martedì 3 agosto 2010

Confidare nell'arte...ancora


Essere immaginali, ad onta di ciò che taluni –tra coloro, e son ben pochi, che frequentano questo diseredato lemma del vocabolario- ne pensano, non significa idealizzare un’arte del passato, tutta bellezza e pretenziosità evocativa, romantica e crociana, quanto perseguire i volti in perenne trasformazione di una facoltà che si giudica intranseunte nell’operosità umana, quella dell’espressività simbolica. Senza ora entrare nel trito e inglorioso dibattito su cosa significhi l’espressione “simbolico”, dopo che sul termine si è scaricata la grandine della filosofia analitica prima e dello strutturalismo poi, basti evocare il profumo di cosa che poco ha a che spartire con la storia, che fa sì, semplicemente, che un artifizio, secondo le più disparate forme di corrispondenza, ne evochi altri e, nel caso più fausto molteplici altri, fino all’estenuazione archetipica, nell’ambito delle produzioni umane. L’arte, che pure ha patito le più diverse vicissitudini, asservendo la sua forma di volta in volta alle consegne del divino, del bello ideale o del bruttissimo, persiste in questa inesausta fatica. Ma perorarne la causa, specie nell’epoca di post, degli alter e dei sur, diventa sempre più un fardello ingrato.
Da un lato quelli che hanno, a colpi di mazza (non certo di quel martello che meglio forgerebbe il nostro senso di una storia molto più inattuale e inattuata che effettiva) dissolto semplicemente la differenza tra l’operare simbolico e l’operare e basta, dall’altro quelli che, nel celebrare il funerale della storia, vedono di seppellire anche l’arte, data già per morta al tempo dell’idealismo tedesco, poi resuscitata dall’esistenzialismo e poi di nuovo da affossare nell’epoca dei simulacri e del reale che più reale non si può. Se il simbolico, insomma la legge che sorreggeva tutta l’impalcatura del nostro codice d’onore sociale, è “collassato”, tipica espressione di questi vulcanici post e sur, allora l’immaginario, e dunque anche l’arte, sprofondano nella latrina della manipolazione universale. Ogni immagine, quale che sia la sua natura, la sua origine e la sua funzione, in quanto tale, è già risucchiata nel destino ahimè dissolutorio e tragico per cui si fa epica del niente, strumento di forgia del desiderio coatto, ripetizione delle ripetizioni. L’immagine è “obversa”, cioè non rimanda da alcuna parte, essendo tutt’attorno il vuoto pneumatico, o non è. Ragioni da far accapponare la pelle e che, accostando arte e moda, arte e design, arte e pubblicità e così via, con la scusa di un mercato che tutto domina e tutto controlla, vedasi “sistema dell’arte” e caravanserraglio di consorterie di curatori, grandi musei e critici prezzolati, silura la possibilità stessa di un’arte che non stia nell’assoluta ma ahimè impossibile eccedenza di tutto questo.
Va da sé che molte ragioni addotte dai secondi appaiono persuasive, più della falsa democratizzazione dei primi, dacché questi, i grandi demolitori del simbolico in arte, son stati quasi sempre poi felici mietitori del successo che è comunque derivato ai “loro” trasgressivi lavori, anche quando di essi è rimasto poco più che una fumosa traccia, una documentazione spiegazzata, una foto o un video di fortuna.
E tuttavia, E tuttavia.
Pare che quei secondi, invece, i dialettici impenitenti, attribuiscano, al mio modestissimo giudizio, forse troppo potere al procedere della storia. Pare che, pur essendo studiosi acerrimi di storici devianti e non prevedibili, da Benjamin a Warburg, si facciano poi tutti discepoli di Hegel, quando si tratta di rilegare idee che facciano rumore. Forse però la storia non procede così serrata, specie quando le carte si mescolano con tanta virulenza come nel tempo nostro, carte, culture, popoli e storie, appunto. Forse non tutte le opere e non tutti i gesti possono essere coniugati secondo lo stesso modo linguistico e grammaticale. Forse l’operar simbolico non ha più gli stessi tratti che in passato e non è detto che vi sia una legge assoluta, magari kantiana, per trarne tutti gli effetti a riva. Così, tra un’arte compromessa e corrotta, dai suoi stessi curatori, fatto non troppo nuovo per altro ahimè, e un’arte che persegue ancora, magari silenziosa e appartata, o magari anche chiassosa e esposta, re-visioni della realtà, di quel reale che non è detto sia solo l’Ur-trauma , il negletto abisso su cui pende l’esistenza umana nel deserto di dio, ma anche e più semplicemente ancora la trama certo sfilacciata ma inevitabile, nella sua già veduta epifania, dell’accadere del tutto, sempre uguale e diverso, forse, dico, tra queste due forme dell’esprimersi in figure, vi è ancora uno iato, una differenza.
Questo si ostina a pensare, nel deserto del reale, di un reale tuttavia ancora ricco di vortici e sfasature, di attriti e di lacerazioni, di immagini "aperte" e che bruciano, l’immaginale errante. E ancora trova alimento per la sua inesausta sete, sete di trasmutazioni per via del simbolo, misterioso tramite nella direzione dell’impensato e del saputo ma ancora incognito, nel reticolo delle sue interminabili terminazioni e corrispondenze, simbolo che non è più quello dei romantici e nemmeno quello di Peirce e compagni, un simbolo che a volte risale dalle turbolenza estatiche del medio evo e a volte ancora più da lontano, dagli echi misteriosi di epoche solo intraviste e perdute, in opere ancora e sempre misteriose e inattuali ,anche se magari prese nel magma caotico del “sistema dell’arte”, che tutto può fare di esse, tranne che azzerarne il potenziale trasformatore, che, certo, potrà darsi solo in chi, per converso procedere, non avrà annullato in sé, attraverso dialettiche censure o anestesìe mediali, ogni sensibilità e apertura all’eccezione del suo apparire.
Ancora si resta fulminati e interpellati fino al midollo, infatti, se si sa sostare aperti e obliqui, come ci vuole un inattuale ascolto poetico, a certe stratificazioni alchemiche di Kiefer, alle creature immense di Kapoor, alle immagini dalla vertigine ieratica di Viola, alle catastrofi informi di Paul Mccarthy, alle metamorfosi fuggevoli e intarsiate di Pipilotti Rist, alle “cadute” strazianti di Velikovic. E nessuna confusione con la moda, il design, la pubblicità o la politica del quotidiano, riesce a distrarci da quelle “visioni”.
Certo, poi c’è l’effetto a distanza: vi è chi le deve “sfruttare”, rendendole modello per moda e pubblicità, oppure per disossarle pontificando, e poi vi è chi le incontra, ne fa esperienza e, magari, racconta. E poi vi è chi le vede e, muto, le trattiene in sé, senza bisogno di reagire. E poi ancora e ancora, come sempre.

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