giovedì 2 giugno 2011

Saper piacendo


Nostalgici del fallimento, i sacerdoti della fatica ancora sentenziano contro l’imparare dal piacere e il piacere d’imparare. Come se le loro scuole e i loro oratori avessero partorito il sale dell’acume e il seme della curiosità verso le vetuste cattedrali di enciclopedie aride e velenose che spacciano per sapere, invocano le piaghe della passione e i chiodi della tortura per tutti gli edonisti del nuovo millennio. Non paghi di aver mandato in bancarotta ogni traccia di cultura, in virtù di una radicale ignoranza sui meccanismi che sollevano gli occhi verso gli orizzonti iridati della conoscenza, ancora inveiscono sulla facilità dell’oggi contrapposta alla sana difficoltà dell’ieri (che ben pochi superstiti però ha lasciato sul suo cammino, a giudicare dall’inenarrabile ignoranza che impera). Senza nulla sapere del come può alimentarsi il gusto della fatica stessa, che si appaga comunque di una meta agognata e del desiderio, vorrebbero tutti proni a torturarsi in cambio del niente. Eccoli, i predicatori della pesantezza, insofferenti verso qualsiasi indulgenza, poiché “ogni cosa si conquista solo con il sudore”. Vero. Ma quel sudore deve pur avere una meta cui indirizzarsi. Asini sì ma con la carota. Se prima non si è persuaso che è affascinante sapere, che leggere, scrivere e immergersi nell’aspra e pungente atmosfera dell’analisi matematica o della fisica del sublime, accende corpo e mente, come ottengo una fatica che non sia sommaria, finta e di breve respiro? Posso certo agire sul ricatto, sull’eterno flagello della punizione temuta ma quale guadagno otterrò se non quello di vedermi ritorta un’ insipida minestra di lacerti raccogliticci e male impastati? Questo è il frutto dell’imparare per forza, con la fatica agra e senza ricompensa di non capire il che si sta facendo.
Occorre invece deporre la vocazione martirizzante e coltivare la faticosa sì ma remunerante ricerca del sapere ricco, colorato e denso, proposto ancora vivo e palpitante e non inumato nei feretri scolastici -manuali, antologie e eserciziari-, ancora odoroso del suo rinascere, stillante la rugiada della scoperta, dell’evento, della sorpresa. Far incontrare il fatto, non il suo residuo secco, l’autore e la sua presenza, magari per immagini in movimento, per testimonianza e racconti, per pedinamenti e sopralluoghi. Che sia un compimento algebrico, teoretico, letterario o scientifico, estrarne il distillato saporito, come vicenda, intreccio, rappresentazione. Invitare ad appropriarsi, in un’ermeneutica del corpo, drammatizzante e recitante, in un’ermeneutica dell’immagine, meditativa e restitutiva, in un’ermeneutica della scrittura, come proliferazione