sabato 14 agosto 2010

Nel merito del merito (2)

Entriamo allora ancora un poco nel merito del merito. Non senza prima aver avanzato, o prefigurato, per meglio dire, il mondo agognato dai suoi più o meno fanatici sostenitori. Immaginiamolo:
ahi, che orrore! Personalmente non riesce che a pararmisi davanti la più temuta delle tecnocrazie. Falangi di professionisti ad alta competenza in tutti i rami del vivere sociale, efficienti, modellati perfettamente in ordine alle attese del sistema, disciplinati. Un mondo di automi, non molto lontano dalle peggiori predizioni apocalittiche della fantascienza sociologica.
Del resto, ogni selezionato, secondo presunti criteri di oggettività, dovrà o non dovrà corrispondere a un qualche modello di comportamento sociale? E chi stabilirà quel modello, forse la confindustria, come appare oggi nei mitomani del merito?
Non è così ovunque? Chi è il meritevole? Di solito è chi risponde meglio alle consegne tecniche, cognitive, strumentali del sistema di potere cui appartiene, chi è più disciplinato verso i valori, le visioni, le epistemologie e naturalmente gli interessi economici che sostengono un determinato settore operativo, o di ricerca.
A me pare francamente molto complesso designare i migliori in senso meramente tecnico, o di competenze strumentali, come vorrebbe un certo approccio tecnocratico. E poi, se si decidesse davvero in tal senso, si immagina che mondo ne deriverebbe? Molte volte i molto competenti sono persone anaffettive, ferocemente competitive, con scarse doti relazionali, persone che si concedono poco, che conoscono solo il valore del lavoro e della produttività ecc.
Chi è il modello dei meritevoli, del resto? Forse il vecchio primo della classe? Certamente no. Sappiamo bene che di solito quello o quella erano solo i più abili a intercettare le preferenze del professore (o capo) di turno. I più veloci a intercettarne le attese, a compiacerne i gusti. Persone dotate di quella che oggi, al pari del merito e sulla stessa falsariga ideologica, va sotto il nome di “intelligenza emotiva”, e cioè la capacità di realizzarsi manipolando gli altri con la capacità di controllo delle proprie emozioni e di lettura di quelle altrui. Dunque non loro possono essere i veri meritevoli. E allora chi?
Molti vagheggiano test oggettivi, per stabilire il merito. Ma forse fingono di non sapere che non esiste, in nessun campo del sapere, nessuna certezza. Ovvio, qualcuno può rispondere meglio di altri a una batteria di test. Ma possiamo ritenere che un test, per quanto sofisticato sia, non risenta comunque di un sistema di categorie preconcette, di idee, di visioni, di gerarchie, in ordine alla configurazione di valore di un certo ambito di sapere?
Sfido chiunque a definire le regole in base alle quali sceglie i propri collaboratori e a parametrarle su una scala oggettiva di efficacia puramente operativa. Il merito è qualcosa di assolutamente relativo, ed è normale che sia così. Se così non fosse ci troveremmo di fronte a una società da incubo, una società orwelliana.
Personalmente, quando seleziono i miei allievi, di certo non mi limito a vagliarne le competenze tecniche o cognitive nella “disciplina” ma molto mi interessano, e spesso maggiormente, variabili di tenore umano come la comunicazione, la comprensione (anche come “pietas”), la disponibilità, la sensibilità, la complicità, la responsabilità, insomma la stoffa della persona. Per inciso debbo anche dire che, nella mia carriera, ho conosciuto raramente campioni d’eccellenza tecnica (competenti o “geniali”), dotati anche di stoffa umana. Il più delle volte erano violentemente ambiziosi e incapaci di vedere al di là del proprio specifico professionale. Inoltre occorre sempre confrontarsi con il rapporto che i nostri allievi intrattengono con il sapere, che può essere meccanico e passivo, sperimentale e creativo, trasgressivo, pragmatico e strumentale, idolatrico e feticista e così via. E ciascuna di tali modalità individua profili di studioso (e di professore) molto molto diversi.
Forse che per un esame o una prova le cose vanno diversamente? Solo i tecnocrati possono pensarlo, con falsa coscienza, visto che anch’essi sono i portatori più o meno consapevoli di un’epistemologia, di una scala di valori scientifici del tutto relativa e di una specifica e ben determinata filosofia del sapere.
Ad un’esame, per esempio, sono moltissimi i fattori che concorrono alla valutazione di una prestazione, anche di una prestazione scritta, fatti salvi i meri esercizi appunto “tecnici”, che non sono però il fattore determinante di una prestazione di ricerca nella maggior parte delle discipline. Io lavoro nel settore umano e, pur essendo convinto che non sia molto diverso anche nel settore scientifico, specie oggi, so bene che nel mio settore una valutazione è tutt’altro che oggettiva. Forse che in uno scritto, oltre alla precisione, alla correttezza concettuale, non si guarda anche alle capacità dialettiche, alla comunicativa, all’invenzione? Non parliamo poi degli esami orali, dove entrano in gioco un’infinità di variabili estremamente delicate. Sicuramente vi è, per esempio, chi preferisce la disciplina e chi la creatività, con argomenti peraltro difficilmente componibili.
