giovedì 26 luglio 2012

Cezanne: Estetica dell'informe come verità in pittura


Cosa ci mostra Cezanne dunque nelle sue S.Victoire? Nelle ultime in particolare? Che significa l’espressione “verità in pittura”, che egli voleva “dare”, da lui pronunciata (e mi si perdoni se qui non seguo per nulla Derrida)? Anzitutto vediamo il cedimento di una pellicola, la pellicola della nostra illusione costruttiva, l’illusione della presenza, della presa sul mondo. Lì si scompagina l’abbaglio del possesso. Noi non dominiamo più nulla non appena abbandoniamo l’illusione di una vista, quella vista che riteniamo tanto affidabile, che poggia integralmente sulla parola. Ha ragione Lacan, è la parola che precede la visione, o meglio che la istituisce nella sua “forma”. Noi vediamo quello che crediamo di vedere, case, campi, alberi, cielo, terra, solo perché ne possediamo i lemmi, le parole. In assenza di essi quel sipario sottile cede e appare il “reale”, cioè la materia, la materia che resiste alla simbolizzazione, nella sua proliferazione incontenibile e minacciosa. O, per dirla in altri termini, in luogo della forma riconoscibile ecco manifestarsi, magmatico e in continua fluidificazione, o, se si preferisce, in perpetua metamorfosi, l’informe. Penetriamo o cadiamo, sarebbe forse meglio dire, in un altro ordine del vedere, una sorta di percezione precategoriale, una visione preverbale. Cezanne lentamente arriva a produrre una lacerazione nel tessuto della forma del reale, arretrando o penetrando oltre, a seconda di come si voglia intendere questo movimento. In parte è entrambe le cose, penetra oltre perché la sua è un’avventura dell’intenzione, anche, ma di un’intenzione che sa come cedere alla pretesa di trattenere, di contenere. Un’azione passiva dunque, un accesso retrocedente che si rivela una vera e propria resa al dominio della materia, al suo manifestarsi “reale”. Manifestarsi visivo ora rappresentato, e dunque attingibile, sebbene secondo un processo di decostruzione della percezione che è accondiscendenza alla emergenza di una terra che non è già più mondo (per dirla con Heidegger). E’ pre-mondo, e sempre più pre-mondo. E’ una “pâte”, per usare un termine bachelardiano, in quanto indica proprio il nucleo dell’immaginazione materiale, l’immaginazione che vede in assenza di forma, l’immaginazione dell’informe, dell’elementare. Ecco allora questo e-venire della verità in pittura. Lì la visione si fa ricettacolo dell’evento di un premondo informe, quello che ci accomuna alla materia ben prima che il linguaggio ci situi di fronte ad esso, in posizione di nominatori e di padroni. Quindi: non poetica della dissomiglianza (questo sarà affare dei surrealisti o dei simbolisti, dei cubisti o degli espressionisti), che è una poetica dell’intenzione, per quanto modulata attraverso sistemi di percezione-espressione di volta in volta differenti, ma poetica dell’accondiscendenza, opera di ricezione e di cedimento della struttura del vedere, poetica immaginale primaria, elementare, capace di rifondare un legame matriciale alla tessitura terrestre.