del senso, in superficie e profondità, filatura e ritramatura, individuale, in gruppo, in ricerca. Disseminazione di seminari dove si fa ricerca cercandosi, diceva Roland Barthes, luoghi in cui l’oggetto e i soggetti si tramano in un’interrogazione reciproca, inseguendosi e insidiandosi, infondendo agli scabri sussidiari il carisma della narrazione mitica, in un osmosi tra fuori e dentro, rendendo i muri permeabili, invitando la vita ad entrare, per essere manipolata, vezzeggiata, massaggiata e, contemporaneamente, spingendo la banda arrapata di cercatori nel fuori, con protocolli minimi, solo i sensi accesi, per oggetti che non siano liofilizzati ma ancora viventi, parlanti, danzanti, in divenire. Solo con lo spirito della “cerca”, di una cerca animata dal desiderio, è possibile poi alimentare la fiamma genealogica, il voler disserrare le celle dei perché profondi, inusitati, sprofondati nel tempo.
All’inizio muovere le vibrisse della scoperta verso i legami analogici, le somiglianze, le screziature che intrecciano gli oggetti del sapere con le pratiche del quotidiano e con gli spazi della produzione di sapere, siano essi atelier, laboratori, officine o sale chirurgiche. Poi torcere il filo verso le testimonianza sepolte, da rianimare attraverso il figurale, l’immaginativo, il balenare del particolare che radica in un tessuto anch’esso vivente, come san fare il romanzo, il gesto poetico, la narrazione appassionata. Soffiar via l’aria morta delle parole grevi e frigide con l’incandescenza delle immagini succose e simboliche, pregne e accalorate, con la carica tutta sangue e pulsione della musica, che racconta il divenire divenendo, mutando, subdolamente alludendo e sbandando, con l’incarnazione sulfurea della recitazione, del trasmutar parole e paesaggi e idee in attriti, in contatti e in contagio di forze, in intrecci di versi, di gesti, di sudori e salive.
Contro i profeti della ascesi come ristrettezza e rinuncia, che vorrebbero l’economia del niente e contro i saccenti che invece vogliono ridurre la cultura alle cacologie alambiccate che loro coltivano per ostruire ogni accesso a quel piacere che li turba e li destabilizza, c’è bisogno sovrano di abbondanza e di profusione, di generosità e di espansione, di maestri accesi, di insegnanti pieni di sale e di fuoco, di guide prodighe di avventura perché sono ancora anch’esse nell’avventura della “gnosi”, -la conoscenza partecipativa che non scinde i sensi e non separa la luce dal mistero-, e dei suoi molteplici percorsi aerei e sotterranei.
La fatica si fa per passione, non ci si appassiona alla fatica, e chi lo fa forse deve espiare qualcosa. Ma sulle colpe non si costruisce il gusto di sapere.

