martedì 4 gennaio 2011

Claudio Naranjo, ultima guida onnilaterale


Il nome di Claudio Naranjo deve essere aggiunto a quelli dei pochi maestri, per lo più scomparsi ma inesorabilmente vivi, che possano favorire la nascita di una cultura dell’educazione finalmente emancipata dall’inettitudine dei suoi artefici e dalla rigida e greve fissità delle sue geometrie penitenziarie.
Naranjo, che è uno straordinario pensatore cileno, una rara personalità onnilaterale e multiculturale, ancora vivente, ancora in azione sul fornte della diffusione di un pensiero plurale e divergente, ci illumina sui guasti di una civiltà che giustamente egli dichiara ancora murata nella sua ispirazione “patriarcale”, obsoleta e pervertitrice. Una civiltà che avanza ancora al seguito di una vocazione illuminatrice e desertificante, gerarchica e normativa, incline al produttivismo cieco e alla maleficazione di tutto ciò che appartiene all’emozione e all’immaginazione, alla bellezza e al desiderio.
Nella sua raffinata architettura personologica, conosciuta come teoria dell’Enneagramma, Naranjo ci insegna a riconoscere i segni di questo danno persistente e feroce, nell’ipertrofia delle funzioni della vanità egocentrica e del controllo , nell’effervescenza di una virilità ancora prometeica e faustiana e in quello che io chiamerei, seguendo un’attribuzione di taglio più archetipico, il primato della coppia Senex-Saturno. Certo, la post-modernità sembrerebbe orientata, come è stato osservato da molti disincantati analisti, più dall’imperativo del godimento e della fluidificazione delle esperienze, dalla disseminazione e dal ritorno del rimosso. Eppure, in un tempo di forti anacronismi, l’educazione, la ricerca, i propositi del mondo economico, non sembrano affatto andare in sintonìa con questi forti rivolgimenti. Al contrario, ancora una volta è un consumo e un piacere simulacrale e manipolatorio quello cui si è consegnati e l’imperativo a godere appare il mascheramento di un mondo dominato ancora in profondità dal normativismo patriarcale e dalle leggi della produzione e della prestazione. Il nucleo profondo che è ben lontano dall’andare in crisi, che a mio giudizio Naranjo ci consente di focalizzare maggiormente, nel profilo di questa dannazione inestirpabile, è riassumibile nella componente “intellettualistica”. Si tratta di un rilievo cruciale che avvicina la sua diagnosi all’insistenza con cui un altro grande, Gilbert Durand, faceva notare, diversi decenni orsono, il dominio di un regime diurno dell’immaginario nella civiltà contemporanea, e cioè lo strapotere delle forme ispirate alla separazione e all’astrazione, all’elevazione e alla geometrizzazione in tutti i campi in cui si estrinseca in profondità ma anche in superficie (basti guardare alle forme dell’architettura delle istituzioni educative o alla forma dei suoi testi e dei suoi meccanismi procedurali) il pensare e l’agire dell’uomo moderno.
E’ questo il cancro del nostro tempo, nella misura in cui esso non è compensato dalla cura e dall’incremento delle componenti femminili ma anche infantili, ludiche e dionisiache, in ogni ambito dell’esistere: ciò che Naranjo definisce la necessità di una “trinitarizzazione”, al’insegna del recupero simbolico, accanto al padre, della madre e del figlio, da non intendersi in senso tradizionale e moralistico, ma come forme e figure che impongano il rispetto delle dimensioni di cura e compassione nei confronti del tutto, insieme alla rivendicazione delle componenti vitalistiche e dionisiache del desiderio e del piacere. E dove il padre, come figura simbolica, ricoprirebbee la funzione di richiamo alla venerazione del misterioso e del sacro, come aree di trascendenza non teologizzate, indirizzate alla limitazione dell’umano. Da quest’ultimo punto di vista la critica di Naranjo alle confessioni nelle loro prassi dogmatiche è radicale, proprio in quanto troppo spesso piegate ad una patriarcalizzazione patologica delle strutture sociali e affettive della vita e soprattutto disinteressate al legame imprescindibile con il cosmo e l’ambiente.
Naranjo concilia semmai le antiche tradizioni spirituali orientali e occidentali richiamandoci alla pratica dello svuotamento ma anche all’esercizio spirituale dell’autoconoscenza come decostruzione dell’io e padronanza della “flexibilitas” psicospirituale necessaria a recepire l’esperienza del mondo. Simultaneamente, senza confinarsi in una deriva neoascetica, chiama alla centralità del corpo, del piacere, del desiderio, con un decisivo appello alla componente dionisiaca della vita e con il lento lavorìo necessario a ricucire le inevitabili ferite e frustrazioni affettive di un’infanzia normalizzata.
Naranjo si dimostra un maestro di quel necessario rivolgimento che il nostro tempo attende per risarcire le forme dell’ esperienza umane defraudate e asservite alle logiche mercantili e alla ragione calcolante, per restituire loro il prisma moltiplicativo che l’antica alchimia mirava a realizzare tra integrità, generosità e totalità. Occorre, al seguito della sua lezione, ritrovare il legame perduto e le assonanze reticolari che consentano al mondo di articolare la sua pluralità in un cosmo unitario ma differenziato nel quale emozioni, desideri, consapevolezza e azione si coniughino in una mobile e virtuosa complementarità.
E’ a questa complementarità complessa e ardua che l’educazione deve guardare per farsi “salvifica”- come egli vorrebbe che fosse-, è alla necessità di una tale trasformazione che dovrebbe piegarsi una educazione finalmente vivente e appassionata per contrastare l’esercizio normativo e manipolatore che tuttora e sempre più, le istituzioni soggiogate alle leggi del mercato, sembrano intenzionate a promuovere con progressiva veemenza.

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