Si tratta di una emergenza prepotente del sensibile. L’opera di preconoscenza o surconoscenza di Cezanne è un’acutizzazione del sensibile. Il suo puntare l’invisibile, che in questa formula poteva generare equivoci, indica, al contrario di ogni filosofema sublimante, l’idea che c’è un sensibile che richiede un esercizio di attenzione ipersofisticato, un sensibile amplificato che è il prodotto dell’osservazione tenuta e durata della cosa. Osservazione che arriva al limite di far cedere il suo apparato di cattura del visibile nelle maglie del linguaggio. E’ questa l’autentica opera immaginale? Ne conseguirebbe che l’esercizio immaginale autentico non è per nulla l’allenamento di una facoltà sovrasensibile ma l’incremento di una percezione sensibile consuetudinariamente anestetizzata e talora addirittura interdetta (dall’abbreviazione del riconoscimento verbale). Ecco quindi affacciarsi un ulteriore problema (eventuale): come tradurre in linguaggio questo affioramento? Come “tradurlo” di nuovo in parole che non lo rimettano nel posto da dove si era tolto per lasciare respirare la materia? Posto che si voglia superare la soglia della visione muta, iniziatica e carnale di un tale incontro, occorrerà un linguaggio che sia in grado di dire altrimenti l’affioramento di questo sensibile negletto: una lingua lenta, densa, adesiva all’evento incatturabile specifico. Una sorta di lingua poietica, addirittura gliscromorfa, tenacemente vischiosa. Una lingua che faccia l’amore con la visione, che s’intrida della sua tessitura, non solo nel produrre uno sforzo di nominazione referenziale di un visibile che inevitabilmente è privo di nome proprio e che richiede quindi la poiesi di una nominazione obliqua, metaforica, la produzione di invenzioni figurali. Ma anche nel superamento di una grammatica che potrebbe rischiare di fissare la fluidità propria ad una fenomenologia magmatica. Dunque una grammatica in cui diradi la punteggiatura, che trasgredisca le consegne di un periodare regolato e, assecondando le fratture e gli inghiottimenti dell’informe, se ne faccia ecfrasi materica, al limite della glossolalia.

sabato 21 luglio 2012

L'anestesia simbolica


Siamo tutti ottusi, anestetizzati, impermeabili. Non è soltanto l’essere parlati, agiti da un ça interno. Qui è proprio questione di sensi, di qualcosa che anzi definirei più precisamente sensibilità immaginativa. O immaginazione sensibile. Di tale facoltà preziosissima siamo ormai tutti manchi. Con conseguenze spaventose. Non si tratta soltanto di qualcosa che in un più o meno probabile tempo passato esisteva in forma più diffusa. Sì’, certo, in una qual misura. Voglio dire: in un mondo più piccolo, più delimitato, più prossimo, sentirsi accasati con il proprio intorno era certamente cosa comune. Dove sentirsi accasati significa appunto saper riconoscere ciò che si ha intorno, spesso sapere l’esatta provenienza, conoscere la materia, saperla distinguere, tanto più in quanto spesso quell’intorno era stato concretamente fatto da chi lo viveva. Insomma, la sedia, il tavolo, persino i vestiti. Per non parlare di cibi, spesso maturati nei campi e negli orti conosciuti e percorsi continuamente. O gli animali, le uova, quel coniglio alimentato giorno dopo giorno fino alla sua immolazione. Le persone confidavano nelle cose sapendole. Sapendole a fondo, e sapendone anche gli usi, sapendo che quel legno brucia meglio, quell’altro fa fumo, quell’altro scoppietta troppo. O che una bara va fatta con l’olmo, anche simbolicamente. E così via. Anche il linguaggio, magari povero, ristretto, ma era perlopiù fatto di parole note, quelle dialettali, gonfie di materia, di vissuti, di un sapere cresciuto nella matassa carnale di una società pienamente conosciuta. Il che non significa che quel mondo vada guardato con nostalgìa, o per lo meno non con troppa nostalgìa, per le tante e fin troppe ragioni, certo giuste ragioni, che qui ora sarebbe noioso rievocare. Però quella sensibilità, quell’abbozzo di sensibilità simbolica, che conosceva il mondo e vi leggeva messaggi, armonie, quella percezione