sabato 21 maggio 2011

Giovani (corpi) violenti


Nei ripetuti episodi di cronaca che vedono giovani esprimersi con la violenza, talora gratuita e, come dicono i media, efferata, indubbiamente si coglie un’emergenza sociale ma, forse, affiora anche un sintomo, qualcosa cui occorrerebbe prestare un’attenzione non solo moralistica e securitaria ma anche un ascolto più audace e riflessivo.
La condizione giovanile non è mai stata così massicciamente impedita nel manifestare la propria pulsione aggressiva come oggi. La cultura dominante è radicalmente contraria all’esercizio della forza, il che probabilmente è un bene ma lascia inelaborata la richiesta irriducibile di un modo di dare forma all’energia, anche violenta, presente nei giovani. Energia, desiderio di rottura e trasgressione che sono un effetto in parte relativamente normale del processo di espansione del periodo ma che sono sovralimentati dalla pressione cui il giovane è costantemente sottoposto da una società che lo ossessiona con il suo attivismo e produttivismo sfrenato, con la misurazione continua del risultato e della prestazione e, soprattutto, con lo sterminio di qualsiasi vuoto aperto al libero esercizio dell’avventura, dell’espressione e della sperimentazione di sé con gli altri non vigilata e controllata.
I ragazzi non hanno più zone franche, sono intrappolati nel tessuto urbano che ne scruta e processa continuamente il comportamento. Sono letteralmente carcerati in un contesto che è pervasivamente normativo, senza interstizi, sottoposto a costante disciplinamento, in casa, a scuola, nelle varie esperienze di un fuori fittizio –palestre, laboratori, corsi di musica-, sempre regolate da una figura o più figure adulte di riferimento. Non hanno via di scampo, se non ancora una volta in spazi implosivi e claustrofobici come le discoteche o i pub (anch’essi al chiuso), con l’aiuto di sostanze psicotrope, dove certo esperiscono momenti di sfogo e di rottura ma spesso in forme frammentate e frustranti, con il rischio di feroci cortocircuiti psicofisici piuttosto che attraverso un’autentica esperienza di apertura e di emancipazione.
I giovani e le giovani hanno bisogno di scatenarsi, di espandersi, di perdersi e di ritrovarsi, per conto proprio, così come hanno bisogno di sperimentare maggiormente i loro corpi, non solo nello sport strettamente regolato, ma nella natura, nella strada e poi anche molto spesso nel combattimento, nella lotta, nella sperimentazione del contatto corpo a corpo. Corpo a corpo con gli altri ma anche con la materia, con la natura, con le forze che agiscono nella realtà. Inoltre i ragazzi hanno bisogno di arricchire lo scenario dei propri desideri, con attività ricche d’anima e non spente e irrilevanti sotto il profilo emotivo come quelle che gli vengono proposte specialmente nella scuola. Per i ragazzi l’immaginazione, la musica, la danza, il teatro, il gioco fisico e l’avventura devono essere le forme di traduzione della loro libido in espressione, in gesto, in simbolo. In assenza di luoghi e tempi diffusi dove liberamente fare esperienza di tutto ciò, si dà quell’anomia che poi si trasforma in violenza distruttiva o, peggio, in violenza contro sé stessi, in depressione e panico, in apatìa o in terrore di tutto.
