sabato 14 maggio 2011

La "tigre cinese" e il ritorno del nazismo educativo


Il metodo “tigre cinese”, che in realtà, più che essere il rimedio orientale al permissivismo occidentale, appare la riedizione appena un poco attualizzata di un antico autoritarismo famigliare ben noto anche nel nostro emisfero, porta a fare alcune riflessioni piuttosto allarmanti.
Da un lato l’aberrante idea, che soggiace al galateo educativo famigliare della cinese di ferro, che i figli siano in debito verso i genitori. Ma di cosa, vien da chiedersi. Come se l’avessero chiesto loro di venire al mondo…
In secondo luogo, l’elemento più odioso che soggiace a questo abominevole episodio è l’idea che i figli siano proprietà privata dei loro genitori, che non solo vogliono, ma si ritengono perfettamente in diritto di disporre del loro destino come gli aggrada. La storia di questa Amy Chua, la cui loquela arcigna e pedante è stata già ben documentata dalle sue apparizioni televisive, naturalmente non meriterebbe alcuna seria disamina se non fosse proprio per la smodata e un po’ morbosa attenzione che le è stata tributata qui da noi. E cioè da un mondo culturale che davvero dimostra in tal modo non solo di non sapere che pesci pigliare di fronte ad una generazione di giovani che giustamente non è più né ossequiosa né ubbidiente e che rivendica la propria autonomia profonda ma che, peggio, rincula drammaticamente verso gli orrori del passato.
Amy Chua fa inorridire non solo perché riporta in auge modelli d’educazione che speravamo morti e sepolti, con i loro cadaveri nell’armadio, almeno nelle province avvertite del mondo, ma anche perché conferma, nell’epoca in cui la famiglia cade (finalmente) a pezzi, che quest’ultima continua a essere considerata, dalla cosiddetta doxa, l’ultima trincea di fronte alla barbarie, proprio nel mentre ne è spesso a mai come in questo caso la più terribile generatrice. La storia della “tigre” fa tornare in mente il bel film australiano che uscì una quindicina di anni or sono, Shine, sulla storia, vera, di David Helfgott, pianista al quale le torture paterne che ne volevano fare appunto un musicista di successo, generarono invece l’esplosione di una psicosi solo a grande fatica in parte recuperata.
La morale è la seguente, per chi ha ancora qualche nostalgìa di morale: i figli non sono nostra proprietà, sono altro da noi, e per poterne assecondare il destino, occorre molta attenzione, uno sguardo partecipe, che riconosca in loro quel tratto che ne evoca la destinazione, spesso molto lontana dalle nostre aspettative, la “eachness”, come la chiama James Hillman. Quella “ciascunità” che, invece che con un progetto concentrazionario, come nel caso di questo ibrido naziharvardiano di Amy Chua, intenda manifestarsi con una sagace intelligenza immaginativa, quella che sa innamorarsi della fantasia dell’altro e predisporne le possibili vie di realizzazione.

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