giovedì 9 settembre 2010

Paralytic Child Walking on All Fours

"Se dovessi rinascere non farei figli. Un figlio è solo dolore, sofferenza e fatica".
Parole giunte inattese in un istante, senza avviso. Spinte nell'aria grevi e precise da una voce femminile, pronunciate come una semplice e dimostrata verità scolpita, tatuata e vissuta su un corpo materno. Parole scoppiate sulla pelle con l'abbaglio di un sole implacabile, con il riverbero di una luce folgorante che ha innescato e placato, avanzato e arretrato, confuso e rischiarato un vortice di pensieri, emozioni e corpi. Ha dissolto nel suo biancore accecante e improvviso una marea di corpi sofferenti, storpi, claudicanti, rannicchiati, accartocciati, urlanti, inerti e agitati affiorati durante una settimana di vacanza con un gruppo di bambini disabili e i loro genitori.
Corpi paralitici come il bambino deforme, informe, spogliato che cammina carponi nel dipinto di Francis Bacon. Immagine che ci chiede di fermarci, di sostare. Ci urta, ci paralizza, disorienta il nostro sguardo, si aggrappa al nostro corpo e lo coinvolge in uno sforzo arduo, tenace, apparentemente insostenibile di andare al di là della letteralità della realtà, al di là dell'illustrazione e della narrazione della fatica, della sofferenza e del dolore di questo corpo trasmutato dall'opera "alchemica e sciamanica" del pittore britannico, da sempre appassionato e ossessionato dal corpo e dalla sua ombra, la sua carne e che si è dato con il suo corpo per farci vedere, toccare, ascoltare, percepire la materia corporea nella sua inscindibilità di orrore e bellezza.
Un corpo solo, nudo, liscio, essenziale colto nel suo arresto e bloccato dal nero piatto, denso e uniforme che si arrotola lungo i suoi contorni e scava, rosicchia la carne delle braccia rendendo precaria la stabilità e la presenza della figura, ma anche mosso e sospinto dalle sfumature e dai tratti rapidi e scompigliati del verde del tappeto, nel quale sembra circolare una forza invisibile che dà vita e respiro agli organi. Corpo sospeso tra infermità e movimento, in cammino sulla corda tesa della vita tra la nascita e la morte, in equilibrio su una linea sottile che sembra obbligarlo a movimenti sinuosi, eleganti, ammalianti che mettono in risalto la rotondità delle natiche. Un corpo felino con un volto pulito, spazzolato, disorganizzato nei tratti animali della testa da cui ricade un ciuffo fluente e liscio, come una sorta di criniera e da cui emergono due labbra enormi, sproporzionate che circondano l'ingresso della caverna della bocca. Un cucciolo, una fiera che urla, o sussurra, in silenzio e avanza di soppiatto cercando, forse, di travalicare proprio quel confine stabilito dalle separazioni nette tra uomini e animali, normalità ed estraneità che allontanano, tengono a dovuta distanza l'umanità animale, urlante, sbavante, aberrante, in ritardo, incapace e impossibilitata ad alzarsi e correre al ritmo serrato di ogni crescita e progresso. Ma la figura, nel suo appoggiare le mani oltre la sottile linea gialla, devia, forse, un ulteriore confine: quello delle categorizzazioni e dei modelli di comprensione offerti dal predominio del sapere medico-psicologico-sanitario, delle diagnosi, delle patologie, delle sindromi, dei disturbi non altrimenti specificati che spesso rinchiudono e ingabbiano le irriducibili diversità e potenzialità di questi corpi e forniscono rassicuranti e univoci quadri di riferimento e strategie operative e normative a operatori, educatori, genitori, a chiunque capiti o decida di prendere contatto con la pelle di questi corpi.
Un corpo ambiguo e ambivalente, perturbante e inquietante che forse vorremmo sparisse e uscisse al più presto di scena. Ma la porta a vetri lascia aperta la possibilità di una nuova visione di un corpo visibile e sensibile che sembra venirci incontro e che mi è venuto incontro orientando, disorientando e abbassando lo sguardo su un corpo che cammina a quattro zampe sullo sfondo del mistero del male, del dolore, della sofferenza, dell'estraneità, dell'oscurità.
L'immagine offerta da Bacon ci interroga, ci chiede di osare oltre la soglia, di lasciare fuori dalla stanza vissuti, emozioni, giudizi personali e collettivi che possono occultare la vista, ci chiede di abbandonare la nostra postura eretta, dominatrice e calcolatrice per assumere una posizione animale e partecipare con tutto il nostro corpo, la nostra carne, i nostri sensi al corpo dell'immagine e del mondo. Ci obbliga ad indugiare avvolti nel nero, a muoverci leggeri, in punta di piedi, devoti, concentrati in una continua e inarrestabile ricerca di bilanciamento, come funamboli lungo la linea fine e tesa dove si incontrano le antitesi, dove si intrecciano gli opposti e dove si irradia una costellazione di significati che possono arricchire l'orizzonte simbolico-immaginativo di ognuno, e della riflessione pedagogica, e dilatare i modelli di comprensione attraverso cui guardare, percepire, ascoltare tale complessa, oscura e perturbante esperienza, ancor prima di nominarla, di agire, di sovrastarla e allontanarla.
Nell'attesa, possibile, di una rinascita.

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