martedì 15 giugno 2010

Eugenio Barba a milano

Il 5 giugno 2010 Eugenio Barba, uno dei più grandi maestri del teatro contemporaneo, fondatore e regista dell'Odin Teatret (http://www.odinteatret.dk/) ha tenuto una Lectio Magistralis alla Casa della Carità di Milano.


“Ora io mi sento come un bambino e finché sarò in grado di saltellare, saltellerò.”


Con rigore e umorismo ci ha ammaliati e incantati. Ha descritto il suo teatro come un teatro di fissati e disadattati, e i grandi maestri del '900 (Stanislavskij, Artaud, Beck, Brecht, Grotowski) come dei folli. Persone che non sono state ragionevoli, che non hanno saputo accettare la realtà e per questo si sono “spostate”, e sono diventate “spostate” perché hanno saputo creare qualcosa che per gli altri era considerato impossibile. Meglio, perché hanno creduto che l'impossibile è qualcosa di possibile, che richiede solo più tempo e fatica.

Il teatro per Barba è la continuazione della politica con altri mezzi e deve cambiare registro e categorie espressive per lottare contro la realtà che rifiuta. Deve cambiare linguaggio, ma sopratutto deve cambiare immagini.

Interrogato su come hanno origine le immagini presentate nei suoi spettacoli, ha parlato di un linguaggio archetipico, che fa risuonare in noi esperienze primordiali, storiche o animali. Barba lo ha chiamato “il linguaggio degli Angeli”, e lo ha indicato come suo obiettivo, nel lavoro con gli attori: far parlare loro il linguaggio degli Angeli.

Personalmente, per convivere con il sangue nero che sente ribollire dentro di sé, Barba dice di aver imparato a parlare con delle donne e ne ha presentate tre: una sedicenne greca insensata: Antigone, una piccola e magra albanese Anjeza Gonxhe Bojaxhiu e la sua “aliena” nipotina di sette anni (aliena perché donna, bionda e perché parla in una lingua che lui non conosce).

Tre donne con cui Barba discute, litiga, dialoga, si confronta. E sono immagini di donne, non fantasmi, oggetti proiettivi, ma vere compagne di vita, con cui dialogare e confrontarsi, con cui litigare e azzuffarsi in una lingua sconosciuta, con gli strumenti dell'immaginazione.

Antigone, che Barba ama e odia, è una ragazzina che compie un gesto simbolico definito come inefficace, come spargere un pugno di polvere sul corpo del fratello morto. Sarebbe molto più efficace secondo le logiche maschili agire per prendere il potere dello zio Creonte, ma Antigone ha insegnato a Barba, nel tempo, le categorie femminili di un ethos profondo e lontano dalla sua sensibilità, lo ha dislocato in un altro linguaggio, in altre categorie e di fronte ad altre immagini.

Anjeza Gonxhe Bojaxhiu, nota come Madre Teresa di Calcutta, con il suo temperamento caparbio, con i suoi gesti efficaci, con il suo comportamento deciso a donare una morte dignitosa anche all'ultimo degli ultimi, lo aiuta a cercare un senso all'anonimato dei gesti della quotidianità, alla necessità politica di essere una “soluzione” per situazioni apparentemente impossibili e lo scuote alla ricerca di una strategia artistica per rendere visibile un tale esempio, tenendo conto che la problematica dell'Odin Teatret è sempre stata quella dell'individuo di fronte alla storia.

A sua nipote Barba racconta che il teatro è un tempio che è stato distrutto e nascosto, ormai scomparso sott'acqua, un tempio che può essere riportato in superficie con la massima cura e attenzione, con pazienza e dedizione, ma senza mappe, né istruzioni, per tentativi.

Per queste e altre cose, per il suo sguardo infante, per la sua leggerezza e per l'eleganza di una estroflessione, di una noncuranza declinata in umiltà, ne scrivo oggi.