Occorre allora ripensare lo spazio, il tessuto fisico dell’esperienza giovanile, sgomberarlo, liberarlo, disseminarlo di opportunità di nuovo cimento, di nuova sperimentazione. Svuotare del troppo pieno, aprire piste, radure, labirinti. Fare della città foresta e della foresta città. Perché vi sia campo aperto e nascondiglio, corsa libera e intimità. Il corpo deve essere posto al centro dell’educazione, come principio di affermazione, di movimento, di trasformazione. E’ lui il soggetto, non la testa pesante che sembra dirigerlo. Riportare il corpo al centro, come groviglio di pulsioni, carica magnetica che riconnette al mondo, significa accoglierne le infinite possibilità di manifestazione, dall’esplosione all’autocontrollo raffinato, rafforzandone le possibilità di conoscenza, di espressione, di congiunzione. Il corpo in tutta la sua fenomenologia di possibilità, corpo che crea, corpo che desidera, corpo che aggredisce e che lotta, corpo che riposa e corpo che fa corpo con la carne del mondo. Corpo come perno di una sovversione del processo di educazione, corpo integro, resuscitato, felice.

sabato 14 maggio 2011

La "tigre cinese" e il ritorno del nazismo educativo


Il metodo “tigre cinese”, che in realtà, più che essere il rimedio orientale al permissivismo occidentale, appare la riedizione appena un poco attualizzata di un antico autoritarismo famigliare ben noto anche nel nostro emisfero, porta a fare alcune riflessioni piuttosto allarmanti.
Da un lato l’aberrante idea, che soggiace al galateo educativo famigliare della cinese di ferro, che i figli siano in debito verso i genitori. Ma di cosa, vien da chiedersi. Come se l’avessero chiesto loro di venire al mondo…
In secondo luogo, l’elemento più odioso che soggiace a questo abominevole episodio è l’idea che i figli siano proprietà privata dei loro genitori, che non solo vogliono, ma si ritengono perfettamente in diritto di disporre del loro destino come gli aggrada. La storia di questa Amy Chua, la cui loquela arcigna e pedante è stata già ben documentata dalle sue apparizioni televisive, naturalmente non meriterebbe alcuna seria disamina se non fosse proprio per la smodata e un po’ morbosa attenzione che le è stata tributata qui da noi. E cioè da un mondo culturale che davvero dimostra in tal modo non solo di non sapere che pesci pigliare di fronte ad una generazione di giovani che giustamente non è più né ossequiosa né ubbidiente e che rivendica la propria autonomia profonda ma che, peggio, rincula drammaticamente verso gli orrori del passato.
Amy Chua fa inorridire non solo perché riporta in auge modelli d’educazione che speravamo morti e sepolti, con i loro cadaveri nell’armadio, almeno nelle province avvertite del mondo, ma anche perché conferma, nell’epoca in cui la famiglia cade (finalmente) a pezzi, che quest’ultima continua a essere considerata, dalla cosiddetta doxa, l’ultima trincea di fronte alla barbarie, proprio nel mentre ne è spesso a mai come in questo caso la più terribile generatrice. La storia della “tigre” fa tornare in mente il bel film australiano che uscì una quindicina di anni or sono, Shine, sulla storia, vera, di David Helfgott, pianista al quale le torture paterne che ne volevano fare appunto un musicista di successo, generarono invece l’esplosione di una psicosi solo a grande fatica in parte recuperata.
La morale è la seguente, per chi ha ancora qualche nostalgìa di morale: i figli non sono nostra proprietà, sono altro da noi, e per poterne assecondare il destino, occorre molta attenzione, uno sguardo partecipe, che riconosca in loro quel tratto che ne evoca la destinazione, spesso molto lontana dalle nostre aspettative, la “eachness”, come la chiama James Hillman. Quella “ciascunità” che, invece che con un progetto concentrazionario, come nel caso di questo ibrido naziharvardiano di Amy Chua, intenda manifestarsi con una sagace intelligenza immaginativa, quella che sa innamorarsi della fantasia dell’altro e predisporne le possibili vie di realizzazione.