attenta, di essa un po’ di nostalgia mi sentirei, anche un po’ audacemente, di provarla. Diciamo, con il vecchio Heidegger, che ancora il mondo abitava la terra. Oggi non sappiamo nulla, per converso. Non sappiamo nulla delle cose che abbiamo intorno, non sappiamo da dove venga e cosa sia, letteralmente, ciò che sostiene i nostri deretani per ore e ore, sulle nostre poltrone sintetiche o sui nostri sedili in automobile. Non sappiamo cosa maneggiamo, cosa mangiamo (figuriamoci!), cosa usiamo. Ma non solo non lo sappiamo, neppure ci importa. Viviamo in uno stato di totale anestesia. Non importa la materia di ciò che riempie le nostre vite e ovviamente men che meno può importare il suo significato. Perché, si badi bene, tutto porta con sé un significato, magari all’osso, ma un significato ce l’ha. Se una poltrona è di pelle vera o finta, se è di materiale plastico o di acciaio e gomma, dice qualcosa di diverso rispetto al suo valore, al suo senso, al suo destino e al nostro che l’abbiamo scelta, collocata in un certo punto del nostro habitat, che confidiamo nella sua capacità di sostegno e di conforto magari per un tempo molto lungo. E così per ogni cosa, letteralmente ogni cosa. Occorre lanciare un segnale d’allarme per l’ingresso e la manipolazione continua di oggetti di cui non interroghiamo più né la materialità, per saperla, per distinguerne la congruenza, la finalità, o la forma, per eleggerne la bellezza, la piacevolezza al tatto, al contatto, nell’indossarla, nel maneggiarla, nel riposarci sopra. Figuriamoci se poi ne interroghiamo il senso, il significato simbolico. Eppure ogni cosa parla, talvolta anzi grida. Guardiamo, notiamo. Le case, gli edifici, le strade, le metropolitane, i telefoni, gli schermi, e poi i tessuti, le gomme in cui avvolgiamo i nostri piedi, le plastiche in cui infiliamo i nostri cibi. Non sono solo oggetti, sono segni che comunicano, che, per essere più espliciti, sim-boleggiano. Ogni cosa sim-boleggia. Nel mondo che oggi noi frequentiamo questo sim-boleggiare delle cose è sempre più spesso malinconico, sofferente, povero, devastato. Sorge imperiosa la necessità di ritrovare una sensibilità perduta che aiuti a percepire, ad avvertire, a sentire la pasta delle cose, ma anche a decifrarne il linguaggio simbolico. Avere nella propria casa una poltrona Bauhaus non è soltanto un segno di distinzione, è un gesto simbolico preciso, è un riferimento a una cultura della forma e dei materiali, è un gesto che contiene, anche se spesso in maniera opaca e attutita, un significato persino politico. Ma soprattutto è un messaggio al corpo, allo sguardo, al gusto. E’ uno status-symbol e da esso emana anche un certo snobismo ma è comunque un segno forte. Non lo è di meno una poltrona di pelle gonfia e morbida, una poltrona di famiglia usata e rifoderata innumerevoli volte. Quella poltrona è un oggetto ricco d’anima, una presenza, intrisa del calore, della carne, del ricordo di tutti coloro che l’hanno “abitata”. Ma le cose, in più, sono fatte di materiali, ciascuno dei quali emerge da una storia, che non è solo geologica o produttiva, è anche simbolica. Il ferro è diverso dal legno, e il legno di quercia è diverso dal mogano. L’acciaio satinato è diverso dal ferro smaltato e così via. Ciascuno di essi apre un mondo, un mondo di percezioni ma anche di significati. Guardiamo le case che crescono intorno a noi, guardiamo come sim-boleggiano tra loro, guardiamo i materiali di cui le cose sono fatte. Guardiamo noi stessi, i nostri vestiti. Prendiamo le scarpe da ginnastica, autentiche padrone, oggi, dei nostri piedi. Di cosa sono fatte? Ma soprattutto, che cosa esprimono? Di cosa parlano? Di comodità, di comfort soltanto, come suggeriscono i promotori della loro vendita? Oppure esprimono anche un’ideologia, quella che sostituisce la bellezza con la funzione, che fa della funzione una nuova forma di bellezza? Oppure promuovono anche un fare, quello in sintonìa con la richiesta di velocità, che richiede scarpe che permettano, anzi stimolino la camminata veloce. Scarpe che altresì esprimono il desiderio di