martedì 1 giugno 2010

la chitarra spudorata di Balthus


Disvelamento dello strato profondo in cui si radica ogni vera lezione, messa a nudo della fantasia che anima il corpo a corpo dell'insegnare e apprendere, vortice in cui si accordano i desideri occulti e impossibili con l’inatteso dischiudersi in piena luce del loro soddisfarsi, la “lezione di chitarra” di Balthus, è certo un quadro che fu, resta e rimarrà pietra di scandalo e insieme nutrimento inesauribile di ogni sguardo educativo appassionato d’eros e d’ambiguità.
In esso, nella sua evidenza sfolgorante -in cui il ventre chiarissimo dell’adolescente, marcato su quella gonna scura che pende come una bandiera ammainata sotto il sesso scoperto, appare offerto alla piccola e delicata mano di una maestra esigente e sapiente-, nulla è celato, eppure tutto è indecidibile. Sulla consueta linearità geometrica che taglia il dipinto sul fondo, al modo delle misteriose scacchiere che spesso giacciono a lato dei soggetti preferiti di Balthus, sulle strisce della tappezzeria verdi e rosa, contro il lato rigido e diritto del pianoforte austero a sinistra della scena principale, il motivo dai morbidi e vorticosi intrecci al centro, appare esibito senza mezze misure e vi risuona ancor più visceralmente per contrasto.
Lo spettacolo erotico della maestra che suona la sua allieva, come se fosse la chitarra che doveva separarle e intimare loro la condotta di una relazione disciplinata, è gridato dalla luce, ancor prima che dai gesti. Esplode nella chiarezza delle carni, il bianco latteo del sesso glabro dell’adolescente e la luminosità di quel seno che letteralmente erompe dalla scollatura della maestra, un seno soltanto, che evoca l’immagine dell’ “Alice nello specchio” tanto amato da Jouve ma forse ancora di più quello della “Toilette di Cathy”, tondo e compatto ma allo stesso appuntito e provocante come un’interrogazione (è forse il seno della mestra che ora si tratta di imparare a suonare? E’ forse questa l’ “interrogazione” cui si tratta di prepararsi?).
L’adulta, il cui volto, a giudizio di alcuni evoca le fattezze della madre di Balthus, la seducente Baladine amica e amante di Rilke, ha fatto immaginare una bizzarra iniziazione edipica, con lo stesso Balthus nei panni dell’adolescente, di quel Narciso cui spesso amavano ricondurlo da ragazzo gli amici artisti della cerchia familiare. Ma, a prescindere da ogni capziosa ipotesi psicoanalitica, salta all’occhio la veemenza del quadro, la crudeltà, che fece tanto amare Balthus ad Artaud quanto al mondo affascinato da Sade che si radunava intorno alla rivista “Minotaure” negli anni ’30, la calma decisione che figura nell’atteggiamento dell’adulta mentre maneggia il corpo della ragazzina. Lo stesso Balthus rivendicò a questo quadro la sua forza erotica e provocatoria. “Morte agli ipocriti!” scrisse al proposito a Antoinette de Wattewille, “io voglio declamare alla luce del sole, con sincerità e partecipazione, tutta la tragedia e l’emozione di un dramma della carne, proclamare a gran voce le incrollabili leggi dell’istinto”. Come dargli torto? Vi è riuscito pienamente, sfidando ogni ipocrisia, rivelando d’un colpo i moventi segreti che spesso radunano corpi di adulti e adolescenti ben al di là degli scopi meritori che dovrebbero ordinarne la prossimità.
Se non risuona propriamente l’educazione libertina di Eugénie della sadiana “filosofia del boudoir”, certo sempre di educazione sembra necessario parlare. Un’antieducazione forse, in cui lo strumento differenziatore giace ammutolito sul pavimento e la musica viene suonata dai corpi, in un’armonia certo ambigua ma non meno rivelatrice. Di primo acchito sembra trattarsi di una violenza, la presa ferrea dei capelli della ragazza appare inequivocabile ma poi alcuni dettagli perturbano l’immagine crudele. L’abbandono totale dell’adolescente (imputato anche all’iconografia sacra di una Pietà di Quarton del millequattrocento) è l’effetto di una sorta di deliquio o raffigura piuttosto un’estrema accettazione? Gli occhi socchiusi sono il frutto della sofferenza o del piacere? La mano che si solleva verso il seno denudato della maestra è un ultimo tentativo di aggrapparsi e di difendersi o è il segno della premura di restituire il godimento?
Dipinto emblematico, che ancora, come mi ha dimostrato una recente esibizione con giovani allievi universitari, suscita sconcerto, forse proprio perché dice senza giri di parole quell’indicibile che serpeggia dietro le pie intenzioni del bravo educatore, quell’indicibile però qui così affermativo e vitale da far semmai apparire sconcertanti quei gesti di ritrosia e di scandalo che ancora sfuggono al tempo del grande disincanto.
Anche quel pianoforte silenzioso, dai tasti neri e bianchi improbabilmente alternati, resta una presenza misteriosa e inquietante, traccia di un’estetica del difforme e della dissonanza che forse potrebbe maggiormente alimentare una sensibilità immaginativa e immaginale intorno ai dilemmi dell’educazione.

