domenica 27 febbraio 2011

api dell'invisibile


L’insistenza rilkiana sulla trasformazione del visibile nell’invisibile, di cui sono emblema gli Angeli ma di cui sono attori i poeti, mi ha sempre incantato e turbato al tempo stesso. Che cosa indica questo, quale compito addita all’arte, forse da sempre implicito in essa, oltre l’apparente virtù di darci rappresentazione del mondo?
Sempre più mi si rivela che quel “bottinare il visibile” per raccoglierlo nell’ “arnia d’oro dell’invisibile” è ciò che individua la specifica forma di evento che è l’arte, quando non si tradisce, si estenua o si svende. Fare il visibile sempre più invisibile, questo gesto elegiaco, questo ricoverare in un’intimità segreta il violento configgere le cose ad una loro supposta oggettività, è forse più ed altro da un semplice gesto di tenerezza e di compassione cosmica. O meglio è certo uno spossessamento, un deragliamento dall’abitudine di dominare e im-porre per dissolvere la presenza in un altrove ma, ancor più, forse è un metter radicalmente in discussione lo statuto e la forma creduta delle cose. Se il visibile è il modo in cui non certo per propria virtù, ma per il nostro disporle alla nostra portata, le cose si danno, allora forse quell’accompagnamento all’invisibile è il movimento che le restituisce al loro costitutivo nascondimento. Al loro essere senza forma, prima e dopo la forma. Ben altro che un’opera di revisione e riproposizione di forma, l’atto artistico si rivelerebbe per quello che dovrebbe essere, e tanto di frequente, nell’accecante bagliore del suo “bruciare”, è: una sottrazione di forma che rivela l’imprendibilità del reale. Ogni atto dell’immaginazione creatrice sarebbe, dunque, un riaccasare la cosa presso quel “piano di consistenza” che ritorna le cose alla loro immanenza preformale. Qualcosa che assomiglia, tanto per restare nel solco del linguaggio di Gilles Deleuze, a quel venir meno dell’imperialisimo del volto, per lasciar trasparire l’indisciplina della “viseità”, che a volte, come in un lampo, o in un “tic”, appare d’improvviso per reinabissarsi sotto il controllo dell’espressione. Il che, si badi bene, non significa un semplice annegamento, un precipitarsi nell’indistinzione, quanto semmai una proliferazione di espressioni ancora senza nome. E non è del resto questo ciò cui assistiamo nella dissipazione della Sainte Victoire di Cezanne, nello smottamento dei volti di Rembrandt, Bonnard e Music nei loro ultimi autoritratti, o nella deflagrazione dei monocromi di Rothko, alla fine del suo viaggio? La durée di un’opera, che attinga lentamente il suo destino di prosciugamento dell’inquadramento consuetudinario di uno sguardo captatore e soggiogatore come quello del soggetto umano, non sta forse proprio in questo restituire l’oggetto, bottiglia di Morandi o cretto di Burri, al suo rango di molteplice in perenne metamorfosi? E non è proprio in virtù di ciò che possiamo attingere, in folgoranti momenti, nel terremoto delle nostre coordinate, quelle attraverso cui ci assicuriamo una stabilità ma anche quelle attraverso cui neutralizziamo il dinamismo inoggettivabile del divenire, la fisionomia cangiante e stupefacente nelle cui trame ci “aboliamo” finalmente? L’opera d’arte ci soccorre incutendoci abissali timori, ci soccorre perché evita che soccombiamo alle nostre stesse finzioni, alla nostra illusione che le cose stiano lì dove noi crediamo che sono, presenti e manifeste in una loro forma disponibile. Genera in noi però il tremore di chi si sa infine incerto e molteplice, gettato nel flusso degli invisibili, impedito così di recare danno a quel tessuto metamorfico del quale è sempre partecipe pur nell’andirivieni dei suoi tentativi maldestri di padroneggiarlo.
L’opera d’arte, questo salvifico travaglio dell’invisibile, attenua l’ingenua credenza di essere al centro, ci rifa periferici e minori, lenti e dubbiosi, ma anche incantati nella costellazione degli “eventi”.

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