti di nuova anomia, di insubordinazione confusa e di evidente caduta di rispetto per l'etica pubblica e per gli ideali d'antan, se accanto alla dispersione della memoria, al narcisismo e ad un appiattimento del desiderio sulla merce, peraltro prodotti proprio dall'evoluzione di quella civiltà di cui si patisce tanta nostalgìa, vi fossero anche segnali interessanti, trasformativi, e non necessariamente in peggio, da raccogliere?
Se, per esempio, qualcosa da sempre ostracizzato e emarginato nella nostra idea di cultura, assecondando forse anche un necessario moto di compensazione, ritornasse alla ribalta? Se, ad una cultura che è stata per secoli iconoclasta, somatofobica, sessuofobica, misogina e certo allergica ai linguaggi non deduttivi, astratti e fortemente gerarchizzati, si contrapponesse finalmente la necessità di un forte ribaltamento della concezione del sapere, dell'educazione, della comunicazione, in cui l'immaginazione, il corpo, la musica ritornassero ad avere un ruolo di rispetto? Se allo scientismo e al geometrismo della conoscenza, anche in virtù delle progressive trasformazioni e ritrovate connessioni tra filosofia e ricerca, tra arte e vita, si potesse sostituire una visione più plurale e policentrica dell'episteme e dell'esperienza? Se, per esempio, a scuola, si immaginasse che l'epistemologia della musica contemporanea, o quella del teatro povero e della drammatizzazione, o quella del cinema, o quella della danza, o quella dell'immaginazione artistica potessero affiancarsi in maniera non subalterna all'apprendimento fondato sulla parola e la scrittura, se la scienza ritrovasse una dimensione estetica e non solo funzionale, se la filosofia fosse finalmente emancipata dalla tirannia storicistica? Se l'informatica fosse uno spazio di sperimentazione espressiva e non solo una tecnologia finalizzata alla produzione? Insomma, se al monoteismo del Logos e della sua morale si avvicendasse il politeismo meticcio dei linguaggi e delle forme, sarebbe davvero l'apocalisse temuta dai nostri moderni Catoni?

martedì 11 maggio 2010

Strofa VII

"Una melodia al di là di noi come siamo,
senza che nulla sia mutato della chitarra blu;

noi stessi nella melodia come nello spazio,
senza che nulla sia mutato, se non il luogo

della cosa come fu e solo il luogo
mentre la suoni, sulla chitarra blu,

posta, così, oltre l'ambito del mutamento,
percepita in un'atmosfera finale;

per un momento finale, nel modo in cui
il pensare l'arte sembra finale quando

il pensare dio è rugiada fumosa.
La melodia è spazio. La chitarra

diviene il luogo della cosa come fu,
un comporre i sensi della chitarra blu."

(da Wallace Stevens L'uomo con la chitarra blu)