correre, oppure di stare aderenti al suolo, scarpe che livellano anche, che omogeneizzano. Sono scarpe androgine, che annullano la differenza sessuale, la deprimono, la sfumano. Sono scarpe senza odore ma che producono cattivo odore. Sono scarpe che simboleggiano ormai da decenni, grazie al trionfo di certi marchi, con il mondo anglosassone, che ne esprimono lo spirito, frettoloso, funzionalista, produttivo, del tutto informale, pragmatico. Ma osserviamo ora il nostro linguaggio, grande indicatore della nostra anestesia dal significato. Come parliamo, quali parole usiamo, o meglio, da quali parole siamo usati? Che cosa simboleggiano queste parole? Le parole del professionista, le parole usa e getta, gli abbreviativi, le locuzioni strappate alla lingua dell’economia, o della psicologia, o del giornalismo, con le sue spaventose metafore morte, un “bagno di sangue”, ha “aperto il fuoco”, il “branco”, oppure ancora l’infausta genìa delle parole anglosassoni. Cosa simboleggiano, cosa esprimono? Occorre curiosità simbolica, per i dettagli, per le sfumature. Moltissimi degli aspetti della nostra vita, raccontano infinite cose. Un libro incollato con la colla, anziché rilegato, con una copertina bianca e nuda, oppure con una copertina colorata o arricchito dalla presenza di illustrazioni, di immagini. Il suo formato, i suoi caratteri, le loro dimensioni, i capoversi, le note, che ci siano o non ci siano. Non sono solo fatti letterali, sono messaggi, indicazioni sul senso, sempre che siano il frutto di una scelta. Ma anche se il senso non fosse intenzionale, vi sarebbe comunque, sarebbe un senso inconsapevole, come è spesso sempre di più, perché l’analfabetismo simbolico genera oggetti ignoranti, incapaci di chiedersi che cosa vogliono dire, esprimere, simboleggiare. Paragoniamo una vecchia madia con una moderna, dell’Ikea. Guardiamo i materiali della vecchia madia, guardiamo le rifiniture, guardiamo se c’è qualche intarsio, qualche decorazione, qualche rilievo, chiediamoci a cosa risponde. Guardiamo la rifinitura dei mobili in serie, assaporiamo i materiali, tastiamoli, non c’è vita lì, non c’è odore, non c’è intensità, storia, radice. Solo una pallida imitazione, una sconfortante eco, un vuoto ritornello. Il mondo è tutto insieme un incredibile concerto di significanti, spesso di richiami dolorosi, specie oggi, ma noi vi transitiamo inconsci, inebetiti, anzi volutamente insensibili. Forse proprio perché se ci fermassimo ad ascoltarlo, il messaggio simbolico del mondo, strettamente collegato da fili simbolici con la nostra interiorità, sentiremmo tutta la disperazione che proviene da un organismo sempre meno curato, armonico, sim-boleggiante. Un paesaggio incongruo, mostruoso, dissestato e pericolante. Un paesaggio che simboleggia le sue dissonanze e le sue lacerazioni in assenza di riconoscimento. Ecco allora la necessità di ripristinare la nostra curiosità e sensibilità simbolica, la capacità di cogliere il senso, la vocazione persino delle cose. Il loro richiamo silenzioso. Sempre diverso, infinitamente sfumato. Cose che talvolta sono solo destinate a scomparire. Ce ne sono che chiedono una specifica cura, altre che vogliono essere spostate, altre che desiderano soltanto accogliere un oggetto a loro corrispondente, per albergarlo armoniosamente, come una tavola un vaso di fiori. Altre aspettano di morire ma talvolta, anche dopo la morte, come ci ha suggerito James Hillman, chiedono di restare per sim-boleggiare anche con la materia e con il sentimento di ciò che muore, con il decadimento, con la rovina. Occorre allenarsi al riconoscimento simbolico, una tipica attività immaginale, frutto di attenzione, di immaginazione, di cultura e soprattutto di sensi attivi e febbrili. Forse così potremmo ricominciare ad accorgerci delle nostra inedia simbolica, del nostro malessere profondo, che è anche e, ritengo, soprattutto, il tremendo effetto di questa anestesia, di questa noncuranza, di questa insensatezza del tutto che cresce, che cresce in assenza di ascolto e di immaginazione attiva, e che ci trascina inconsapevolmente con sé.