giovedì 6 gennaio 2011

Jung, il rosso


Eccolo l’oggetto scomparso e resuscitato. Il “sancta sanctorum” disseppellito che custodisce il “segreto”. Massiccio, “prezioso”, come il contenitore che Jung prescriveva di adottare per iscrivervi l’annotazione diuturna delle proprie fantasie ai suoi pazienti più cari, intrattabile.
Un volume che ti fissa e ti inghiotte, nella sua proliferante densità e nella sua fascinosa “inattualità”. Che chiede spazio, e tempo, come ha sovente dichiarato l’unico che davvero lo conosca a fondo, per ora, il suo traduttore, curatore, commentatore e chiosatore, Sonu Shamdasani. Il tempo di accoglierlo, con l’imbarazzo, anche fisico, che somministra a chi lo incontri, per destino o per scelta, il tempo di addentrarvici, come ci si addentra in una fitta e oscura foresta, per quanto dotata di segnali e indicazioni orientative, il tempo di sostare nei trivi più intricati e nelle radure improvvise che offrono agio alla meditazione, il tempo di immedesimarsi con l’opera di un gigante, gigante ben noto e tanto più temuto, remoto e ostracizzato proprio per la ubris e per la imponenza delle sue imprese.
Un testo miniato, come nella tradizione medievale cui l’autore affermò di volersi ispirare, per immergersi in quel medioevo psichico e spirituale di cui avvertiva il profondo bisogno, un testo scolpito e dipinto, cifrato e istoriato, un testo dai mille volti e dalle molteplici vie di approccio e di smarrimento.
Una fantasmagoria mitico-religiosa al tempo stesso critica e rifondativa, unione impressionante di una nékuia patita fino allo spasimo e di una tensione ermeneutica infaticabile e ostinatissima. Successione di registri stilistici eterogenei ma mai casuali, dal narrativo al poetico al profetico, con l’intermittenza incandescente delle immagini, formidabili exempla al confine di ogni linguaggio della raffigurazione, capaci di congiungere, con una strabiliante erudizione iconografica, le visioni di Blake, il simbolismo di Redon, il Dadà, i mosaici ravennati e bizantini, il simbolismo celtico, la pittura di sabbia navajo e le maschere di giada azteche. Il tutto per addensare, in una stratificazione prodigiosa, i molteplici livelli di un viaggio agli inferi che è una compiuta trasmutazione alchemica, una lunga e ripetuta nigredo, un’iterata, ardua, sofferta liberazione al calor bianco in vista di una impossibile rubedo. Perché uno degli aspetti più traumatici e sorprendenti di questa lettura, di questa immersione visionaria, è la ripetuta, continua, reversione che il “pellegrino” dai capelli dalla foggia di paggio deve subire da tutti i suoi interlocutori -“personificazioni” figurali di un poliverso archetipico-, verso l’abisso del negativo. Jung è costretto, nel suo “confronto con l’inconscio”, ripetutamente e implacabilmente, a ridiscendere nella “selva oscura”, a imbattersi nello sgradevole, nel dannato, nel ripugnante, nell’orrido e nell’abissale, non solo come termini di passaggio in direzione di un’emancipazione definitiva, ma come elementi di cui introiettare progressivamente l’irriducibile necessità, la stabile e omeopatica presenza nell’esperienza psicospirituale.
Il male dunque necessario in una impareggiabile e scenografica prova di “dialettica negativa” che il propugnatore dell’individuazione come “cerca” del centro sembra almeno qui non poter elaborare diversamente e comunque non senza tragiche lacerazioni. Questo fatto, nella concreta e raffinatissima emergenza di episodi dalla crudezza abbagliante e rivoltante, come quando la personificazione velata di Anima lo costringe a strappare e a cibarsi del fegato di una giovinetta straziata e uccisa, è certo uno degli elementi più inattesi e folgoranti dell’opera. Qui Jung rivela veramente l’ “Ombra”, si manifesta come il profeta oscuro, Jung il rosso, avrebbe detto Thomas Mann, iscrivendolo nella genealogia di Ismaele ed Esaù.
“Costellare la follia, la morte, il maligno” potrebbe suonare la sintesi di un percorso al termine della notte di questo Jung “nel mezzo del cammin” (tra il 1913 e il 1930), sprofondato nelle sue fantasie inconsce. Un inconscio, si badi bene, elaborato, decantato, domato dalla comprensione ermeneutica, ma floridamente esposto in figure e personaggi, -da Elia a Filemone- indimenticabili e dotate di una saggezza cupa e inflessibile.
Un grande affresco di riforma religiosa anche, oltre ogni confessione, teosofico e politeistico, all’insegna di una “gnosi” mai potente come qui, capace di convocare Silesio e Maister Eckhart, ma anche e soprattutto Nietzsche, per dialogare con essi e per negare la morte di Dio, o meglio per eufemizzarla. Operazione che Jung prescrive al divino stesso, in un paragrafo formidabile, dove aiuta il dio ferito, Izdubar (Gilgamesh), ferito dalla secolarizzazione e dalla ragione scientifica, a rinascere sotto forma di immagine, di evento eminentemente psichico e simbolico. “Fatti immagine”, dice al dio malato, che non senza disappunto infine acconsente, accedendo così al proprio risanamento e facendosi a tal punto piccolo da poter essere racchiuso nell’uovo (immaginale) della resurrezione.
Il sacro si fa psiche senza perdere nulla della sua trascendenza, della sua iconica e policentrica plasticità, della sua costitutiva inaccessibilità, dal momento che il suo raggiungimento presuppone l’infernale e interminabile travaglio del negativo e il balenare del fanciullo divino solo per attimi e per frammenti.
Eccolo dunque il Libro rosso, il “Liber Novus”: esercizio d’anima, esempio fortunatamente incompiuto di conoscenza come “gnosi”, senza cesure tra inferiore e superiore, tra intelletto e immagine, monumento di conoscenza contraddittoriale, “dissolutio” dell’ego in Anima, in una miscela mai risolta di zolfo e mercurio, itinerario di trasmutazione che rivela di Jung la petizione non più disconoscibile ad una epistemologia irrazionale di cui allora Hillman risulterebbe davvero il più fedele “traditore”, il prosecutore del viaggio immaginale decisivo e necessario. Quel libro giudicato dallo stesso Jung così centrale, il “reattore nucleare” della sua opera, secondo Shamdasani, nascosto forse per non dispiacere troppo al mondo suo contemporaneo ancora incapace di avvicinarsi ad una fonte così impegnativa e scabrosa. Eccolo, il morto rinato.
La sua apparizione segna dunque uno sgelamento, un’apertura verso l’ìimpossibile, l’accesso delle epistemologie odierne alle vie dell’invisibile di cui certo Jung è stato uno dei massimi esploratori, o invece ancora v’è bisogno di “traduzione”, di accomodamento, di urbanizzazione?
Noi accogliamo questa uscita, estrema e scintillante , cospicua e invasiva, come una possibilità e un invito. Sperando che il “libro rosso” non diventi il “libretto rosso” della comunità degli evangelizzati in Jung ma la soglia, al tempo stesso tragica e abissale, di un’altra via al conoscere, oltre le barriere di una psiche che non è dentro e non è fuori, ma che è la tensione immanente che trama il tutto, come un magnetismo, come un reticolo dalle molteplici aperture e dall’irriducibile ustione carnale e il cui epicentro è il viaggio immaginale, sulfureo, nel flusso delle intensità incalcolabili.

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