Il merito, così come lo si intende oggi, è una parola d’ordine, una categoria ideologica che copre con un alone di apparente giustizia, un progetto-in sé irrealizzabile- di ottimizzazione efficientista. La sua irrealizzabilità effettiva non gli impedisce tuttavia di diffondere un’atmosfera di inquietudine, di minaccia e di colpa in tutti coloro che non si identificano nel modello che soggiace alla sua diffusione.
Mi auguro che il fattore umano, che scompagina significativamente ogni fantasia tecnicista, sia preservato il più possibile, sia nel pubblico che nel privato. E’ vero, il fattore umano è poco prevedibile, non sempre viene incontro ai migliori secondo i criteri della misura tecnica, ma chissà che nel suo manifestarsi irrazionale, non “funzioni” meglio dei test e delle misurazioni scientifiche? Chissà che la variabile umana non consenta di discernere chi in un certo contesto porterebbe solo conflitto e arroganza, con la sua presupposta sapienza, da chi invece saprebbe creare un clima di collaborazione fattivo e un senso generale di benessere, magari senza prestazioni eccezionali? Io sono stato in molti ospedali, alcuni anche molto efficienti, ma dove sono stato meglio è stato dove ho incontrato persone che amavano fare quel lavoro, a prescindere dalle “eccellenze”.
Si misura, nei test meritocratici, l’amore per ciò che si fa? E’ possibile misurarlo? Purtroppo i dotati in un certo ambito, quello strettamente tecnico, tanto per non ripetermi, non necessariamente lo sono anche nella dimensione umana. E’ utopistico ritenere di potere migliorare insieme prestazioni sotto il profilo efficientistico e sotto quello della relazione (così come è utopistico pensare di premiare i più dotati e, insieme, di proteggere i meno dotati: l’una cosa esclude l’altra). Certo le prestazioni possono migliorare, ovunque, ma da quale punto di vista? Secondo tabelle numeriche di comportamenti accettabili, o secondo i livelli di benessere che si respirano in un’organizzazione, secondo la produttività o secondo la complessità e profondità di un contesto operativo o conoscitivo? Alcuni immaginano, seguendo una tipica fantasia illuministica, che quando un fattore migliora, gli altri vanno di conserva. Lo si vede bene con l’introduzione forzata della democrazia nel mondo arabo o con l’igienizzazione imposta dei comportamenti umani nel nostro occidente. Io risponderei a queste forme di ideologia cieca con la famosa contrapposizione civiltà/cultura. Vi sono luoghi dove la civiltà è massima, con il suo progresso, l’igiene, la bonifica delle malattie e dei costumi, la produttività e l’efficienza ma dove il linguaggio è povero, sono spariti miti e simboli e le persone hanno relazioni puramente funzionali. Vi sono poi società dove la malattia e il degrado sono apparentemente pervasivi, dove ci sono fame e povertà, per quanto la loro percezione sia molto attutita rispetto al modo in cui le consideriamo noi, ma dove esistono migliaia di simboli, di riti, di culture, di forme di religiosità e dove la dimensione umana è ricca e molteplice. Forse al mito del merito occorrerebbe contrapporre quello della dimensione umana, delle emozioni e degli elementi deboli del comportamento umano, che andrebbero maggiormente premiati, anche in assenza di una loro oggettiva misurazione. Quando ci sono, quelli, si avvertono subito. E così pure si avverte subito quando mancano. Di questo sono certo.
L’alternativa dunque? Un’organizzazione (quella universitaria in special modo) meno meritocratica e più democratica, più attenta alle debolezze e alle differenze, siano esse nell’ambito dei saperi o delle persone. Più devota alla pluralità e alla molteplicità, alla tutela e alla manutenzione di ciò che è minore e marginalizzato dalle aspettative del sistema economico. Capace di riequilibrare il peso delle capacità emotive, immaginative e intuitive rispetto alla sopravvalutazione di quelle pratiche e intellettuali. Attenta alla qualità e all’intensità piuttosto che alla quantità e alla rapidità. Capace di riequilibrare il rapporto tra prestazioni e comportamenti. Meno agganciata alle esigenze del mercato e più a quelle intrinseche della specificità culturale. Più ricettiva e meno produttiva, più ospitale e meno efficientista.
Un’organizzazione abitabile, in cui gli spazi siano luoghi e i tempi esperienze, e dove il soggiornare sia animato e vissuto e non espropriato e misurato. Dove parole come “spendibilità”, “applicabilità”, “trasferibilità” ( e anche “merito”), siano usate con cautela e, al loro posto, si faccia largo un vocabolario più ampio, in cui anche l’inutilità apparente, specie quella economica, la libertà e la sperimentazione, la profondità e complessità culturale intrinseca, non siano visti come minacce da eliminare. Un luogo di vita, in tutta la sua ricchissima complessità insomma, e non un luogo sottoposto alla legge mortifera della redditività, della funzionalità e dell’efficienza.

