L’esame scolastico, istituzionale, è figlio di una cultura della misura e del controllo. Una cultura dell’educazione che ritiene che la procedura dell’insegnamento sia realizzata quando il sapere, considerato come qualcosa che preesiste al momento dell’istruzione stessa, possa essere poi in qualche modo verificato dopo che è stato veicolato. Operazione meccanica, anche se espressa in innumeri maniere, che vede l’insegnamento come un travaso, come una trasmissione, informaticamente, come un transito, e non, per esempio, nel senso serio e più intrigante che ha dato a questa nozione Mario Perniola, quando parla di transito da sé a sé, dallo stesso allo stesso.
Anche laddove vi è consapevolezza della processualità dell’opera educativa, laddove se ne predica la metaforica platonica della maieutica o dello svelamento, della generazione o dello scatenamento, l’esame resta confinato nella sua struttura di procedura di controllo, a volte rivestito dell’abito della ricerca o dell’ascolto, ma pur sempre finalizzato a vedere ciò che è stato prodotto, a misurare e a comprendere l’effetto. Questo sistema a me pare legato ad una logica produttivistica, efficientistica e fisicalista della cultura pedagogica, che nell’epoca contemporanea poi si tecnicalizza in procedure sempre più sofisticate e modulate variamente, sul piano strumentale, ma non meno univoche su quello strutturale.
A questa logica voglio contrapporre l’idea di formazione come dono, di apertura del sapere e di condivisione della conoscenza. Un’idea partecipativa che mira all’attrazione appassionata e alla coltivazione di una ricettività diffusa e fluida, curiosa e non giudicante. L’azione dell’insegnamento come potlacht o come dissipazione, come debordamento e come dispersione, come deriva e come prassi simbolica, fa cadere ogni esigenza di controllo. Anche perché non c’è più nulla da controllare. Il campo del sapere, non più presupposto come dominabile e segmentabile, è sempre aperto e fluido. Il contributo che offre chi insegna, presenta implicitamente falle e punti di pescaggio da dove chiunque vi partecipi può derivare imprevedibili direzioni di sviluppo, trasformando continuamente, non tanto il modo in cui l’insegnante propone la sua forma, quanto la configurazione in fieri che ne trae come discente. Da questo punto di vista nessuna esigenza di controllo e di misura e neppure l’esigenza del tutto autoriferita di verificare se qualcosa è successo. Il gesto compensatore di una pratica di formazione come dono e condivisione è invece quella della restituzione, come ritorno di qualcosa di non predefinito (al dono si corrisponde con il dono) e della riconoscenza/riconoscimento, nella forma del ringraziamento e dell’accoglimento. Per chi insegna è il fatto stesso dell’ascolto, della partecipazione e della ri-conoscenza che si fa atto di conferma, e che costituisce di per sé indizio di un’auspicabile moltiplicazione esperienziale. In tal senso restituzione e riconoscimento possono essere espressi in modi diversi e imprevedibili che possono non avere affatto a che vedere con il sapere trasmesso, ma semmai con la configurazione che l’esperienza ha assunto. La restituzione può essere un oggetto fisico o un gesto, una danza o un canto, uno scritto o un’immagine. L’esperienza formativa non ha nessuna intrinseca necessità di essere misurata, essa si dà quando si dà, come perfettamente compiuta all’atto della sua effettuazione. L’atto del controllo e della misurazione è solo un gesto disciplinare che la inscrive in una finalizzazione estrinseca di tipo ideologico o istituzionale. Intrinsecamente ogni esperienza di insegnamento è invece semmai tramata da gesti di interrogazione e di intesa, di confronto e, laddove ve ne sia necessità, di prova, di gioco e di simulazione. Ma questo modo di cercare non è mai ordinato nella forma del controllo esterno, semmai della conferma interna, del bisogno di percepire la reciprocità della comprensione. Si conclude all’interno dell’esperienza di insegnamento e non chiede supplementi, a meno che questi non siano indotti dal desiderio di ripetere e andare più a fondo.
mercoledì 10 novembre 2010
lunedì 1 novembre 2010
Pensare l'anima

In una simile posizione conoscitiva, affettiva e partecipativa, e di improbabile validazione "scientifica", sembra essersi consapevolmente e serenamente collocato anche l'autore di Pensare l'anima che con questo volume ci offre il frutto più maturo della sua opera: un affresco delicato e appassionato di testi dedicati all'anima, a lungo meditati nell'alambicco della memoria e ripetutamente rielaborati nel tempo, che ci mostrano il divenire della sua elaborazione teorica scaturita dall'esperienza viva della pratica psicoanalitica e dagli incontri ravvicinati con quella affascinante Signora nei luoghi della memoria, del sogno, dell'arte figurativa e della cultura immaginale. Territori in cui Donfrancesco si è inoltrato con rispetto, cautela e stupore crescente, mai con lo sguardo del medico, dello psichiatra o del critico d'arte, ma piuttosto con quello dell'ospite, dell'apprendista o dell'amante desideroso di contemplare il volto dell'amata, di comprendere e imparare.
Più che costituire il tema di queste pagine, l'anima sembra esserne la musa ispiratrice, la silenziosa presenza che presiede al farsi e al ri-farsi di una elaborazione teorica che assomiglia a ciò che gli alchimisti chiamavano una visione (visio e theoria), che non abbandona mai le immagini a favore dei concetti e non ha mai la pretesa di imporsi come unica o definitiva. Una riflessione dell'anima, mai scissa dall'esperienza vissuta dell'anima, che si dispiega in una trama narrativa immaginosa e appassionata che, senza soluzione di continuità, connette le parole dell'autore con le pagine più intense di Jung, Hillman, Corbin, María Zambrano e di tutti gli artisti, scrittori, pensatori disseminati nel tempo che egli ha incrociato anche soltanto per un breve ma significativo istante, che ha incontrato e amato, e ha riconosciuto come maestri, mèntori e compagni di viaggio.
Un libro pensato immaginativamente, che adegua la sua struttura, il suo stile espositivo, il suo linguaggio e il ritmo della narrazione alle esigenze immaginative dell'anima, che non infligge tagli netti al corpo della materia trattata e non impone all'opera un ordine gerarchico e razionalizzante, ma evoca per noi tre luoghi simbolici entro cui, per tre volte, ci invita a sostare per coltivare l'immaginazione, ospitare gli invisibili e custodire la bellezza, e ci induce ad immaginare.
Un libro raro che riesce a "fare anima" anche nella teoresi, che ri-anima il pensiero e ben corrisponde alla fisionomia e alle intenzioni di quella "psicologia estetica" delineata in queste pagine. Una psicologia poetica che affida il suo sapere all'immaginazione creatrice e si rivolge con rinnovato interesse e rispetto al mondo immaginale dell'arte, per apprendere i modi conoscitivi e assimilare un linguaggio che, come sostiene l'autore, è "sostanzialmente omogeneo a quello dell'anima". Su questo particolare aspetto il contributo di Donfrancesco mi pare estremamente prezioso per il mondo della conoscenza ed anche per quello dell'educazione dove trova accoglienza e corrispondenze nell'ambito della "pedagogia immaginale" che, con simili presupposti ed intenzioni, si è rivolta al mondo immaginale dell'arte, del cinema e della poesia per restituire anima al pensiero pedagogico ed educare alla cognizione immaginativa.
Marina Barioglio
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