Ahi la meritocrazia...

Il termine “merito” è gorgogliato oggi da tutte le voci del coro che starnazza intorno al feretro universitario, con ugual gaudio. Da sinistra si strepita al merito e da destra risponde uno schiamazzo di gioia. Tutti uniti finalmente all’insegna di una delle categorie del pensiero liberale più gravide di storia (quella del self made man, quella della legge del più forte, quella della “selezione” o, in breve, del darwinismo sociale) che, tutt’a un tratto, diventa, al pari di molte altre, innocente, non ideologica, consensualmente plaudita.
All’idea, evidentemente del tutto obsoleta e tramontata, che un sistema educativo pubblico debba favorire l’accesso di tutti alle molteplici opportunità del sapere e debba sostenere in specie i più deboli in tale percorso, si è finalmente sostituita, o forse è semplicemente ritornata, con festosa unanimità, la legge dell’eccellenza, dei migliori (oi aristoi), dei campioni.
E che diamine! Non vorremo continuare a correre dietro a tutti i pesi morti di questo infernale carrozzone che si pretende di pubblico interesse! O meglio, il pubblico interesse è spianare la via ai già talentuosi e buttare a mare le zavorre.
Finalmente, magari con il reintegro di valutazioni numeriche (anche solo su una scala a tre livelli: forti, mezze tacche, deboli), fuori i fannulloni, i demotivati, i potenziali scarsi e avanti la nuova falange degli HP (High Potential), dei grossi cervelli (prima che facciano le valige per lidi migliori dove regna come è noto la legge del privato anche detta della giungla), degli iperdotati. Tutti d’accordo, una delle categorie più classiche dell’individualismo capitalista ha finalmente risolto ogni controversia: corsie preferenziali ed alti investimenti per i super Q. I. e corsie di decelerazione o diretta espulsione per i bradipi e gli ipodotati. Evviva!
Ma non basta.
Accanto alla meritocrazia indirizzata verso i discenti e verso gli aspiranti docenti, nella quale un po’ da sempre sperano con la bile infiammata tutti i trombati di questa terra (che dio li abbia in gloria, è venuta anche la loro ora), vi è poi una più velenosa forma di meritocrazia (e della tecnocrazia che prefigura), che avanza e ben presto spavaldeggerà. Quella dei saperi. Qui, dove si può far valere l’elemento monetario con maggiore spregiudicatezza, già si avvertono i giannizzeri delle società per azioni pronti a bandire tutti quei giacimenti di cultura che fanno poca rendita. Pochi iscritti, poca produzione, poca audience, dunque sgomberare. Vedo molti indirizzi del sapere umano e dunque corsi di laurea, certo forse un po’ inabili nell’animare l’acclamazione delle folle, forse un po’ di nicchia, persino talora poco spendibili sul mercato del lavoro, e tra i saperi non applicativi ce ne sono molti, sparire letteralmente.
Alla finalità sacroesanta che l’istituzione pubblica dovrebbe incarnare, di custodire e trasmettere anche i saperi meno redditizi e frequentati, ben presto si sostituirà, con tutta evidenza, la logica dei saperi con merito, altamente quotati, fortemente spendibili, significativamente competitivi.
E allora, intoniamo anche noi in coro: evviva la meritocrazia!
C’è però una consolazione: se ciò dovesse veramente avvenire, molti dei fuffologi che oggi decantano i meriti della meritocrazia, scomparirebbero insieme al trionfo delle loro idee!
Una battuta per finire sul grande argomento dei meritocratofilici: il nepotismo, specie quello baronale delle gerarchie accademiche, autentica peste della libera concorrenza applicata alla ricerca. Ma qualcuno ha provato a fare qualche illuminata ricerca sul nepotismo degli imprenditori (non me ne viene in mente quasi nessuno che abbia aperto un equo concorso per il suo successore alla gran poltrona), quello dei giornalisti (non si capisce mai chi scrive, della famiglia), degli attori, (han sempre gli stessi cognomi), dei politici (non infieriamo per carità), e poi di tutti gli aziendali statali e non che hanno lasciato il proprio posto al figlio andandosene in pensione, e non parliamo degli artigiani, dei commercianti, dei pizzaioli e dei carrozzieri, dei prestinai e dei linotipisti…
Non sarà, confesso un sospetto, che qualcuno ce l’ha particolarmente a morte con il mondo degli accademici?