mercoledì 4 maggio 2011

Elogio del bambino barbarico


L’infanzia è stata scippata. Sequestrata. Reclusa in luoghi senz’aria e senza sbocco. Intrappolata nella famiglia prima e nella scuola dopo, canalizzate tra loro da corridoi di palestre, sale giochi e macdonalds, l’infanzia vive nel soffocamento e nell’isolamento. Rapita dalle strade, dai cortili e dai giardini, non sventola più come una bandiera iridata sui mezzi mercuriali del suo fluire vertiginoso, in bicicletta, sui pattini o semplicemente in corsa, ora è bloccata sulle seggiole sghembe delle celle casalinghe, delle aule scolastiche, decrepite e avvilenti, dei linoleum e delle moquette infeltrite e avvelenate.
Come restituire l’infanzia al mondo “senza negazione” e l’aperto all’infanzia? Quell’aperto dove il poeta la vedeva affacciata, dischiusa sull’infinito come solo l’animale sa essere, ed ora come l’animale stesso ingabbiata, domata, corrotta? Il bambino, come diceva Bachelard, viene reso “oggettivo”. “Lo si prepara alla vita nell’ideale degli uomini inseriti”, entra così nella zona dei conflitti familiari, sociali, psicologici. Diventa un uomo prematuro, un "uomo prematuro in stato d’infanzia repressa”. Strappato al “lucore” dei “limbi” e alla fantasticheria umbratile delle sue solitudini, è immesso nel circuito degli strappi e delle compressioni che debbono estirparne l’incommensurabilità, l’anima di fauno e l’aspetto camaleontico.
Non c’è rapimento, fuga o “pederastro”, per dirla con Schérer e Hocquenghem, che possano sottrarlo all’infausto destino della sorveglianza e dell’addomesticamento. Sottoposta a vigilanza continua, scrutata dalla lente della totalizzazione psicologica e frugata nei suoi recessi di inafferrabilità, l’infanzia perisce e con essa un mondo ancora affermativo e vitale di cui era l’emblema rutilante. Niente più infanzia sporca, sanguinante, fangosa, solo soldatini piombati, curvi sotto le cartelle e sotto lo sguardo solerte dell’adulto legislatore e sanzionatore di turno.
Basta con l’infanzia privatizzata, ghettizzata, sorvegliata. Facciamo una città che risuoni di gazzarra e di moti accelerati e imprevedibili. Città mercuriale, elfica, dionisiaca. Fuori dal mortorio delle lezioni e degli schermi obbligati, il cemento come pista infinita, la terra come letto di zuffe, gli alberi come trampolini di cielo, le grandi altalene di Wenders, il circo e le focacce croccanti. Rovesciare il mondo che non è più di nessuno, neppure di adulti dall’agenda gravida e dall’affaccendamento senza orizzonte, mondo spadroneggiato solo dell’astrazione scambio. Restituirgli carne, zuffe e pelle polverosa. Lì l’ esperimentum mundi, la prova e la sfida. Lì la catena che si schioda dalle barriere e dai pali del tempo saturnino. Adulti e bambini al sacco della città, come li voleva Fourier, piccole bande di gustatori, ma anche di pulitori, di fattorini, di apprendisti del bar. Scambiare le ore di parola con le ore di esperienza, che poi diventa anche parola e immagine e gesto, nell’arena a cerchio e a spirale che potrebbe diventare la scuola. Fine dell’ “educastrazione”, inaugurazione di un’eupedìa innervata nelle “arterie della città”, fermento di una rinnovata connessione tra le “immensità primitive”, il “pane ben imburrato” dell’esperienza e il reticolo affascinante e labirintico di un territorio di nuovo palpabile e percorribile, acceso di legno combusto e di frizzante letame odoroso.
Bambini barbarici e scatenati contro il bambino “culcùlo” dell’ortometrìa pedagogica calcolata e disciplinata.