2 commenti:

  1. Le "vere" immagini sono potenti, rivelatrici ma spesso troppo ermetiche per lo sguardo sfuggente dell'uomo contemporaneo che non ha tempo (o ha timore) persino di guardare con la coda dell'occhio nell'animo del mondo che lo circonda. La parola può apparire un linguaggio più comune, ha un suono che spaventa di meno. Forse è questione di abitudine, e noi purtroppo ci abituiamo più velocemente al cotone, per dirla con una metafora, piuttosto che alla lana "che punge" ma è un po' più calda. Si potrebbe usare allora la parola (maneggiandola con delicatezza!) per prendersi cura delle parole stesse, accettando la loro funzione "innocua" di significante e pensando che siamo noi stessi ad oberarle dei loro più o meno gradevoli significati. Ho sempre creduto che la parola sia uno strumento che abbiamo a disposizione per comunicare, non penso sia una strega con sguardo capzioso, ma una bambina ingenua che si affida. Pertanto, personalmente non mi spaventa nè "il merito" nè "la meritocrazia", ma il fatto che siano in pochi , nelle istituzioni educative o più in generale nella nostra società,coloro che si battono affinchè la lotta non sia verso le parole "scomode", ma verso IL significato ad esse attribuito da coloro che mossi da (egoistica)bramosia subdolamente ne traggono dei vantaggi. Allora si potrebbe contrattaccare "con le stesse armi" (con lo stesso coraggio) scegliendo nel nostro piccolo di aprire non il fuoco bensì le menti (anzitutto la propria), lavorando al fianco di una innocua e consapevole furbizia piuttosto che della rabbia o della vendetta di chi "si sente preso in giro". Le parole, a ben guardare, assomigliano a burattini mossi da noi stessi, possiamo decidere in qualsiasi momento di cambiare il loro ruolo sul copione se crediamo possa esisterne uno "migliore" per tutti, magari affidando loro la particolarità di essere un contenitore in cui i significati possano venire di volta in volta rielaborati, riadattati ai tempi ed ai contesti; sì,"fare posto ad un vocabolario più ampio" come dice Paolo, ma che serva anche per rimodellare quelle parole che perdono la loro innocenza apparendo scontrose e violente; e forse anche per abituare la nostra mente alla "molteplice identità" intrinseca nelle cose, nei concetti, che condurrebbe senza dubbio ad un più naturale atteggiamento volto alla sospensione della critica,del giudizio immediato. Certo non si stravolge il mondo in un giorno (forse non è il mondo a dover essere imputato) ma se i pochi, che credono possa esistere un miglior modo per vivere insieme (nel rispetto della sensibilità altrui, nella valorizzazione di uno sguardo alla persona e non alla sua sapienza), se questi "pochi" cominciassero a fidarsi di più "dell'effetto a farfalla", oddio forse soprattutto del proprio "buon" senso comunitario, non riterrebbero inutile nemmeno continuare a seminare.

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  2. E pensare che spesso l'uso della meritocrazia viene surrettiziamente portato a supporto di una maggior tutela di chi viene a contatto con un professionista. Una sorta di "garanzia di qualità" per il consumatore, che mi sembra essere uno dei (falsi) miti del paradigma in cui ci troviamo. Si certifica che il professionista tal dei tali in termini di efficacia ed efficienza vi potrà offrire un servizio di qualità. Basta però grattare la superficie del pacco, aprirlo alle dimensioni di cui parla meravigliosamente Paolo e ci si accorge di quanto riduzionismo aleggia su questo ragionamento. Personalmente il "rapporto col sapere" che una persona intrattiene è una delle dimensioni che mi appassiona, emoziona e interroga di più. Fatico spesso nei servizi sociali, dove abito in parte, ad aprire scenari che seguono questa direzione, così come a sorvegliare un linguaggio tecnicistico in cui mi trovo immerso. Il rischio è quello di condividere premesse profonde di una "cultura" della cura che ricalca ideali non espliciti di civilizzazione imposta all'altro. Col rischio di trasformarci tutti in tecnocrati. Brrrrrrrr
    Oddio che scenario!!!
    Grazie per la riflessione Paolo
    Andrea

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