venerdì 11 marzo 2011

L'opera di "distillazione" di Peter Brook

Poche e lievi note spinte nell'aria da un pianoforte si distendono, avvolgono e abbracciano gli spettatori nello spazio vuoto del teatro, alcune canne di bambù, che dalla terra si innalzano verso l'alto invocando la presenza di un cielo necessario, riempiono un palcoscenico spoglio, un uomo lo attraversa: ha inizio la rappresentazione.
Così è incominciato Un flauto magico, l'ultimo spettacolo di Peter Brook, così il regista britannico ha dato un senso alla sua necessità di fare teatro: un'opera di "distillazione" che toglie, elimina, purifica per arrivare a restituirci un'opera essenziale, simbolica, un microcosmo che si ricostituisce ogni volta all'interno di uno spazio vuoto, a cui il teatro trasmette "il gusto fuggevole e bruciante di un altro mondo in cui quello della quotidianità si integra e si trasforma". E Brook sembra farsi custode di questo spazio elettivo, ispiratore e tutore di un'operatività alchemica che cuoce nell'alambicco del teatro la materia prima dello spazio, degli attori e degli spettatori per creare, attraverso una progressiva eliminazione, il vuoto.
Il vuoto dello spazio è una radura, un cerchio magico che consente un rapporto diretto tra gli attori e il mondo, un luogo propizio illuminato e circondato dall'oscurità che favorisce la concentrazione dell'attore e dello spettatore, è un tappeto che Brook utilizza per tutte le improvvisazioni fuori dal teatro, in mezzo alla natura, che condensa e delimita lo spazio di rappresentazione designando quella rottura ontologica indispensabile perchè il teatro si manifesti. E' il teatro parigino de Les Bouffes du Nord: un edificio e un rifugio, vitale e funzionale, situato ai margini della città che attrae Brook per la sua bellezza di rughe, per la bellezza delle rovine: "bruciacchiato, macchiato dalla pioggia, tappezzato di buchi e tuttavia nobile, umano, rosso, incandescente". Un luogo impuro, doppio, sorprendente e ambiguo che diviene simbolo di un luogo ritrovato e rianimato. Uno spazio che Brook prepara ogni volta coltivando quell'intimità tra sala e scena che vieta l'ampiezza degli effetti e facilita il riavvicinamento dei corpi, che permette di percepire ogni minima sfumatura di rumore, la pesantezza e la leggerezza dei passi nudi degli attori. La distanza intima fa percepire la luce degli occhi, il pallore di un volto, il placarsi e il soffrire, vediamo gli attori e gli attori ci vedono.
Il vuoto dell'attore è il processo di spossessamento dell'io verso quella qualità di presenza "speciale" che spazza via l'individualità umana e ricolloca il corpo in una dimensione pre-espressiva, transculturale. Attraverso un momento iniziale di dissoluzione, di eliminazione di tutto ciò che non è necessario, dei condizionamenti delle abitudini, l'affollarsi delle emozioni e le resistenze della ragione, il corpo dell'attore si fa intermediario: un organismo vivo da cui scaturisce l'energia vitale che si configura in molteplici immagini sottili che prendono forma e si irradiano nello spazio mediatore della scena, della spazialità teatrale. Come il corpo di Yoshi Oida, attore giapponese del gruppo internazionale di Brook, che durante un esercizio di improvvisazione si fa aria, acqua, terra e fuoco concentrando la sua energia nel momento di sospensione in cui l'intenzione dell'attore è decisa e sta per fare, nella miniaturizzazione del movimento, nell'immobilità in moto del corpo e del pensiero. L'attore giapponese riesce ad evocare, al di là della forma esteriore, una realtà più vasta, a riconnettersi all'universo rimanendo, come lui stesso racconta, tranquillamente fermo, "solo in mezzo all'agitarsi di corpi che si contorcevano in tutte le direzioni, strisciavano per terra, emettevano suoni da alta voce".
E nel vuoto del teatro, da cui proviene e in cui si raccoglie l'evento che sta per germogliare, lo spettatore è condotto e coinvolto dal desiderio dell'attore nel momento presente della rappresentazione, nell'immediatezza di un teatro che riallaccia legami perduti, in un atto di comunione che lo fa partecipare a un'esperienza collettiva, diffusa e avvolgente, a una percettività corporea, a una visione e a una comprensione trasformata e rinnovata.
Se il teatro, come afferma Brook, esiste solo quando accade, scrivendo di teatro ci si dedica forse a un atto assurdo, contro natura, se non addirittura impossibile. Ma proprio perchè impossibile, così come tradurre, si prova ogni volta a raccogliere la sfida con l'aiuto delle parole. Parole che, come suggerisce Eugenio Barba, non vogliono fissare e rinchiudere l'esperienza in teorie e concetti, ma volando come farfalle dalle ali leggere, tra luci e ombre, ci vengono incontro per evocare l'esperienza, per divenire presenza, per testimoniare un bagliore, un soffio, la vita di una scena di teatro.

domenica 27 febbraio 2011

api dell'invisibile


L’insistenza rilkiana sulla trasformazione del visibile nell’invisibile, di cui sono emblema gli Angeli ma di cui sono attori i poeti, mi ha sempre incantato e turbato al tempo stesso. Che cosa indica questo, quale compito addita all’arte, forse da sempre implicito in essa, oltre l’apparente virtù di darci rappresentazione del mondo?
Sempre più mi si rivela che quel “bottinare il visibile” per raccoglierlo nell’ “arnia d’oro dell’invisibile” è ciò che individua la specifica forma di evento che è l’arte, quando non si tradisce, si estenua o si svende. Fare il visibile sempre più invisibile, questo gesto elegiaco, questo ricoverare in un’intimità segreta il violento configgere le cose ad una loro supposta oggettività, è forse più ed altro da un semplice gesto di tenerezza e di compassione cosmica. O meglio è certo uno spossessamento, un deragliamento dall’abitudine di dominare e im-porre per dissolvere la presenza in un altrove ma, ancor più, forse è un metter radicalmente in discussione lo statuto e la forma creduta delle cose. Se il visibile è il modo in cui non certo per propria virtù, ma per il nostro disporle alla nostra portata, le cose si danno, allora forse quell’accompagnamento all’invisibile è il movimento che le restituisce al loro costitutivo nascondimento. Al loro essere senza forma, prima e dopo la forma. Ben altro che un’opera di revisione e riproposizione di forma, l’atto artistico si rivelerebbe per quello che dovrebbe essere, e tanto di frequente, nell’accecante bagliore del suo “bruciare”, è: una sottrazione di forma che rivela l’imprendibilità del reale. Ogni atto dell’immaginazione creatrice sarebbe, dunque, un riaccasare la cosa presso quel “piano di consistenza” che ritorna le cose alla loro immanenza preformale. Qualcosa che assomiglia, tanto per restare nel solco del linguaggio di Gilles Deleuze, a quel venir meno dell’imperialisimo del volto, per lasciar trasparire l’indisciplina della “viseità”, che a volte, come in un lampo, o in un “tic”, appare d’improvviso per reinabissarsi sotto il controllo dell’espressione. Il che, si badi bene, non significa un semplice annegamento, un precipitarsi nell’indistinzione, quanto semmai una proliferazione di espressioni ancora senza nome. E non è del resto questo ciò cui assistiamo nella dissipazione della Sainte Victoire di Cezanne, nello smottamento dei volti di Rembrandt, Bonnard e Music nei loro ultimi autoritratti, o nella deflagrazione dei monocromi di Rothko, alla fine del suo viaggio? La durée di un’opera, che attinga lentamente il suo destino di prosciugamento dell’inquadramento consuetudinario di uno sguardo captatore e soggiogatore come quello del soggetto umano, non sta forse proprio in questo restituire l’oggetto, bottiglia di Morandi o cretto di Burri, al suo rango di molteplice in perenne metamorfosi? E non è proprio in virtù di ciò che possiamo attingere, in folgoranti momenti, nel terremoto delle nostre coordinate, quelle attraverso cui ci assicuriamo una stabilità ma anche quelle attraverso cui neutralizziamo il dinamismo inoggettivabile del divenire, la fisionomia cangiante e stupefacente nelle cui trame ci “aboliamo” finalmente? L’opera d’arte ci soccorre incutendoci abissali timori, ci soccorre perché evita che soccombiamo alle nostre stesse finzioni, alla nostra illusione che le cose stiano lì dove noi crediamo che sono, presenti e manifeste in una loro forma disponibile. Genera in noi però il tremore di chi si sa infine incerto e molteplice, gettato nel flusso degli invisibili, impedito così di recare danno a quel tessuto metamorfico del quale è sempre partecipe pur nell’andirivieni dei suoi tentativi maldestri di padroneggiarlo.
L’opera d’arte, questo salvifico travaglio dell’invisibile, attenua l’ingenua credenza di essere al centro, ci rifa periferici e minori, lenti e dubbiosi, ma anche incantati nella costellazione degli “eventi”.

mercoledì 16 febbraio 2011

Per una pedagogia immaginale d'infanzia


L’infanzia, a cui fa riferimento la pedagogia immaginale non è intesa in senso letterale, ma nella sua dimensione archetipica di stagione immaginativa per eccellenza. Diventa una condizione conoscitiva più che una posizione anagrafica, una modalità che non classifica, non categorizza e non scinde la realtà, ma al contrario, grazie a uno sguardo appassionato e attento, ne tenta una ricomposizione. Infanzia, dunque, come possibilità di uno sguardo che può connettere e collegare ciò che il nostro atteggiamento separatore, razionale, classificatorio ha diviso e separato per imporsi ed ergersi sul mondo, dimenticando di esserne parte, distaccandosi da esso. Con uno sguardo che tenta di sensibilizzare e far brillare l’ingenuità, l’invisibilità, la corporeità, l’incertezza, la solitudine, il procedere incespicante e curioso del Paìs. Lo sguardo d'infanzia si pone al tempo stesso come pre-condizione e punto di approdo di un percorso immaginale, via d’accesso alle immagini e riscoperta di “quel nucleo infantile atemporale” che permane, come suggerisce Bachelard, in ogni animo umano e che si rivela nelle immagini dei poeti.
Le proposte educative, rivolte all’infanzia dal panorama pedagogico attuale, incarnano e declinano, nella maggior parte dei casi, alcuni miti formativi di cui è impregnato il nostro mondo adulto; miti come la crescita, il miglioramento, il cambiamento che rivelano il loro statuto di perno ideologico su cui si fonda la nostra società, ove chi voglia ottenere il successo debba porsi come obiettivo il crescente sviluppo delle proprie potenzialità, il veloce superamento delle contraddizioni e dei dubbi, il pronto oscuramento dei propri limiti e difficoltà. La ricetta dell’Up or Out si accompagna alla sfrenata ricerca della novità che, anche in campo educativo, tenta di esorcizzare il fantasma della noia, non tollera la perdita di tempo, né la pratica della ripetizione, fugge il già visto ma anche l’invisibile, a favore di orizzonti ben più luminosi e programmabili.
Al centro dei discorsi e delle pratiche sul bambino, dunque, c’è sempre un’immagine di soggetto attivo, protagonista, creativo e inventivo, se possibile produttore, anche se di prodotti svalutati col termine di «lavoretti». Il bambino, a fronte di una presunta attenzione e valorizzazione della sua specificità infante, viene in realtà impegnato in una moltitudine di attività da uno sguardo adultificante che lo vorrebbe sempre più competente, creatore, fantasioso. Un bambino che viene continuamente e ossessivamente stimolato e poi misurato, valorizzato, compiaciuto o consolato. Ma nella continua ossessione attivistica il bambino soffre, gli viene sottratto il tempo del riposo, della solitudine, della noia, delle sue «rêveries» di bambino solitario.
La pedagogia immaginale ci richiama ad uno sguardo nuovo, meno netto ed eroico; ci invita alla riscoperta di un’impronta notturna, bachelardiana, nel rapportarsi con se stessi, gli altri, il mondo ovvero ad essere segnati più dalla contemplazione che dall’azione. Questo «sguardo ritrovato» può abitare anche il bambino, a patto che sappia soggiornare nel mondo in modo più umile, assorto e contemplativo. Lo sguardo infante, infatti, a dispetto del nome, non è spontaneo o naturale nel bambino, l’infanzia dello sguardo è semmai una promessa, un traguardo, dal momento che richiede concentrazione, passione, cura. Crediamo sia necessario riequilibrare la parcellizzazione del conoscere, la preoccupazione per gli apprendimenti formali e il sapere disciplinare, il vincolo dei programmi che si impone a partire dai primi anni della scuola primaria e si insinua anche nella scuola dell’infanzia. Una pedagogia immaginale d'infanzia invita a fare esperienza con un approccio orientato alla dimensione simbolica e immaginativa, attraverso una postura conoscitiva che non abbia la pretesa di svelare un unico e definitivo significato nelll'esperienza, che non si ponga in prensione rapace dell'esistente, ma che al contraio, si rivolga, come spaesata, in una ricerca continua di possibili risposte e significazioni, che sia rivolta all'Aperto. Il tempo dell'educare si riscopre così come momento sottratto alle logiche produttive, come momento di compensazione per equilibrare la frenesia insistente della performance, come momento rituale e profondamente spaesante per imparare a decentrarsi e a conoscere con passione, senza l'ansia di aggiungere, infilare o inculcare particolari apprendimenti.
Una pedagogia immaginale d'infanzia propone un'amicizia intima tra bambino e opera d'arte sotto il segno della contemplazione, valorizzando con i bambini proprio l’accostamento e il momento dello sguardo che si posa sull’opera come momento magico, in cui avvenga un incontro particolarissimo, carico di mistero e di stupore con il mondo del totalmente altro, dell'inconsueto. Le immagini diventano per il bambino uno scrigno antico e misterioso, colmo di significati simbolici da esplorare e in cui perdersi e per avvicinarsene dovrà compiere un percorso di avvicinamento progressivo, dovrà sostare con esse, provare a nominarle interpretarle condividendo con gli altri questa nuova e atavica passione.  
Elisa, Francesca, Sara